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Card. Zuppi ricorda l’impegno del neo card. Lojudice a favore dei Rom

29 Novembre 2020 - Bologna -  Il popolo nomade il neo cardinale, Paolo Lojudice, li aveva conosciuti quando era parroco a Tor Bella Monaca, nella zona est della capitale, ma li aveva visitati regolarmente per anni nei campi sosta e “vi aveva portato tanti seminaristi (tutti!) perché si impegnassero personalmente a favore degli ultimi”. A ricordarlo è oggi il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, il giorno dopo la creazione dei nuovi porporati voluta da Papa Francesco. Tra questo proprio l’attuale arcivescovo di Siena-Colle Val d’Elsa-Montalcino. Il card. Zuppi, in un articolo su un  quotidiano, ha voluto ricordare una celebrazione,  il 26 settembre 2012, al Santuario del Divino Amore, presso la chiesa all'aperto dedicata al beato Zefirino (il santo zingaro canonizzato da San Giovanni Paolo II). La data “era per ricordare l'anniversario del primo incontro ufficiale della Chiesa con il mondo dei rom e dei sinti voluto da Papa Paolo VI proprio il 26 settembre 1965 e il ricordo ad un mese esatto dalla sua morte di don Bruno Nicolini, fondatore dell'Opera Nomadi, tra gli organizzatori di quel pellegrinaggio che a poche settimane dalla conclusione del Concilio Vaticano II voleva indicare l'attenzione e la maternità della Chiesa verso quanti vivevano (e vivono) in condizione di estrema emarginazione”. In quella occasione “si raccolsero tanti rom e sinti, con alcuni religiosi e volontari che li accompagnano nella loro peregrinazione ai margini della città“. Tra i concelebranti vi era anche il neo card. Lojudice e l’altro porporato, creato ieri, mons. Feroci. “Don Paolo - scrive il card. Zuppi - voleva superare le barriere e vivere quello che ha ricordato nella sua ultima enciclica Papa Francesco ‘Fratelli tutti’, cominciando da quanti, come i rom e i sinti, sono tra i più discriminati, anche all'interno della Chiesa. Con loro, che certamente ti benedicono, anche io ti dico: Lacio Drom, don Paolo, buon cammino!”

Migrantes Torino: un corso per conoscere Rom e Sinti

13 Novembre 2020 -

Torino - Chi sono le persone che chiamiamo rom? Di cosa parliamo quando parliamo di “campi nomadi”? A fronte della Strategia nazionale di inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti, a quali sfide siamo tutti chiamati a rispondere? E a quali, in particolare, come cristiani?

Questi gli interrogativi sui quali la Fondazione Migrantes con l’Ufficio Migrantes di Torino vuole avviare la riflessione con volontari di parrocchie e associazioni che vogliano mettersi in gioco per confrontarsi costruttivamente con Rom e Sinti che bussano alle porte delle comunità che si insediano vicino alle chiese.

Lo fa organizzando un corso in 4 incontri dal titolo “Comunità rom e sinti: oltre i luoghi comuni. Conoscere, incontrare, riflettere” che prenderà il via il 18 novembre. “È una occasione”, spiega Sergio Durando, direttore Migrantes di Torino, “che risponde ad una triplice esigenza: quella di avviare con Rom e sinti relazioni non assistenzialistiche, quella di creare relazioni costruttive tra le varie realtà che si occupano di loro, quella di intervenire positivamente sulle situazioni comprendendo difficoltà, risorse, conoscendo leggi ecc”.

Un corso qualificato dalla presenza di relatori esperti che affronta dunque il tema nomadi da un punto di vista antropologico, normativo, socio-pastorale, rivolgendosi a operatori che siano già impegnati sul campo o vogliano intraprendere questo tipo di servizio nei confronti di famiglie spesso emarginate da pregiudizi, escluse da una vita dignitosa.

Nei quattro incontri verrà fatta in particolare un’analisi della situazione delle politiche attuate oggi sul territorio nazionale e torinese per “promuovere nelle comunità cristiane la comprensione e la valorizzazione dell’identità rom e sinti, e di incoraggiare l’impegno specifico di operatori pastorali in atteggiamenti e opere di fraterna accoglienza”. ​

Rom: il piano decennale Ue per sostenere le popolazioni rom all’interno dei Paesi

9 Ottobre 2020 - Bruxelles   - Uguaglianza, inclusione, partecipazione, istruzione, occupazione, sanità e alloggi: sono i sette settori-chiave che la Commissione europea indica nel piano decennale al fine di sostenere le popolazioni rom all’interno dei Paesi Ue. Per ognuno di questi settori la Commissione ha elaborato “nuovi obiettivi e raccomandazioni che indicano agli Stati membri come realizzare gli interventi e che costituiranno anche strumenti importanti per monitorare i progressi compiuti e garantire che l’Ue compia maggiori progressi nel fornire il sostegno essenziale di cui molti rom che vivono nell’Unione hanno ancora bisogno”. Vera Jourová, vicepresidente della Commissione, spiega: “In poche parole, negli ultimi dieci anni non abbiamo fatto abbastanza per sostenere la popolazione rom nell’Ue. È imperdonabile. Molti di loro continuano a essere vittime di discriminazioni e razzismo ed è qualcosa che non possiamo accettare. Oggi promuoviamo nuovi interventi per correggere questa situazione, con obiettivi chiari e un rinnovato impegno per ottenere un reale cambiamento nel prossimo decennio”. Nel documento presentato dall’esecutivo di Bruxelles emerge che “l’emarginazione persiste e molti rom continuano a dover far fronte nelle loro vite quotidiane a discriminazioni ingiustificate, antiziganismo ed esclusione socioeconomica”. L’obiettivo che il piano decennale Ue per i rom persegue è la “parità effettiva e sostanziale”. La Commissione esplicita però alcuni “obiettivi minimali” entro il 2030. Tali obiettivi sono così espressi: ridurre di almeno la metà la percentuale di rom vittime di discriminazione; raddoppiare la percentuale di rom che denunciano le discriminazioni subite; ridurre di almeno la metà il divario di povertà tra i rom e la popolazione in generale; ridurre di almeno la metà il divario per quanto riguarda la partecipazione all’istruzione della prima infanzia. Altri obiettivi di medio periodo sono: ridurre di almeno la metà il divario in termini di occupazione e il divario di genere nei livelli di occupazione; ridurre di almeno la metà il divario per quanto riguarda l’aspettativa di vita; ridurre di almeno un terzo il divario in termini di disagio abitativo; garantire che almeno il 95% dei rom abbia accesso all’acqua di rubinetto. Per conseguire tali obiettivi, molto concreti e oggettivamente urgenti, “è fondamentale – secondo la Commissione – che gli Stati membri mettano in atto politiche adeguate”. La Commissione ha stilato anche un elenco di misure che gli Stati devono adottare per accelerare i progressi verso l’uguaglianza, l’inclusione e la partecipazione dei rom. Gli orientamenti e le misure spaziano dallo sviluppo di sistemi di sostegno per i rom vittime di discriminazione a campagne di sensibilizzazione nelle scuole, al sostegno dell’alfabetizzazione finanziaria, alla promozione dell’occupazione nelle istituzioni pubbliche e al miglioramento dell’accesso a controlli medici. “Affinché l’Unione europea diventi un’autentica Unione dell’uguaglianza dobbiamo garantire che milioni di rom siano trattati equamente, siano socialmente inclusi e possano partecipare alla vita sociale e politica senza eccezioni”, ha detto Helena Dalli, commissaria Ue per l’uguaglianza: “Con gli obiettivi fissati  nel quadro strategico, ci aspettiamo di compiere progressi concreti entro il 2030 verso un’Europa in cui i rom siano riconosciuti come parte della diversità della nostra Unione, partecipino alle nostre società e abbiano tutte le opportunità per contribuire pienamente alla vita politica, sociale ed economica dell’Ue e trarne pieno beneficio”. La Commissione invita gli Stati membri a presentare strategie nazionali d’inclusione entro il settembre 2021 e a riferire sulla loro attuazione ogni due anni. La Commissione monitorerà inoltre i progressi verso il conseguimento degli obiettivi per il 2030 sulla base dei contributi delle indagini condotte dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali e dei contributi della società civile.

