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Medici malati e morti: le storie di quelli stranieri
Milano - In prima linea ci sono anche loro. Dimenticati, trascurati, discriminati persino. E a volte contagiati, proprio come gli altri. «Sono un medico. Sono albanese, di Scutari. Mi sono laureata in medicina all’università italiana di Tirana, gemellata con Tor Vergata di Roma. Ma quando, dopo essere arrivata in Italia, sono andata ad iscrivermi all’Ordine dei medici, mi hanno detto che non potevo farlo perché non avevo il permesso di lavoro. Ho risposto: 'Certo che non ho un permesso di lavoro, senza l’iscrizione da voi, non posso esercitare'. Sono ricorsa al ministero della Salute. Ci sono voluti un po’ di tempo e un bel po’ di documenti, ma alla fine ho ottenuto parere favorevole alla mia iscrizione». Artes Memelli ha 28 anni, da agosto 2017 lavora da libera professionista nel mondo dell’emergenza veneta (oggi messo in ginocchio dalla seconda ondata di epidemia): Pronto soccorso e 118. «Amo il mio lavoro, mi sono preparata per farlo. Con il Covid l’impegno è moltiplicato, ma non mi sono mai tirata indietro. Però ho paura. Non solo d’essere contagiata. Ho paura perché sono sola e, se mi ammalo, come faccio con le spese? Non ho ferie, non ho malattia».
Ai medici stranieri che arrivano in Italia non basta il riconoscimento dell’equipollenza del titolo; per lavorare nella sanità pubblica serve la cittadinanza italiana. Così si arriva al paradosso che, da una parte, nella sanità pubblica il personale è sottodimensionato, mentre, dall’altra, la legge blocca nelle strutture private 22mila medici e 38mila infermieri, perché privi della cittadinanza italiana. Per fronteggiare la pandemia, il Decreto Cura Italia di marzo 2020, all’articolo 13 ha previsto la possibilità per i medici stranieri di lavorare nel pubblico, ma solo per questo tempo eccezionale. «Il rischio è che diventi una guerra fra poveri – spiega Foad Aodi, fondatore e presidente dell’Associazione medici di origine straniera (Amsi) –. Chi lavora nelle strutture private ha un trattamento economico inferiore. Poi ci sono i liberi professionisti a partita Iva, che quindi non godono dei benefici di un contratto. Sono colleghi qualificati, ma per la legge italiana sono di serie B».
«Il Covid è stato per noi un’occasione di riscatto. I medici stranieri sono stati e sono in prima linea nei pronto soccorso, molti si sono impegnati nella Protezione Civile o nella Croce Rossa»: la dottoressa Eugenia Voukadinova, 54 anni, di origini bulgare, è in Italia da 25 anni. Specializzata in dermatologia e venereologia, lavora per un’azienda francese convenzionata con il Servizio sanitario italiano, come medico di medicina fisica e riabilitazione. «Quando arrivai qui, mi riconobbero solo i primi esami. Praticamente ho dovuto prendere un’altra laurea in medicina, e studiare in un’altra lingua non è facile. Lavoravo di giorno e di notte stavo sui libri, in più crescevo mia figlia». Anche se da sei anni è cittadina italiana, ad Eugenia lavorare nel pubblico non interessa più, ma combatte «perché i muri cadano». E lei di muri se ne intende, visto che nel 1989, armata di piccone, fu una dei tanti giovani che a Sofia contribuirono a sfondare quel muro che dal 1961 imprigionava l’est Europa. «Quell’anno l’università si fermò. Tutti noi abbattemmo il nostro pezzo di muro. Qui faccio lo stesso, mi impegno ad abbattere tanti piccoli pezzi di muro perché i nuovi colleghi non abbiano più a patire discriminazioni». (Romina Gobbo – Avvenire)
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Card. Bassetti:“la Chiesa durante la pandemia: il valore della vita”
Perugia - «Da un po’ di tempo, ha preso forma un dibattito pubblico che si interroga sul mondo “dopo” la pandemia: un mondo diverso da quello attuale (forse) in cui bisognerà ripensare sé stessi e il sistema di relazioni interpersonali. Tutto giusto ed encomiabile. A me sembra, però, che questa pandemia, così improvvisa e sconvolgente, ci interroga soprattutto sull’oggi. Un oggi che non può fare a meno, si badi bene, del suo recente passato, e che ci fornisce almeno quattro spunti di riflessione sugli effetti prodotti da questo “nemico invisibile”». Così esordisce nel suo ultimo scritto-riflessione il cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, pubblicato dal settimanale cattolico «La Voce» nel numero in edicola venerdì 7 agosto e scaricabile dal sito: www.lavoce.it.
