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Migrantes Marche: a Loreto il Pellegrinaggio regionale con i migranti

9 Ottobre 2022 -
Loreto - Questa mattina a Loreto il Pellegrinaggio marchigiano con i migranti “Tutti insieme… alla casa di Maria”. Alle 16 è previsto il raduno dei partecipanti in piazza della Basilica; alle 16,30 il saluto di mons. Fabio Dal Cin e la presentazione dei gruppi etnici, con canti; alle ore 17.00 si celebrerà la messa presieduta dal card. Francesco Montenegro, che sarà trasmessa nei canali streaming del santuario di Loreto. Alle 18 “Festa insieme” alla Casa del pellegrino. Lunedì 10 ottobre, alle ore 21, sempre a Loreto, la Commissione regionale Migrantes propone un incontro aperto a tutti i laici della Regione presso la Sala Paolo VI, tenuto dal card. Francesco Montenegro dal titolo “Costruire il futuro con i migranti e i rifugiati”. L’incontro sarà trasmesso sui canali di streaming del santuario.

GMMR: l’omelia di mons. Coccia

26 Settembre 2021 - Loreto - Pubblichiamo l'omelia di mons. Piero Coccia, Presidente della Conferenza Episcopale delle Marche pronunciata questa mattina nel santuario della Santa Casa di Loreto in occasione della Celebrazione nazionale in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato promossa dalla Commissione Cei per le Migrazioni e della Fondazione Migrantes.
  1. Il Signore sia con voi! Questo saluto della liturgia che facciamo nostro, giunga dal Santuario della Santa Casa di Loreto dove stiamo celebrando la Santa Messa, a tutti i presenti e a tutti coloro che ci stanno seguendo su RAI 1.
Oggi la Chiesa celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. I Vescovi italiani, attraverso la Commissione per le Migrazioni e la fondazione “Migrantes”, quest’anno hanno scelto il Santuario di Loreto e la Regione Marche per la sua celebrazione in chiave nazionale. Tale scelta non è casuale ma motivata da varie ragioni. Il Santuario di Loreto definito da Papa Francesco nella sua visita del 25 marzo 2019, casa dei giovani, dei malati e della famiglia, compresa quella umana, custodisce la Santa Casa dove fu accolto Gesù il Verbo fatto carne. Questo luogo pertanto ci fa fare memoria dell’accoglienza. Le Marche inoltre, regione al plurale ma plasmata dalla fede, da sempre ha saputo declinare la sua identità cristiana in sintesi culturali, integrando le varie differenze nella prospettiva dell’accoglienza e dell’arricchimento reciproco. Di fatto l’accoglienza è nel DNA della nostra gente perché l’esperienza religiosa ha generato una ricca tradizione culturale. Non a caso la regione registra una significativa presenza di persone provenienti da altre terre ed oggi felicemente integrate nel suo tessuto sociale, economico e culturale. Infine non va sottovalutato il fenomeno della migrazione interna che la regione sta vivendo a causa del recente terremoto e che ha visto migliaia di persone, lasciare l’entroterra per riversarsi sulla costa. Fenomeno questo che molto ha impegnato anche le nostre diocesi.
  1. La scelta di celebrare la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato nella nostra Regione non può che onorarci ma anche responsabilizzarci nel dare attuazione concreta al Messaggio inviatoci da Papa Francesco, il cui titolo è significativo e nel contempo molto impegnativo: “Verso un noi sempre più grande”.
Le parole del Papa ci interpellano e ci sollecitano ad uscire dal nostro “io” per costruire il “noi” dell’umanità. Papa Francesco ci ricorda che tale processo ci è richiesto dal messaggio biblico riferito alla creazione ed alla redenzione; da un’esperienza di chiesa che deve essere sempre più cattolica e cioè universale; da un mondo che esige di essere sempre più inclusivo superando conflitti e contrapposizioni e dove ognuno di noi è chiamato a mettere a servizio di tutti, i propri doni per realizzare un futuro “a colori”. Le puntuali riflessioni del Papa ci impegnano a edificare con grande responsabilità un’umanità nuova che sappia amare, pensare e vivere come una grande famiglia per realizzare quella casa comune che spesso il Papa ci ricorda.