Il sogno di fratel Luciano: aiutare i rom

22 Settembre 2020 - Roma - Vedere ogni mattina uscire dal quartiere tutti i bambini con lo zaino sulle spalle, tenendosi per mano, per andare a scuola ed imparare ad essere uomini responsabili e liberi: questo è stato il sogno di fratel Luciano Levri, che per vent’anni ha coordinato la missione marianista a Lezha (Alessio), in Albania, per il riscatto della popolazione rom. Un sogno per realizzare il quale il missionario marianista ha lavorato instancabilmente, giorno dopo giorno, dialogando, tessendo relazioni e smantellando pregiudizi. Quest’anno, i bambini rom di Lezha che si sono messi lo zainetto in spalla per andare alla scuola statale sono stati 190. Dai più piccoli, che frequentano la prima ai ragazzi che affrontano la nona classe. Domenica 13 settembre, a poche ore dal tanto atteso suono della campanella, quando le cartelle erano già pronte vicino alla porta di casa, anche fratel Luciano, del tutto inaspettatamente, ha preparato il suo zaino. Da alcuni mesi si trovava a Roma per una cura cardiaca. L’ultimo improvviso attacco, domenica scorsa, gli è stato fatale. Nato nell’ottobre 1944 a Lomaso, in provincia di Trento, Luciano si diploma al liceo classico e diventa laico marianista, abbracciando la vocazione propria di quest’ordine, il missionarismo culturale. Si laurea in filosofia alla Cattolica di Milano nel 1973 e per qualche tempo insegna a Campobasso e nel collegio marianista di Pallanza, finché nel 1974 è chiamato in Calabria, a Condofuri, a guidare la missione marianista. Sono anni molto intensi, durante i quali fratel Luciano fonda un centro giovanile attraverso il quale promuove la difesa dei diritti delle persone. Il suo parlare semplice e schietto, senza paura, e il coraggio di denunciare apertamente ciò che non va non piacciono. La risposta dei cosiddetti “poteri forti” non si lascia attendere. Nel 1991 una bomba viene fatta esplodere davanti al centro giovanile gestito dai marinisti. Fratel Luciano lascia nel 1995 la Calabria. “Ero come uno straccio che non asciuga più - raccontava in un documentario realizzato nel 2016 dal Centro missionario di Trento –. I miei superiori mi hanno rimandato a insegnare in un collegio. E qui c’è stato l’incontro con don Simone Jubali (1927-2011), prete albanese che ha fatto 27 anni di carcere duro, rinchiuso nelle prigioni più pesanti perché si rifiutava di obbedire al regime comunista”. Don Jumali propone ai marinisti di andare a Lezhe, per fondare una comunità in Albania. Fratel Luciano prepara ancora una volta la sua valigia e parte. La nuova comunità di Lezha viene fondata nel 2000. “Era una realtà che aveva bisogno di essere accompagnata a crescere – raccontava -. Abbiamo dato vita a una tipografia per favorire la diffusione della cultura e al centro giovanile S. Maria, per essere accanto alle giovani generazioni. All’inizio non è stato facile c’è stato il periodo della diffidenza e delle minacce, ma poi, col tempo, si è instaurato un rispetto reciproco, mai sfociato, però, nell’amicizia. È molto difficile che un rom e un bianco facciano qualcosa insieme: rimane questo retaggio di emarginazione e frustrazione per quello che generazioni di rom hanno subito da parte dei bianchi”. Nel 2004, a causa di una grande alluvione, il quartiere di Skenderberg, abitato principalmente da rom ed ashkali (o “evgjit”, come vengono chiamati in Albania) viene sommerso dall’acqua. La Caritas locale chiede ai marinisti di preparare i pasti per le famiglie rom che abitavano nelle baracche allagate e che erano attendate in misere tendopoli, montante su cumuli di immondizia. Tra un panino e un piatto di minestra calda, fratel Luciano conosce così quella che sarebbe diventata la sua nuova famiglia. E inizia a coltivare un sogno. “Prima abbiamo iniziato con corsi per insegnare ai ragazzi di 13-16 anni, a leggere e scrivere. Poi ci siamo chiesti: perché non iniziare quando l’età è giusta? Di lì a pochi mesi 24 bambini rom, tutti con un fiore di plastica in mano, sulla piazza della scuola, stretti l’uno all’altro perché avevano paura, hanno iniziato a frequentare la scuola pubblica”. “È possibile cambiare – spiegava fratel Luciano – ma a due condizioni: se noi diamo loro un sogno e se non li lasciamo soli. In tutto questo è importante la relazione, il conoscersi, il fatto che loro sappiano qualcosa di te, non solo che tu sappia qualcosa di loro. Perché Dio non ama il gruppo, la razza, i rom; Dio ama Maria, Keli, Jilir e per ognuno ha una carezza, una lacrima. Occorre arrivare al volto delle persone. Questo significa conoscerne il nome, la situazione, la famiglia, ma anche farsi conoscere. La misericordia se non è l’incontro di due volti, diventa sempre un dare senza ricevere niente. Credo che anche la carità, se non è riempita dalla relazione, è un togliersi di dosso la persona, è un dare senza coinvolgersi, senza farsi cambiare la vita. È lì che la carità porta frutto, quando mi cambia la vita e mi trasforma in una persona col cuore grande che si apre agli altri. La solidarietà è una relazione fatta dal dono. Donare è un’azione eversiva, rivoluzionaria, perché non aspetta il contraccambio. Il dono è affidare nelle mani dell’altro un bene per il quale io non voglio essere ricambiato. La solidarietà è fatta di relazione e di dono”. Il cordoglio per la morte di fratel Luciano ha superato in questi giorni le frontiere nazionali, unendo nel suo ricordo tante persone dal Trentino alla Calabria e all’Albania, fino ad arrivare a Roma. Gente di ogni estrazione culturale e religiosa, cristiani e musulmani, “gage” (bianchi) e rom. Tra i tanti i messaggi postati in questi giorni sulla pagina Facebook di fratel Luciano, anche quello di Fabio Colagrande, giornalista di Radio Vaticana: “Ci ha lasciato uno dei migliori uomini di Chiesa che ho conosciuto nella mia vita: fratel Luciano Levri, marianista e missionario in Albania, a Lezhe, dove in questi anni ha realizzato, fra le altre cose, un progetto senza precedenti per l’integrazione dei bambini rom. Se esiste davvero il paradiso, lui c’è andato come un razzo. Un vero santo. Ciao Luciano, grazie di tutto e proteggici da lassù”. (Irene Argentiero)

Mons. Palmieri nuovo Vicegerente della diocesi di Roma: l’impegno per il mondo rom

19 Settembre 2020 - Roma – E’ mons. Gianpiero Palmieri il nuovo vicegerente della diocesi di Roma. Lo ha nominato oggi papa Francesco conferendogli la dignità di arcivescovo nella sede titolare di Idassa. Mons. Palmieri, 54 anni, originario di Taranto, era vescovo ausiliare di Roma per il settore Est e vescovo delegato Migrantes della Conferenza Episcopale Laziale e delegato per la Carità, la Pastorale dei Migranti e dei ROM. Recentemente ha partecipato a Frascati al convegno degli operatori pastorali della Fondazione Migrantes impegnati con i rom e sinti. In una intervista in piena pandemia a questa testata ha evidenziato le difficoltà dei più bisognosi. “Viviamo a Roma e nel Lazio  una situazione particolarmente difficile, legata al fatto che molti migranti e rifugiati politici si trovavano già, ancor prima del diffondersi del Coronavirus, nella condizione precaria di non avere un luogo in cui abitare. Le leggi restrittive approvate dal precedente Governo, con le quali si rendeva difficile se non impossibile il rinnovo del permesso di soggiorno, visto il venir meno dei motivi umanitari, hanno spinto molte persone negli alloggi di fortuna o ad ingrossare le fila dei senza fissa dimora. E’ ovvio – sottolineava il neo vicegerente - che queste persone più di altre ora si trovano esposte al pericolo del contagio; alla precarietà sanitaria e alloggiativa si aggiunge per di più l’emergenza fame: le mense che abitualmente erano sufficienti per erogare pasti a chi ne aveva bisogno, non riescono più a soddisfare una domanda enormemente cresciuta. Quindi la situazione è critica da ogni punto di vista”. A mons. Palmieri gli auguri di un proficuo ministero.

Raffaele Iaria

 

Migrantes: oggi la conclusione del convegno per gli operatori pastorali “Amici dei Rom”

13 Settembre 2020 - Roma - “Il Vangelo tra i rom. Annunciare testimoniare condividere”. Questo il tema dell’incontro di pastorale con i rom e sinti in corso, fino ad oggi, a Frascati presso Villa Campitelli e promosso dalla Fondazione Migrantes. L’incontro, al quale partecipano 70 operatori, è stato aperto venerdì sera dal direttore generale dell’organismo pastorale della Cei ed riservato agli operatori  Migrantes. “Si tratta – spiega la Fondazione Migrantes – di un momento pensato non soltanto per quanti sono già impegnati in questa pastorale specifica, ma anche per quanti vorrebbero iniziare ad impegnarsi in essa”. “Siamo molto diversi fra noi per idee, esperienze, età, provenienze – ha detto don De Robertis – ed è bene che sia così ma accomunati da una stessa passione, da uno stesso amore. L’amore per il Vangelo e per io popolo rom che abbiamo incontrato in modi e tempi diversi ma che per noi è una ricchezza”. Tra i partecipanti il vescovo ausiliare di Roma e incaricato della pastorale Migrantes della Conferenza Episcopale del Lazio, Gianpiero Palmieri, il catecheta Enzo Biemmì, la presidente delle teologhe italiane, Cristina Simonelli. Durante la tre giorni diverse le testimonianze di operatori pastorali impegnati sull’intero territorio nazionale.