«Innanzitutto, il covid-19 ha messo bene in luce chi sono gli ultimi della nostra società – sottolinea il cardinale –, i più fragili, i più indifesi e, in poche parole, coloro che hanno maggior bisogno di protezione e tutela: ovvero, gli anziani. Essi non possono essere considerati soltanto come una “categoria protetta” e, men che meno, come un “costo” oneroso per le istituzioni pubbliche. Al contrario, gli anziani rappresentano, con la loro sapienza di vita, la chiave di volta della nostra architettura sociale, il collante tra le diverse generazioni e una fonte di ricchezza inesauribile a cui i giovani possono e debbono attingere».
«In secondo luogo – prosegue Bassetti –, la pandemia ha rimesso al primo posto alcuni temi che l’uomo moderno cerca costantemente di rimuovere: la morte, la sofferenza e la fragilità. Gli esseri umani sono da sempre alla ricerca di un nuovo Prometeo che li liberi dalle catene della loro caducità. Una ricerca vana. Le ideologie politiche degli ultimi secoli non hanno reso l’uomo più libero e felice. Soprattutto non l’hanno reso immortale. Da alcuni decenni, poi, le fedi politiche sono state sostituite da una fiducia, spesso acritica, nei confronti del progresso tecnologico. Oggi, però, il coronavirus ha rimesso in discussione anche la speranza di una redenzione umana attraverso la scienza».
«In terzo luogo, questa difficile situazione sanitaria ha posto al centro del discorso pubblico una riflessione seria e autorevole sulla libertà di pensiero – evidenzia il presidente della Cei –. Che non significa, è doveroso sottolinearlo, esprimere a piacimento tutto quello che passa per la testa senza preoccuparsi di verificare la fondatezza delle proprie dichiarazioni e soprattutto senza assumersi la responsabilità di quello che si afferma. Bene ha fatto, dunque, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a dire che “non possiamo e non dobbiamo dimenticare” i morti di questa pandemia e soprattutto che è necessario evitare “di confondere la libertà con il diritto di far ammalare altri”. È questo il tempo della responsabilità e della serietà, lasciando da parte, per il bene di tutti, fake news, negazionismi e “cattiva informazione”».
«Infine, l’ultimo elemento di riflessione riguarda la riorganizzazione della vita comune. È necessario farlo oggi in vista del domani. I dati della crisi economica che leggo su tutti i giornali sono spaventosi. Le saracinesche ancora chiuse che vedo in alcuni negozi mi lasciano amarezza e inquietudine. Perché dietro quelle saracinesche ci sono uomini, donne e famiglie. Occorre ritornare a vivere con prudenza e cautela, ma occorre ripartire».
«Con il cuore ferito dalla prova, anche la Chiesa italiana – annuncia il presidente dei Vescovi – si prepara ad iniziare il nuovo anno pastorale e ha preparato un documento che sarà inviato a tutte le diocesi. Un documento di speranza e non certo di pratiche burocratiche da espletare nelle Chiese. Durante il periodo di lockdown con grande senso di responsabilità, misto a sofferenza, abbiamo accolto le disposizioni governative. Oggi siamo chiamati ad andare oltre. Il tempo presente ci chiede, infatti, di non restringere gli orizzonti del nostro discernimento e del nostro impegno soltanto ai protocolli o alla ricerca di soluzioni immediate».
«Siamo all’interno di un grande cambiamento d’epoca – conclude il cardinale Bassetti – che richiede un rinnovato incontro con il Vangelo e un nuovo annuncio del Kerygma: un incontro e un annuncio per promuovere e difendere ovunque il valore della vita».