  1. Ma vado oltre. Con voi cari fedeli mi chiedo: a tale riguardo cosa ci sta dicendo la liturgia odierna?
Ci sta sollecitando ad essere costruttori del “noi”, promuovendo la cultura della inclusione, della relativizzazione dei beni materiali e della loro condivisione. Tre parole dunque che indicano tre esperienze a cui tutti noi siamo chiamati. Il libro dei Numeri (11, 25-29) ci riferisce la reazione decisa di Mosè di fronte alla richiesta di Giosuè di escludere dal ministero della profezia Eldad e Medad. La tentazione di Giosuè è anche la nostra. Non di rado anche noi siamo portati all’esclusione dell’altro, anche del migrante. Ma la parola di Dio ci chiama ad un cambio di mentalità. Il migrante è sempre un fratello, anche se meno fortunato di noi, che quasi sempre fugge dalla guerra, dalla fame e dalla violenza di ogni tipo. La costruzione di un “noi sempre più grande” passa dunque attraverso il processo dell’inclusione che si fa atteggiamento culturale ed esistenziale. San Giacomo Apostolo nella sua lettera (5, 1-6), ci indica poi il secondo processo necessario per costruire il “noi”: quello della relativizzazione dei beni materiali. Pungenti sono le parole dell’apostolo nei confronti di chi assolutizza ed accumula i beni materiali: “piangete per le vostre sciagure […]. Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme…il vostro oro ed il vostro argento sono consumati dalla ruggine”. La costruzione del “noi sempre più grande” richiede una forte convinzione: i beni materiali sono necessari ma non assoluti ed il loro accumulo non è giustificato. Oggi si rende sempre più necessario il superamento di un duplice pregiudizio: quello della “materialità” intesa come unica sfera realizzativa della persona, come anche quello dell’accumulo dei beni come segno di grande potere. L’inseguimento di questi “miti” potrebbe renderci corresponsabili di tante ingiustizie anche nei confronti dei migranti i quali non poche volte per un pezzo di pane si piegano ad ogni forma di ricatto e di sfruttamento. Non rendiamoci responsabili di un’umanità disumana! Il Vangelo di Marco (9,38-43.45.47-48) ci riporta le parole di Gesù: “chiunque vi darà da bere un bicchiere di acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità vi dico non perderà la sua ricompensa”. La realizzazione di “un noi sempre più grande”, richiede l’esperienza della condivisione. Tutti abbiamo le nostre ricchezze materiali, spirituali, culturali, professionali. Non sempre ci rendiamo conto che quanto ci è dato o quanto da noi conquistato, va condiviso per motivi di giustizia e di amore fraterno con chi ha meno di noi e vive nel bisogno dell’essenziale: cibo, casa, vestiario, lavoro…ecc. Per costruire un “noi sempre più grande” abbiamo bisogno di sostituire l’ansia del possesso individualistico con il sentimento e la convinzione della condivisione. Accogliamo l’invito di Papa Francesco e della liturgia di oggi, a fare del nostro “io” un “noi più grande” rendendoci artefici di una società più accogliente, più fraterna, più giusta e più solidale attraverso la triplice esperienza dell’inclusione dell’altro, della relativizzazione dei beni materiali e della condivisione di quanto abbiamo. La Vergine di Loreto che ha vissuto nella sua persona l’accoglienza del Verbo fatto carne, sia per noi modello ed aiuto per essere persone e comunità accoglienti. Sia lodato Gesù Cristo.          