Raffaele Iaria

Migrantes: a Frascati l’incontro degli operatori pastorali “Amici dei Rom”

11 Settembre 2020 - Roma - Sarà Villa Campitelli a Frascati (Roma) ad ospitare da oggi a domenica l’incontro riservato agli operatori  Migrantes per la pastorale con Rom e Sinti. “Si tratta – spiega la Fondazione Migrantes – di un momento pensato non soltanto per quanti sono già impegnati in questa pastorale specifica, ma anche per quanti vorrebbero iniziare ad impegnarsi in essa”. Tra i  partecipanti il vescovo ausiliare di Roma e incaricato della pastorale Migrantes della Conferenza Episcopale del Lazio, Mons. Gianpiero Palmieri, il catecheta Enzo Beemmì, la presidente delle teologhe italiane, Cristina Simonelli. Durante la tre giorni diverse le testimonianze di operatori pastorali impegnati sull’intero territorio nazionale. I lavori saranno aperti e conclusi dal Direttore generale della Fondazione Migrantes, don Giovanni De Robertis.

Migrantes: a Frascati l’incontro degli operatori pastorali “Amici dei Rom”

8 Settembre 2020 - Roma - Sarà Villa Campitelli a Frascati (Roma) ad ospitare, questo fine settimana (11-13 settembre) l’incontro riservato agli operatori  Migrantes per la pastorale con Rom e Sinti. “Si tratta – spiega la Fondazione Migrantes - di un momento pensato non soltanto per quanti sono già impegnati in questa pastorale specifica, ma anche per quanti vorrebbero iniziare ad impegnarsi in essa”. Tra i i partecipanti il vescovo ausiliare di Roma e incaricato della pastorale Migranes della Conferenza Episcopale del Lazio, mons. Gianpiero Palmieri, il catecheta Enzo Beemmì, la presidente delle teologhe italiane, Cristina Simonelli. Durante la tre giorni diverse le testimonianze di operatori pastorali impegnati sull'intero territorio nazionale. I lavori saranno aperti e conclusi dal direttore generale della Fondazione Migrantes, don Gianni De Robertis.  

Famiglie rom di Roma scrivono a Raggi e alla città

28 Agosto 2020 -
Roma  - "Gentile sindaca Virginia Raggi, siamo famiglie che da decenni vivono a Roma. Siamo mamme e papà, cittadini romani nati e cresciuti a Roma, la città che amiamo e sentiamo nostra e nella quale tutti noi abbiamo frequentato le scuole. Molti di noi sono cittadini italiani, i giovani lo diventeranno a breve. La nostra è una storia di sofferenza e dolore, iniziata con la fuga dalla Jugoslavia e da quel momento condotta prima tra baracche e topi, poi dentro i recinti dei “villaggi” realizzati dall’Amministrazione Comunale".
Inizia così la lettera scritta  - e diffusa oggi dall'Associazione "21 luglio"  - a seguito di un percorso partecipativo, dalle famiglie che vivono all’interno dell’area F del campo rom di Castel Romano. La missiva è rivolta alla città di Roma ma soprattutto alla sindaca di Roma al fine di scongiurare lo sgombero della baraccopoli previsto il prossimo 10 settembre 2020 e soprattutto per proporre alternative concrete ad uno sgombero che appare in contrasto con il Decreto Legge n.18 del 17 marzo 2020 e successive modificazioni.
Lunedì 31 agosto, alle ore 12.00, in piazza del Campidoglio, prima di protocollare il documento, una delegazione degli abitanti della baraccopoli dell’area F di Castel Romano - informa una una nota - presenterà il testo. Insieme a loro saranno presenti Carlo Stasolla (Associazione 21 luglio), Riccardo Noury (Amnesty International), Riccardo Magi, parlamentare, Marta Bonafoni a Alessandro Capriccioli, consiglieri regionali, Giovanni Zannola, consigliere comunale, attivisti e rappresentanti della comunità ecclesiale.

Mons. Palmieri: sgombero campo rom senza progetto di ricollocazione

13 Agosto 2020 - Roma - «Li hanno sgomberati come rifiuti. E senza nessun progetto di ricollocazione. Si è intervenuti solo per un’emergenza costruita mediaticamente. Ma non va bene». È l’amara denuncia di mons. Gianpiero Palmieri, vescovo ausiliare di Roma, delegato per la Carità, la Pastorale Migrantes e Rom della diocesi capitolina. Il presule ha seguito - informa il quotidiano "Avvenire"  lo sgombero del campo Rom tra via del Foro Italico e il fiume Aniene. «Siamo andati a vedere perché lo riteniamo un intervento anomalo». E ci tiene in primo luogo a raccontare la realtà di questo insediamento. «Non si tratta di un campo abusivo ma 'tollerato'. Il Comune aveva installato i bagni chimici, mandava il pulmino per portare i bambini a scuola e aveva dato il permesso di avere lì la residenza». Inizialmente erano serbi, arrivati qui nel 1995 dopo uno sgombero a Tor Bella Monaca. Poi si sono aggiunte altre famiglie. Attualmente c’erano circa 250 persone, ma quando l'altro ieri alle 7 è scattato il blitz del Comune, con 80 uomini della Polizia municipale e alcune ruspe, erano rimasti solo in 12. «Non sappiamo dove sono finite. Probabilmente in zona. E ora andranno a ingrossare gli insediamenti informali» accusa il vescovo, molto preoccupato. Il Comune giustifica l’intervento con la necessità di eliminare l’enorme discarica sorta accanto al campo. «Potrebbe essere pericoloso innanzitutto per chi ci abita» ha spiegato Marco Cardilli, delegato alla sicurezza del Campidoglio. «Tutto è nato da un servizio delle Iene che hanno fatto vedere la discarica – rivela don Gianpiero –. Ma il Comune conosceva da anni la situazione. Per questo non è stato fatto bene questo intervento. Si poteva programmare per tempo, senza provocare questa fuga». Durante lo sgombero - aggiunge mons. Palmieri - "c’erano solo due operatori dei servizi sociali e molte più persone che si sono preoccupate di mettere in salvo gli animali".

Migrantes Campania: è “necessario” e “non più rinviabile” il processo di integrazione, unica strada che porta alla pacifica  convivenza

27 Giugno 2020 - Napoli - Oggi la comunità di Mondragone "sperimenta la difficoltà della convivenza tra persone di diversa etnia ma soprattutto tra persone in difficoltà". Lo scrivono, oggi, in una nota, il vescovo delegato Migrantes della Campania, mons. Antonio De Luca e il direttore regionale Antonio Bonifacio. Nella nota, pervenuta a www.migrantesonline.it,  la Migrante campana esprime "vicinanza alla comunità di Mondragone e sostegno alla diocesi di Sessa Aurunca, da sempre impegnata nel dialogo e nell’impegno sociale", ed auspicano che  questo "particolare momento di tensione sia lo sprono e lo spunto per iniziare quel percorso, necessario e non più rinviabile,  di integrazione, unica strada che porta alla pacifica  convivenza e partecipazione responsabile, senza distinzioni di etnia, provenienza, cultura, nell’interesse comune di vivere in maniera sana il proprio territorio, contrastando i 'portatori di odio e contrapposizione' che nell’attuale situazione alimentano interessi ingiusti e malsani". Nella nota mons. De Luca e Antonio Bonifacio sottolineano che quanto sta accadendo in queste ore a Mondragone, "ci spinge a riflettere sulle parole pronunciate da Papa Francesco in Piazza San Pietro il 27 marzo 2020: 'Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”'.  La pandemia ha colpito tutti i territori, "alcuni già complessi e martoriati da sfruttamento, caporalato, inquinamento ambientale, assenza di servizi e mancata integrazione".

R.Iaria

Ass. 21 luglio: 20mila i rom in emergenza abitativa in Italia

17 Giugno 2020 - Roma - Scende a 20.000 il numero di rom in emergenza abitativa in Italia. E’ quanto emerge dal Rapporto annuale dell’associazione “21 luglio” diffuso oggi. L’Italia è l’unico Paese in Europa ad aver creato, organizzato e consolidato negli ultimi 40 anni un sistema abitativo parallelo per comunità considerate di etnia rom che assume forma architettonica in quello che viene denominato impropriamente “campo nomadi” o “campo rom”, scrive l’associazione che fotografa la condizione delle comunità rom presenti negli insediamenti formali e informali, la prassi politica e il rapporto che intercorre tra il “sistema campi” e il resto della società. Il Rapporto ha come titolo “Periferie lontane – Comunità rom negli insediamenti formali e informali in Italia” ed offre uno spaccato della situazione in Italia e nella città di Roma. Dai 28.000 del 2017 ai 25.000 del 2018, sino ad arrivare, nel 2019 a 20.000 i rom che vivono in Italia nelle baraccopoli formali e informali, si legge nel Rapporto: di essi il 63%, pari a 12.700 unità, vivono in 119 baraccopoli istituzionali presenti in 68 Comuni italiani. L’anno precedente gli insediamenti mappati erano stati 127 in 74 Comuni. In tali aree il 47% dei residenti negli insediamenti formali ha la nazionalità italiana; il 42% è originario dell’ex Jugoslavia mentre, per il resto, si tratta di cittadini comunitari. Nel totale il 55% ha meno di 18 anni. Nel corposo Rapporto si legge anche che lo scorso anno 2019 l’Osservatorio dell’Associazione ha registrato un totale di 102 episodi di discorsi d’odio nei confronti dei rom di cui 39 sono stati classificati di gravità media-alta. La media giornaliera che si ricava è di circa 2 episodi a settimana. Rispetto al 2018 il dato complessivo rivela, un decremento del 18%. Tale diminuzione – si legge – “potrebbe derivare dalla maggiore attenzione del discorso politico e mediatico nei confronti dei flussi migratori in entrata. Si segnala inoltre il mutato linguaggio di alcuni attori politici e pubblici nazionali e locali che ormai hanno quasi abbandonato il ricorso a dichiarazioni manifestamente discriminatorio e incitante all’odio prediligendo invece un utilizzo di affermazioni stereotipate, collocandosi così al riparo da eventuali sanzioni”. Alla luce degli “incoraggianti dati emersi sul territorio nazionale”, si legge nel Rapporto, “bisognerà attendere il 2020 per vedere eventualmente il consolidarsi di un trend. Certamente in Italia qualcosa sta cambiando e potremmo trovarci di fronte all’inizio di una nuova stagione. Occorre mantenere alta l’attenzione – raccomanda Associazione 21 luglio – maturare un pensiero diverso, liberare le politiche da prassi etnicizzanti, orientare la bussola in direzione dei diritti umani. In molti casi, come si è potuto osservare su diversi territori, per superare le baraccopoli è sufficiente fare uso di quel buonsenso che ogni amministratore dovrebbe coltivare”- Il Rapporto verrà discusso e presentato oggi pomeriggio in diretta streaming sulla pagina Facebook di Associazione 21 luglio.  

La vita in un campo Rom durante il Covid 19

16 Giugno 2020 - Pistoia - Per fortuna sono rimasto al campo, sì perché all’inizio di questa pandemia, avevo pensato di trovarmi un posto “più sicuro”, sollecitato anche dall’invito di qualcuno a “mettere casa” temporaneamente in qualche parrocchia o canonica vuota, un posto senz’altro più tranquillo e adeguato. Tentazione passeggera e a dire il vero: mai presa in considerazione. D’altronde dove andare? Qui al campo non mi manca niente: compagnia, un tetto, un letto e il necessario per vivere anche per affrontare questa “quarantena-clausura”. E poi nessun Rom del campo poteva porsi questo interrogativo, allora perché io sì? La loro, la mia casa e la nostra è il campo. Andarmene avrebbe significato anche ingannare i Rom. Se all’inizio pensavo che stare al campo forse poteva portare qualche vantaggio, ora a distanza di qualche mese, sono abbastanza convinto che il campo in un certo senso ci abbia tutelato molto di più, rispetto alle altre realtà. Fino ad ora nessun contagio all’interno del campo, rispetto a Pisa che ne ha avuti circa 1000, ci sarà un motivo? Io posso immaginarlo, ma difficile provarlo senza prove concrete e verificabili. Ma la prima constatazione, quella più evidente è che la vita al campo, anche durante il Covid 19, è continuata sostanzialmente quasi come prima, anche se diverse cose, ovviamente sono cambiate. Ad esempio, gli appelli al distanziamento sociale, all’uso delle mascherine (qui al campo arrivate fuori tempo massimo) non hanno avuto grande ascolto. Anche il Covid 19 non ha interrotto la tipica vita sociale dei Rom e tra i Rom all’interno del campo, fatta di incontri, attività quotidiane, visite, liti, compleanni, tanta musica, il mese del Ramadan e compresa la festa del Giordan, (giorno di San Giorgio), tipica festa dei Rom Balcanici del 6 Maggio, anche se quest’anno in tono minore. I rom conoscono da tempo la fragilità, sanno di essere vulnerabili. Non hanno certo bisogno di esperti, di psicologi, di guru o di professori che insegnino le tattiche per affrontare i rischi della vulnerabilità. I Rom ci sono nati dentro la fragilità, ne hanno consapevolezza. E il campo, gran parte dei campi Rom sono allo stesso tempo causa e risposta alla vulnerabilità che sentono sulla loro pelle, da sempre. I Rom che abitano nei campi, soprattutto loro, hanno sviluppato quello che gli studiosi di sociologia chiamano resilienza: “La resilienza è la capacità di una persona o di un gruppo a svilupparsi bene, a continuare a progettarsi e proiettarsi nell’avvenire, in presenza di eventi destabilizzanti, di condizioni di vita difficili, di traumi a volte molto duri”. ( M. Marciaux) Il Covid-19 viene da fuori, è invisibile come il respiro, è una minaccia che colpisce indistintamente, non fa differenza di classi, di appartenenze, di fedi…i Rom sanno fiutare il pericolo, a modo loro e gradualmente percepiscono la gravità della situazione, ma lo affrontano senza esserne schiacciati.  In questo caso intuiscono che il “restare al campo” può essere la loro unica àncora di salvataggio. Gli stessi Rom (quelli integrati !?) che vivono in appartamenti in città, a contatto dei gagè sono visti con un po' di sospetto e timore, quando passano dal campo. Potrebbe apparire la loro una “incoscienza”, quando tutti si isolano nelle proprie abitazioni, si mantengono le necessarie distanze, l’invito ad usare le mascherine (che qui arrivano fuori tempo massimo), ad evitare gli assembramenti, invece qui al campo queste precauzioni non sono del tutto rispettate, perché sembrano più utili per chi sta “fuori”. Durante questo periodo di quarantena il campo cambia di poco il suo stile, o meglio fa quello che è la casa per gli italiani durante la quarantena: protegge, sa prendersi cura, rafforza lo spirito di comunità, di appartenenza, perché il campo, nonostante tutto è la nostra casa, forse più dell’appartamento, della baracca o della roulotte. Il virus non penetra, rimane fuori almeno fino ad ora, la vita del campo sembra fare da barriera al virus, è vero “ci si salva insieme, se restiamo in piedi”. Sostanzialmente la vita interna del campo continua con i suoi ritmi, senz’altro più lenta rispetto a prima, ma da sempre i tempi del campo sono lunghi, prolungati, non dettati da scadenze, da programmi stretti, appuntamenti…certamente non frenetici. È da sempre che i Rom si distinguono dai “gagie”, anche nell’uso del tempo: loro non vivono in funzione della prossima estate, del prossimo convegno, del prossimo viaggio all’estero, della seconda casa, della movida o dell’aperitivo al bar. Se questa quarantena, rinchiusi nelle case ha provocato in tanti italiani degli stress, disagi, irrequietezza, tra i Rom molto meno, perché la vita del campo in genere scorre lenta, senza fretta, è isolata (clausura). Decisamente i ritmi del campo non sono quelli del “tutto e subito”, non ci si muove alla velocità di un click e questo li aiuta a non cadere nella depressione, perché la vita di relazione, che il campo garantisce, li aiuta a superare lo stress causato anche dalla paura di essere vulnerabili al contagio. Le nostre società stanno facendo l’esperienza dolorosa e tragica della vulnerabilità e del limite. In un certo senso ci sentiamo traditi o per lo meno delusi dalla scienza, dalla tecnologia, dalla medicina. Davamo per scontato che queste moderne “torri di sicurezza”, simboli di conquista e benessere, fossero impenetrabili, capaci di garantire la nostra tranquillità, la nostra salute e il nostro futuro…più o meno avevamo la convinzione di avere un certo controllo. Invece è bastato un invisibile virus per scombussolarci e mettere in ginocchio le nostre economie, i nostri stili di vita, sentirci vulnerabili, limitati. Il coronavirus ci ha insegnato che abbiamo un limite, che siamo un limite. Ebbene, i Rom che da sempre vivono la loro “vita nuda” in modo vulnerabile, consapevoli di essere limitati e di dover conviverci, perché sottomessi quasi sempre alle decisioni prese da altri, all’aria che tira nel paese, agli interessi politici, alle ordinanze di sgombero, agli equilibri interni di un dato campo: vite sospese, in mano d’altri. Ebbene il coronavirus non ha scalfito più di tanto le loro “certezze limitate”, non certo quelle basate sulla scienza, sul progresso scientifico, perché le loro si fondano soprattutto sul loro “stare e vivere insieme”, sull’affrontare insieme anche le prove più dure. La quarantena per il campo è significato anche un periodo nel quale siamo rimasti ancora più soli. Pochi, veramente pochi tra i gagie si sono preoccupati di come stavamo al campo, se avevamo bisogno di qualcosa, se avevamo le mascherine o i gel per disinfettarci le mani. Per soli, intendo anche senza operatori, assistenti sociali, controllori di varia natura, eccetto la presenza quotidiana delle forze dell’ordine che venivano per accertare chi era agli arresti domiciliari. La quarantena è stata in questo caso, per il campo una “ventata di ossigeno”. Da anni assistiamo a un ossessivo controllo, avere il fiato sempre sul collo appesantisce la vita, ti fa sentire come un osservato speciale, perché la tua esistenza sai che dipende anche da chi è incaricato a controllarti: richiami, proibizioni, controlli, minacce, inviti a presentarsi, ad allontanarsi…un’aria abbastanza pesante, a volte un po' “pestilenziale” che finisce con il contaminare l’esistenza di tanti, di tutti. È forse anche per questo, che i Rom hanno elaborato un proprio sistema immunitario? Con il coronavirus, finalmente una “tregua”, il respiro del campo torna ad essere più tranquillo e disteso. I rom finalmente si riappropriano del loro respiro. Certo, anche su di loro incombono timori, paure, preoccupazioni, il pericolo del contagio che può venire soprattutto da fuori, meno da dentro. “Dentro-fuori”, che strano, il campo spesso è visto dalla cittadinanza come un “fuori luogo”, un pericolo, una minaccia contagiosa, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, una bomba ecologica. Invece ora, le parti sembrano capovolgersi, senz’altro agli occhi dei Rom, il pericolo ora viene dal “loro fuori”, proprio da chi li ha sempre esclusi, tenuti fuori, appunto a debita distanza di sicurezza. Le parti si sono invertite, appunto, grazie ad un virus invisibile. Tutto può cambiare, niente è immutabile. “Per piacere state a casa VOSTRA” scritta apparsa all’entrata di un campo di Sinti a Bologna, chiaramente rivolta a chi sta fuori dal campo: voi che venite da fuori, non contagiateci per piacere: come a voler dire: untori siete voi, state a casa vostra! Con il coronavirus il clima dentro il campo sembra un po’ cambiato.  Il pane ritorna ad essere sfornato in casa e il suo profumo circola, viene offerto anche ad altri. La difficoltà di reperire cibo per diverse famiglie è sostenuta anche attraverso i bonus alimentari (distribuiti dal comune a che ne ha diritto), condivisi anche all’infuori del proprio nucleo famigliare, come i pacchi alimentari Caritas, sono facilmente spartiti. L’impossibilità di lavorare e di andare a manghel, come prima, se da un lato preoccupa, dall’altro è sostituita dalla comprensione e dall’andare incontro a chi è effettivamente in difficoltà. Il motore del campo sono soprattutto le relazioni, d’altronde nella vita di tutti non è forse tutta questione di relazioni? Senz’altro anche il mese sacro del Ramadan, ha contribuito parecchio a vivere questo tempo con un’attenzione a chi è in difficoltà e a sostenere chi effettivamente faceva il digiuno e la preghiera. Quindi, anche le relazioni in questo periodo sembrano più vive e feconde del solito e aiutano ad affrontare le paure e le sue crisi, perché condivise. Se da un lato è pur vero che la nostra società ci ha educato ad essere autonomi, autosufficienti, a non dover dipendere da altri, poco invece ci ha formato a saperci accontentare o di saper fare a meno del superfluo, tanto meno ad essere mano tesa che elemosina un aiuto o accettare di farci aiutare. Tutto questo ci mette in un forte disagio, fino a sfiorare la crisi psicologica.  I Rom invece ci sono più abituati e anche di fronte alla crisi del coronavirus, la esorcizzano con la musica e la danza, così come abbiamo visto fare su tanti balconi delle nostre case, perché anche “la musica cambia e salva la vita” (Ezio Bosso) Ovviamente non tutto è bello dentro un campo Rom, come dentro le nostre comunità. Durante questo tempo siamo stati comunque testimoni anche di tante cose belle: dedizione, sacrificio, coraggio. Tutte cose che ci fanno sperare e ce lo auguriamo tutti di riuscire a farne tesoro, anche per il “dopo coronavirus”. Come m’auguro che la “bellezza” del vivere Rom possa  contagiare anche la mia e la nostra società, una bellezza da guardare in volto, senza alcuna “mascherina di protezione”. “Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto.” (Sal. 26, 8)   don Agostino Rota Martir Campo Rom di Coltano (PI)

Il card.  Turkson visita la baraccopoli di Castel Romano per l’emergenza Coronavirus

13 Giugno 2020 - Città del Vaticano - Oggi pomeriggio il card. Peter K.A. Turkson, Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, si è recato in visita al Polo ex Fienile di Tor Bella Monaca, dove ha incontrato i volontari dell’Associazione 21 luglio, presieduta da Carlo Stasolla. L’Associazione realizza ogni settimana 250-300 pacchi alimentari per bambini da 0 a 3 anni che vivono nelle baraccopoli e nei campi rom della Capitale, al fine di contrastarne la malnutrizione, soprattutto in questo tempo di emergenza dovuta alla pandemia. Nell’occasione, riferisce una nota del Dicastero diffusa dalla Sala Stampa della Santa Sede - il porporato ha distribuito – con il contributo della Farmacia Vaticana, partner della Commissione Vaticana per il Covid-19 istituita presso il Dicastero – 3000 guanti in vinile, 6000 mascherine chirurgiche, 200 mascherine in stoffa lavabili, 500 confezioni di paracetamolo. Successivamente, nel corso del pomeriggio, il card. Turkson ha visitato il campo rom di Castel Romano, dove sono stati consegnati i pacchi famiglia in alcuni insediamenti che costituiscono la baraccopoli. Il card. Turkson  ha portato a tutte le persone presenti, ai volontari impegnati nell’assistenza alle comunità, alle famiglie e ai bambini delle baraccopoli, il segno del "Suo paterno abbraccio e l’espressione del sentimento di spirituale vicinanza in questo momento difficile e di prova". “Come ripete spesso Papa Francesco, nessuno deve essere lasciato indietro", ha detto il card. Turkson: "siamo qui oggi per testimoniare il sostegno a tutti coloro che vivono situazioni di sofferenza e vulnerabilità, e che spesso vengono dimenticati, soprattutto in questo tempo di emergenza sanitaria, sociale ed economica. Ricordiamoci che lo sviluppo integrale dell’uomo è connesso alla cura del Creato: fallendo nell’uno falliremo anche nell’altro”. Insieme al cardinale mons. Gianpiero Palmieri, Vescovo Ausiliare di Roma per il Settore Est e Delegato Migrantes per la Conferenza Episcopale Laziale e delegato per per la Carità, la Pastorale dei Migranti e dei Rom della diocesi di Roma; don Giovanni De Robertis, Direttore generale della Fondazione Migrantes; Mons. Pierpaolo Felicolo, Direttore dell'Ufficio Migrantes di Roma e  Maria Rosaria Giampaolo dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, che con il camper ospedaliero del progetto “Non ti scordar di me” da tempo visita e monitora regolarmente lo stato di necessità sanitaria delle comunità presenti nelle baraccopoli.

Dalla paura alla riflessione, dalla lacerazione alla riconciliazione e all’abbraccio: i sinti a Lucca e il coronavirus visto da vicino

10 Giugno 2020 - Lucca - Erano giorni durissimi, quei giorni di marzo quando arrivavano su tutti i telegiornali e programmi televisivi notizie e immagini preoccupanti di una epidemia che acquisiva le dimensioni di una pandemia, che poteva coinvolgere tutti, ma proprio tutti, ‘democraticamente’. Ognuno di noi stava spesso con orecchi e occhi  spalancati al televisore per cercare indicazioni onde evitare di esserne coinvolti. Anche al Campo Nomadi di Lucca cominciavano ad arrivare le prime notizie di tanti ‘positivi’ e anche morti nella stessa Lucca, i casi si moltiplicavano e possibili focolai venivano indicati in zone vicine e poco frequentate. E’ in questo contesto di ansia, perplessità, speranza, ma più spesso paura (e anche incubi e rincorsa alle spiegazioni più fantasiose o comunicazioni whatsApp tendenti a scaricare l’ansia con video denigratori verso lontani ‘colpevoli’ … ) che scoppiò come un grande fulmine … a cielo molto cupo la notizia che ‘una del campo’ era risultata positiva da un casuale tampone fattole una decina di giorni prima all’ospedale per un ricorso al pronto soccorso per altri motivi. “Una di noi è positiva”, “i nostri bambini sono in pericolo”. Anzi: “una di noi è l’ ‘untore’, anzi il traditore che non ci aveva detto nulla del tampone …!”. Quando qualche giorno dopo arrivò la notizia della positività al coronavirus anche del marito la tensione raggiunse il culmine, ognuno si chiuse nella propria campina con animo non proprio sereno. Al telefono e su whatsapp venivo continuamente informato della loro ansia e c’era chi più preoccupato di altri cercava di coinvolgere anche me (“non credere di cavartela facilmente”, o come a dire: “mal comune mezzo gaudio” nel senso che in compagnia si porta meglio anche la croce) nel proprio destino, ricordandomi che nei giorni precedenti ero io stesso in mezzo a un grande gioco di comunità che aveva visto pressoché tutti protagonisti, l’uno vicinissimo all’altro, ad agitarsi e a gridare per il desiderio di vincere ciò che era in palio, e … non era proprio lontano da noi, anzi dava manforte anche colei che ora era indicata come la colpevole ‘untrice’ che volutamente (ma non è vero!) aveva nascosto il suo stato di positività agli altri, peraltro tutti parenti. Tutti noi con evidente e comprensibile ansia contavamo i  giorni che lentissimamente trascorrevano (consolati solo dal verificarci tutti asintomatici) … i giorni comunque trascorrevano tra il primo tampone positivo e una quarantena ‘a quella maniera’ e il secondo tampone finalmente negativo … il profondo respiro di sollievo e il grande senso di nuova possibile speranza bilanciò quel fulmine a cielo cupo che aveva tutti fulminato, e da lì in poi è stato più facile per tutti scorciare distanze, dialogare in modo pur sostenuto ma più positivo, esercitare maggiore comprensione e accettare ragioni che in situazione surriscaldata era pressoché impossibile. Appena ci è stato possibile (magari interpretando in modo un po' estensivo le norme di convivenza in tempi di coronavirus) un altro gioco di comunità ha visto ancora tutti coinvolti e rappacificati e rassicurati, capaci di superare tranquillamente anche un’altra paura, quella conseguente alla fuga di notizie che su un organo locale di informazione di estrema destra aveva segnalato un focolaio attivo e pericoloso al Campo Nomadi.   I primi commenti in internet a tale notizia non lasciavano infatti ben sperare e i sinti esprimevano apertamente la paura che una qualche ‘spedizione’ di gage potesse venire al Campo con intenzioni non proprio costruttive.   Alcuni gage infatti su facebook avevano commentato che forse sarebbe stata la volta buona per fare sparire i sinti da Lucca.  Nei giorni seguenti una vecchia conoscenza cui non sono proprio simpatico per l’amicizia dei sinti mi incrocia per strada e mugolando tra sé e sé, ma non troppo sottovoce, lascia intendere la sua delusione: “accidenti, è ancora vivo … !”. Se al Campo Nomadi più vicino a me il tempo del coronavirus è stato vissuto in questa atmosfera comprensibilmente drammatica, alimentata anche dalle immagini che venivano dalla televisione (i famosi camion militari pieni di cadaveri … ), tutto sommato però è stato vissuto in modo riflessivo e ragionevole, occasione di vero, ancorché sofferto, dialogo che coniugava paura e speranza, riflessione e fede, domande profonde sul perché di ciò al di là di ricostruzioni mitologiche e un’esigenza di cambiamento di stile di vita rispetto a quello delle manipolazioni e della violenza sulla natura, perché alla fin fine quest’ultima, violentata e repressa, “ci presenta il conto”. In altre presenze di Sinti a Lucca, più orientate in senso ‘spiritualistico’, ‘intimistico’ e miracolistico perché alimentate ad una spiritualità ‘pentecostale’, ‘evangelista’, o addirittura ‘apocalittica’ non pochi ripetevano continuamente che si trattava chiaramente di  una punizione di Dio per i troppi peccati, aperti però anche all’addolcimento della terminologia, nel senso che – coi tempi moderni –  apparendo forse troppo forte quella della ‘punizione’, sicuramente debba trattarsi almeno di una ‘ammonizione’ o ‘avvertimento’ o ‘avviso’ dall’Alto. Non ho mai esercitato la confessione per telefono, ma nei mesi scorsi a motivo di un’atmosfera così apocalittica non pochi sinti , anche lontane conoscenze o comunque lontani da Lucca mi hanno chiesto di poter ricevere l’assoluzione al telefono perché “non si sa mai … !”. Questo mi ha fatto più volte riflettere sui contenuti di una ‘evangelizzazione’ che troppo spesso si ammanta di novità perché capace di utilizzare nuovi strumenti ma il più delle volte veicola concezioni punitive e negative di Dio allontanandosi molto dalla rivelazione evangelica. La esperienza più positiva in questo nero periodo di coronavirus credo di averla comunque vissuta col gruppo di sinti che più da vicino mi ha coinvolto, anche nel rischio di contrarre e condividere col loro l’infezione. C’è stata schiettezza umana fatta di paura, ansia, tensione, parolacce, pure, ma anche volontà di capire, di riflettere, di dialogare (quanto hanno viaggiato i vari strumenti di messaggistica compreso whatsapp!) per emergere da tale paura e gestirla ragionevolmente…e devo confessare che segretamente pensavo dentro di me che se proprio avessi dovuto correre qualche rischio a motivo di questo, averlo corso in solidarietà a coloro che sono ormai da tempo diventati compagni di viaggio, condividere cioè il comune destino, non mi avrebbe disturbato poi troppo. Ultimamente, nel benedire le tombe di tre loro defunti che in tutto questo periodo non c’era stato modo di farlo, tra una parola scherzosa e l’altra con cui tutti cercavano di esorcizzare il pericolo scampato e il passato di trepidazione, nell’affermare che loro sono sinti e hanno comunque gli anticorpi per combattere anche i virus peggiori perché abituati a vivere una vita intera a contatto con la natura lungo un fiume, diversi mi hanno puntualizzato che  se io stesso ne sono uscito bene si deve al fatto che … “stai coi sinti”. Chissà che questo non abbia un’anima di verità? (p. Luciano Meli)      

Accolti e sfrattati. L’odissea rom

8 Giugno 2020 - Roma - Una mamma rom e i suoi sei figli, tutti minorenni, da tre giorni vivono in un vecchio furgone parcheggiato in via dei Prati Fiscali; una giovane coppia, con tre bambini piccoli e un quarto in arrivo, pure di etnia rom e anche loro arrivati dalla Bosnia, si sono invece accampati in una vecchia roulotte nei pressi di via Candoni, sempre a Roma. È questo il destino di due delle tre famiglie rom che mercoledì scorso hanno dovuto lasciare la struttura della Croce Rossa di via Ramazzini. Alla fine, dopo un tira e molla durato settimane e proprio nelle stesse ore in cui comunque era previsto lo sgombero con la forza, le due famiglie hanno deciso di caricare le poche e povere suppellettili e andare altrove, mentre la terza famiglia rom, proveniente dalla Romania (anche questa con tre bambini piccoli e la madre invalida costretta su una sedia a rotelle) per ora ha deciso di barricarsi nella stessa struttura, anche perché di alternative non ce ne sono. Si sta consumando così un’altra storia di degrado nella capitale d’Italia, nata all’inizio dell’ultimo periodo invernale, quando – proprio in seguito all’emergenza freddo – il Comune di Roma mette a disposizione della Croce Rossa Italiana una struttura in via Bernardino Ramazzini, non lontano dall’ospedale Forlanini. A marzo, proprio a ridosso del lockdown, in questo centro arrivano altre 18 persone, con 11 bambini, che – tempo altri due giorni – avrebbero dovuto trascorrere in strada il periodo dell’emergenza Covid perché nel frattempo aveva chiuso i battenti anche un altro centro di accoglienza temporanea, nel quartiere di Centocelle. Adesso, però, è terminato anche il progetto originario di via Ramazzini (quello per l’appunto legato all’emergenza freddo) e di fatto anche il riparo per quelle famiglie rom arrivate con l’esplodere della pandemia. Tra Croce Rossa e Comune (assessorato Politiche sociali e Ufficio speciale rom) in queste settimane sono intercorsi contatti molto intensi, grazie anche all’intervento dell’Unione Inquilini e dell’associazione 'Cittadini e minoranze', ma di soluzioni (in ballo c’era anche quella di una casa famiglia) finora non ne sono state trovate. Così come a poco o nulla è servito coinvolgere il V Municipio. «Noi siamo pronti a collaborare per qualsiasi soluzione », afferma Nino Lisi, tesoriere dell’associazione, mentre in via Ramazzini nei giorni scorsi si è recato anche Marco Braccioduro, presidente di 'Cittadini e minoranze', che ha toccato con mano il dramma della situazione non appena le due famiglie, prima dell’intervento delle forze dell’ordine, hanno deciso di andare via: «Qui parliamo di sei bambini chiusi in un furgone lungo la strada, mentre l’altra famiglia si è sistemata in un campo rom, ma chissà se ce la lasceranno, visto che non hanno l’autorizzazione; al competente ufficio del Comune di Roma hanno chiesto di avere almeno un bagno chimico». Tra l’altro, entrambi i nuclei familiari negli ultimi tempi sono passati da una sistemazione precaria all’altra, compresa quello dell’ex camping River, il campo rom tristemente passato agli onori delle cronache per lo sgombero di due estati fa. Cronache di ordinaria odissea nella Capitale d’Italia. (Igor Traboni - Avvenire)     IGOR TRABONI  

Migrantes Catania: emergenza sanitaria e mobilità umana

18 Maggio 2020 -

Catania - L’Ufficio diocesano Migrante della diocesi di Catania in questo tempo così difficile di emergenza del Covid-19, sta svolgendo il compito di coordinamento con la Caritas diocesana e con  le varie associazioni di assistenza, nonché di sostegno alle persone migranti particolarmente delle comunità mauriziana e srilankese.

Molti immigrati  regolari e non  perdendo il lavoro si sono ritrovati, in questi due mesi di emergenza nell’emergenza, senza alcun mezzo di sussistenza, pertanto  la loro richiesta è stata specificamente la fornitura di prodotti alimentari e di necessità. Anche qualche famiglia circense e  lunaparkista, del territorio catanese ha avuto qualche difficoltà.

In questo tempo di pandemia  si sono aggravate ancora di più le condizioni dei rom in molte città italiane, come anche a Catania. La Migrantes diocesana è molto vicina alle esigenze di queste persone con la visita mensile ai loro campi attraverso atti di solidarietà ed evangelizzazione.  Ai bambini ed ai ragazzi rom che frequentavano la scuola, abitanti nei due campi più grandi ubicati alla periferia della città, viene garantito il supporto scolastico attraverso un operatore del Comune che porta loro i compiti assegnati dagli insegnanti, in collaborazione con l’Ufficio Migrantes che fornisce i quaderni e altro materiale didattico che ogni anno provvede a raccogliere. (G. Cannizzo - Direttore Migrantes diocesi Catania)

I dimenticati della pandemia

14 Maggio 2020 - Roma - Fino a tre mesi fa l’emergenza erano — impropriamente — considerati loro. Gli immigrati. Quando poi un’emergenza vera è piombata a sconvolgere le vite tranquille di molti di noi, loro non sono stati semplicemente retrocessi, ma scomparsi. Parliamo dei migranti, i trasparenti, i dimenticati, le vittime anonime della pandemia. «Mai l’immagine dello scarto così spesso evocata da Papa Francesco è risultata così appropriata a descrivere la condizione sociale di questi uomini e donne» esordisce così il vescovo Guerino Di Tora, che del fenomeno ha un osservatorio privilegiato in quanto presidente della Fondazione Migrantes. «La pandemia ci ha messo nella condizione di fare a meno dei loro servizi, e ce ne siamo sbarazzati, come appunto si fa con gli scarti». Monsignor Di Tora, che è membro del Consiglio permanente della Cei, è appena reduce da una serie di incontri con i suoi collaboratori sul territorio che gli hanno fornito un quadro tanto deprimente quanto allarmante. «Sì, ho appena terminato di incontrare on line i vari responsabili delle Migrantes diocesane, ma anche i nostri referenti all’estero perché come sapete noi ci occupiamo anche degli emigrati italiani all’estero. E oltre questi incontri di ricognizione siamo in contatto pressoché quotidiano con le strutture diocesane della Caritas e con i cappellani delle varie comunità nazionali. Soprattutto il collegamento con le Caritas è fondamentale, perché in fondo la nostra organizzazione è maggiormente dedicata all’orientamento pastorale e gode di poche risorse per il sostentamento, per cui il vero braccio operativo sono le Caritas diocesane, con le quali debbo dire stiamo lavorando sinergicamente molto bene». Un mondo quello della Caritas che Di Tora conosce molto bene, essendo succeduto a don Luigi Di Liegro alla guida della Caritas di Roma per diversi anni. «Il problema principale che registriamo è la perdita del lavoro di moltissimi migranti. Nel settore agricolo, ma soprattutto nel settore della collaborazione familiare e dell’assistenza agli anziani. Non è solo questione di restrizioni alla mobilità, che in teoria non si sono mai verificate per badanti e colf. Piuttosto per evitare ogni possibile rischio di contagio dall’esterno molte famiglie hanno deciso di fare a meno del loro aiuto. O anche peggio: molte collaboratrici familiari come è noto lavorano al nero: il timore di molti datori di lavoro è stato che se le colf fossero state fermate ai controlli e avessero dichiarato l’indirizzo dei posti di lavoro verso cui si dirigevano avrebbero determinato il rischio di una denuncia all’Inps: così sono state licenziate dalla sera alla mattina, senza alcun indennizzo». «Sì. È proprio così — gli fa eco Lucia Montebello che, in quanto responsabile dell’Emporio Caritas di Roma ha una nitida immagine della situazione —. Gli accessi all’emporio centrale della Caritas romana sono cresciuti del 150 per cento, e di questi almeno il 70 per cento è costituito da famiglie di immigrati. Ma soprattutto quello che ci sorprende è l’affacciarsi di nazionalità che raramente si rivolgevano a noi: per esempio molti filippini, che tradizionalmente si occupano appunto delle faccende domestiche, ed ora hanno perso il lavoro». «La cappellania degli Ucraini — continua Di Tora — sta facendo un gran lavoro per aiutare le tante badanti rimaste disoccupate, almeno a pagare gli affitti e le bollette». «Forse anche peggiore è la situazione nell’agricoltura, nella raccolta di pomodori e prodotti stagionali, perché alle diffuse situazioni di sfruttamento e caporalato ora si aggiunge la minaccia “o accetti quel poco che ti diamo o te ne vai”». Il ricatto funziona soprattutto nei confronti degli irregolari, i quali ovviamente non usufruiscono di nessuna forma di supporto tra quelle varate dal governo in questa fase emergenziale. Su questo l’opinione del vescovo Di Tora è lapidaria: «Una pronta regolarizzazione delle situazioni in sospeso è un fatto di civiltà. Peraltro è conveniente, perché regolarizzando si argina il rischio di una deriva malavitosa per le frange più deboli». Don Gianni De Robertis, che della Migrantes è il direttore e motore delle tante iniziative in cantiere, aggiunge al proposito: «Spesso ci scordiamo che le situazioni di irregolarità sono prodotte dalle normative e non dalla cattiva volontà dei migranti. E che è in forza delle irregolarità che si generano situazioni non solo di sfruttamento ma di vero e proprio stato di schiavitù. Intollerabile ai giorni nostri in Europa. Vi sono poi situazioni di estrema debolezza che sono oggettivamente difficili da far emergere a regolarità, penso per esempio a due ambiti su cui stiamo lavorando molto in questi giorni, quello dei nomadi e quello dei giostrai e dei circensi. I giostrai stanno ormai fermi da tre mesi, hanno il serio problema del mangiare quotidiano, e ai circensi si aggiunge anche il problema del mangiare per gli animali. È un problema che non riguarda solo i circensi e giostrai stranieri in Italia, ma anche i giostrai italiani all’estero, che hanno spesso difficoltà a rientrare. Nelle città deserte dei giorni passati le uniche figure che si scorgevano per strada erano quelle dei Rom che esploravano nei cassonetti dei rifiuti». «Finora abbiamo parlato solo dei migranti già residenti in Italia — riprende il vescovo Di Tora — ma non dobbiamo dimenticare il problema dei nuovi arrivi, anch’esso sottaciuto. Mentre qui si moriva di coronavirus, in Libia, indifferenti alla pandemia, i bombardamenti sono continuati nella totale indifferenza internazionale. C’è gente che continua a scappare dai teatri di guerra e non possiamo immaginare che per via della pandemia questa gente possa essere lasciata al suo destino richiudendo i porti». Dal centro alla periferia. Don Sergio Gamberoni è il responsabile della Migrantes nella città più martoriata d’Italia dal virus, Bergamo. «In questi 80 giorni si sono ribaltati tanti preconcetti sulla presenza dei migranti nei nostri territori. Il virus ci ha messi tutti sulla stessa barca. Con gare di solidarietà reciproca. Nell’immaginario collettivo ora gli extracomunitari sono anche i medici cubani e albanesi venuti generosamente ad aiutarci. Sono la comunità islamica che ha raccolto e donato 30 mila euro al nostro ospedale. E hanno suscitato reazioni e iniziative che qualche mese fa erano impensabili, e che hanno visto le nostre comunità produttive alla ricerca di un dialogo e di un sostegno. L’imperativo che ci ha guidati è stato “rimanere vicini, mantenere relazioni, indifferentemente dalla provenienza, cultura e credo. Figli di un solo Dio. Fratelli nella sventura”. I cappellani delle comunità nazionali si sono spesi oltre ogni limite, tanto che tre di essi hanno dovuto condividere la malattia. Abbiamo supportato anche con trasmissioni in streaming le preghiere degli altri riti cristiani. Abbiamo cercato di aiutare le parrocchie che hanno avuto defunti stranieri e sostenere le loro famiglie, anche musulmani. Quando è morto un imam di soli 41 anni abbiamo aiutato perché la popolazione islamica potesse seguire i funerali in una diretta seguita da 900 persone. Abbiamo dato spazio sul nostro sito a un diario quotidiano del Ramadan che consentisse alle comunità islamiche di mantenersi in contatto in un digiuno che non ha precedenti. Digiuno, peraltro, che quest’anno è iniziato sotto la stessa luna nella quale noi abbiamo celebrato la nostra Pasqua. Le diffidenze, le chiusure si sono sciolte come neve al sole. Molti bergamaschi hanno riconosciuto in quegli stranieri “quelli che ci hanno permesso di continuare a mangiare”. Quando un fruttivendolo musulmano ammalato di covid è ritornato per fortuna salvo dall’ospedale, i suoi vicini e clienti lo hanno accolto con affetto con una pergamena di “attestato di cittadinanza: se non te la dà lo stato, te la diamo noi”». E queste sono solo una piccola parte delle storie che don Sergio ha vissuto e può testimoniare di queste settimane a Bergamo. «È proprio vero che nel male alberga sempre un germe di bene. Io sono convinto che alla fine di questa terribile storia si volterà pagina nelle relazioni tra italiani e stranieri. Tutto sarà diverso». Un ottimismo quello di don Sergio da apprezzare ma che rimane in sospeso per quella parte del paese che presentava fasce di grave debolezza socio-economica già prima della pandemia, e che presumibilmente si aggraveranno nei prossimi mesi di sofferenza economica. «In quelle zone, soprattutto nel meridione, il pericolo di una guerra tra poveri è sempre dietro l’angolo» conclude don Gianni De Robertis. «Per questo una maggiore attenzione ai più poveri e ai migranti conviene a tutti». (Roberto Cetera – Osservatore Romano)

Commissione Ue e Consiglio d’Europa sui rom: “protezione diritti umani e accesso ai servizi durante la pandemia”

8 Aprile 2020 - Roma -“I governi devono essere supportati da tutti nella gestione di questa crisi e devono essere liberi di decidere le misure necessarie. Tuttavia, tutte le misure devono rispettare l’attuale quadro europeo dei diritti umani, compresi i principi di uguaglianza e non discriminazione”. A scriverlo oggi è il Consiglio d’Europa e la Commissione europea in occasione della Giornata internazionale dei rom Tra la popolazione Rom in Europa, composta da 10-12 milioni di persone, si contano ancora oggi numerose “vittime di povertà e di esclusione. La presenza di un diffuso antiziganismo rafforza e aggrava il loro disagio economico e sociale. Tali disuguaglianze – si legge nella nota congiunta - persistono malgrado i continui sforzi a livello nazionale, europeo e internazionale per affrontare i pregiudizi, le discriminazioni e i reati contro Rom e Viaggianti”. La Giornata internazionale dei Rom (l’8 aprile) è stata istituita per celebrare la cultura, la storia e la lingua dei Rom e per sensibilizzare sulle difficoltà che i Rom si trovano ancora a dovere affrontare. La Giornata è stata dichiarata ufficialmente nel 1990, in occasione del 4° Congresso dei Rom, per ricordare il primo grande incontro internazionale dei rappresentanti dei Rom, che si è svolto nel Regno Unito, a Orpington, nei pressi di Londra, dal 7 al 12 aprile 1971.          

Rom e sinti: le attività dell’associazione 21 luglio in tempo di Covid 19

1 Aprile 2020 - Roma - #NOINONCIFERMIAMO. Questo il nome di una campagna promossa dall’Associazione 21 Luglio imoegnata a fianco di rom e sinti. “No, noi non ci fermiamo”, spiegano all’associazione: perché anche nel corso della crisi generata dal Covid 19, “nessuno deve essere lasciato solo, ora più che mai. Tutti insieme stiamo continuando a lavorare impegnando energie e risorse, vogliamo fare la nostra parte mettendo in campo i servizi che forniamo da anni e anche di più”. Tante le iniziative. Ne citiamo alcune. E’attivo un servizio di raccolta beni di prima necessità per bambini nella fascia di età tra gli 0 e i 3 anni con la raccolta di pannolini, latte in polvere, omogeneizzati: tutto ciò che occorre per il sostentamento di bambini che vivono in emergenza abitativa. “Stiamo – spiegano - consegnando alimenti alle famiglie che vivono presso le baraccopoli della città di Roma. Sono state create, inoltre, per le mamme dei bambini, gruppi whatsapp attraverso cui “restiamo in contatto con loro per dispensare consigli, ascoltare i disagi, dare sollievo nei momenti più duri, inviare attività da realizzare con i propri figli durante le ore trascorse in casa”. Per i bambini più grandi è stato attivato un servizio che consente di ascoltare fiabe in lingua italiana e in lingua romanes. Si chiama “Fiabe al telefono”: quattro pomeriggi a settimana, chiamando il numero 3884623209 è possibile ascoltare una o più fiabe registrate dagli operatori che regalano momenti di spensieratezza, di evasione. Vengono anche forniti assistenza nella continuità scolastica mettendo a disposizioni dei bambini che vivono in emergenza abitativa accessi alla rete internet così da potersi collegare con le piattaforme progettate dalle scuole. “È importante per noi che nessuno dei bambini si senta escluso e resti indietro nel programma scolastico. In collegamento con i loro cellulari supportiamo i bambini nelle ore di studio”. “ Vogliamo – spiegano gli operatori dell’associazione 21 Luglio - che la quotidianità dei ragazzi non venga snaturata e che per quanto possibile continuino le attività e gli impegni avviati in questi mesi prima dell’emergenza Covid19. Per questo abbiamo creato dei video tutorial con lezioni di break dance realizzati dal nostro maestro Gerardo e disponibili sulla piattaforma on line all’interno del progetto “Amarò foro”. Ogni sabato pomeriggio, attraverso la creazione di un gruppo whatsapp con i ragazzi del quartiere Tor Bella Monaca, avviamo la proiezione di un film, lo guardiamo insieme e poi ne commentiamo la trama ascoltando le loro impressioni, le loro idee. È un modo per non farli sentire soli e continuare a svolgere le attività comuni che in questo periodo sembrano straordinarie”. In ambito scolastico continuano le attività all’interno dell’I.C. “Giovanni Palombini”, con un lavoro che mira a raggiungere circa 25 classi tra materna, scuola primaria e secondaria. Attraverso la creazione di “classi virtuali”, i “nostri educatori rafforzano la collaborazione con gli insegnanti e la co-progettazione di moduli specifici di supporto alla didattica. Diventano on line i laboratori di coding, teatro e progettazione partecipata realizzati dai nostri partner. Forniamo supporto scolastico individualizzato a bambini che vivono condizioni di disagio. I nostri operatori creano un ponte tra famiglia e scuola per garantire un lavoro diretto e dare assistenza anche tecnologica e economica grazie alla fruizione di schede internet necessarie al collegamento in rete. Stiamo lavorando, inoltre, per garantire il proseguimento dei percorsi di empowerment della comunità, rafforzando il lavoro di rete con i nostri partner e utilizzando nuovi strumenti di comunicazione e supporto a necessità specifiche”. “Resta a casa, alla spesa ci pensiamo noi” è lo slogan per gli anziani rom e sinti: “abbiamo avviato un servizio di ritiro spesa presso i supermercati del quartiere Tor Bella Monaca, periferia est della città e consegna presso il domicilio (davanti la porta) di persone anziane con un’età superiore ai 70 anni. Il servizio, nel rispetto delle norme di sicurezza, è attivo dal lunedì al sabato, dalle ore 9.00 alle ore 12.00”. L’associazione ha anche mappato, con interviste telefoniche e visite alle baraccopoli sempre nel pieno del rispetto delle norme di sicurezza, la condizione di chi vive in emergenza abitativa. Nelle baraccopoli della Capitale “mancano i servizi, manca l’assistenza sanitaria, manca l’informazione necessaria per contrastare il contagio”, spiegano: “è per questo che a gran voce, abbiamo lanciato un appello alla sindaca Virginia Raggi e al Prefetto Pantalone perché vengano attivate misure urgenti finalizzate a tutelare il diritto alla salute, alla continuità scolastica”. Inoltre una campagna di raccolta fondi per sostenere le spese da effettuare per acquistare generi alimentari di prima necessità da consegnare, con le dovute misure di sicurezza, presso le baraccopoli romane. “Stiamo fornendo supporto a famiglie che si trovano in estrema difficoltà e sono allo stremo delle loro possibilità economiche e non solo”. Per info https://www.21luglio.org/emergenza-covid-19-noinoncifermiamo/

R.Iaria