La Chiesa di Rabat: un NOI sempre più grande

17 Settembre 2021 -
Rabat - «Venite in pellegrinaggio alla Chiesa del Marocco !». L’invito del cardinale  di Rabat, Cristóbal, al Convegno Migrantes di fine agosto a Loreto era forte e seducente. Tre ore di volo, dunque. Ed eccomi in Marocco, all’aeroporto della capitale: lui stesso, sorridente come sempre, è già da tempo in attesa… Zigzagando, poi, tra il traffico marocchino, mai troppo ordinato, mi porterà a  Casablanca dalle missionarie di Madre Teresa di Calcutta: è la loro festa liturgica. Viene ad aprire la porta una donna scura con un piccolo in braccio, accanto un’altra con un pancione di ben 8 mesi. Le ritroviamo tutte, poi, in cappellina, una dozzina di ragazze-madri, rifiutate dalle famiglie, ma accolte dalle suore di Madre Teresa. Sì lei, «la matita di Dio» - come lei stessa amava definirsi – sapeva scrivere il poema della tenerezza per gli ultimi. Sono qui accolte a una sola condizione : tenersi il bambino. Accogliere la vita. E dico tra me e me : «Non vi è tappa migliore per i primi passi di questo pellegrinaggio…».
Domenica, ore 11.00, messa solenne alla Cattedrale, maestosa costruzione bianco-latte, con due torri-minareto in fronte. Il popolo di Dio,  una cinquantina di nazionalità, si distende nella navata come un’enorme onda nera. C’è chi viene perfino dall’isola di Kiribati - mi specifica Père Daniel, il parroco - l’isola ormai destinata a scomparire sotto l'oceano, con i cambiamenti climatici in atto, a soli 8 metri s.l.m. «Qui noi ci sentiamo veramente cattolici !» conclude, deciso. La corale degli studenti subsahariani, intanto, anima la celebrazione con una coralità polifonica bella, intensa e potente. Alla fine, per gli avvisi a tutto questo popolo in tempo di pandemia, il Cardinale ne articola lentamente l'ultimo, come una preghiera o una raccomandazione originale: «Signore, di’ una sola parola e noi saremo salvi…» «Vaccinatevi !».
È, per davvero, un pellegrinaggio, questa visita. Si entra nei luoghi di santità della porta accanto, nella vita quotidiana dei discepoli del Signore in terra d’Islam. Di Lui, mostrano concretamente il suo volto: l’amore. Gratuito, intero, disinteressato. L’amore per i poveri e per i tantissimi migranti di qui. Come Tommaso, mettono il loro dito nelle ferite del corpo del Cristo. Anzi, mettono interamente se stessi. Una Chiesa piccola, umile, povera, fragile, buona samaritana, luce e sale per questa terra musulmana. Perdendosi, come il lievito, in questa umanità. Sacramento del dialogo e dell'incontro. Appassionata della fratellanza con tutti. E che ogni mattina, sembra ripetere a se stessa con il profeta Michea, all’alzarsi dell’alba : «Cammina umilmente con il tuo Dio!».
Così, con otto ore di bus lungo tutta la notte arrivo al monastero Notre Dame de l’Atlas dei monaci di Tibhirine, sull’altopiano. Sono le 4 del mattino, il tempo della loro prima preghiera. Si snoda tranquilla tra l’arabo e il francese, come camminando sul confine di un mondo e un altro, di una cultura, una religione e un’altra, ben diverse, immensamente differenti. Poi, a metà mattinata eccoci a prendere tutti insieme il thé con gli operai musulmani del monastero. Un monaco mi soffia, discreto, all’orecchio: «È la mia seconda eucarestia!». E vedendo come per mezzo di un semplice pezzo di pane e del thé quale senso di comunione egli respira con questo mondo, con tutto un popolo, non stento a credergli. Toccante, poi, la visita al memoriale dei sette monaci martiri di Tibhirine con i loro oggetti, lettere, vestiti. In particolare, trovare esposta la loro prima professione religiosa, firmata da ognuno, cioè il loro primo passo verso la morte. Anzi, verso il dono completo di sè. La «sala del capitolo» è un semplice tavolo con sette sedie vuote… Ma è proprio quello, attorno al quale prendevano tutte le loro decisioni. Come quella, tremenda, di restare fino alla fine su questa terra martoriata. Anche se la morte sicuramente, un giorno, vi incontrerà… Incontro Jean Pierre, il sopravissuto, ormai 98enne. Gli chiedo quale mano il papa gli ha baciato... Sorride, non parla più.
Infine, ancora molte ore di bus e raggiungo Oujda, ai confini con l’Algeria. La parrocchia è circondata di postazioni di polizia per la vicinanza del palazzo reale. Davanti, un gruppo numeroso di giovani migranti subsahariani dal Mali, Gambia, Guinea... sta parlottando tra loro, chi con un braccio fasciato, chi una gamba... La parrocchia vi appare subito un autentico «ospedale da campo». Un’oasi di fraternità sorprendente. Provvidenziale. Passato il deserto, essi crollano di stanchezza appena arrivati, li trovate a dormire sul tappeto dell’altare, dappertutto. Sembra di udire in fondo all’anima parole di Vangelo : « Non aver paura, sono io… sono io, straniero, migrante, che voi avete accolto ! »  Un’emergenza umanitaria, per cui si accolgono decine e decine di giovani migranti, percossi, fratturati o torturati dalla polizia algerina, marocchina o altri. Partono e arrivano di continuo, anche di notte, rimanendovi solo qualche giorno. Qualcuno ha già  tentato inutilmente la scalata dei sette metri di barriera con la Spagna. Ve lo spiega, calmamente, mostrandovi le grandi ferite per la caduta: ha preparato gli uncini di ferro battuto per giorni, ha messo lo scotch per non ferirsi le mani, ha atteso per giorni e giorni il momento… Appena si rimetterà in sesto, ritenterà. «Ma per noi non c’è altra scelta!» si lascia sfuggire uno di loro, con tristezza. "Dopo tutte queste prove e traumi  sono bravi a non perdere la testa!" mi fa un responsabile. Purtroppo, non è vero per tutti, alcuni psicologicamente crollano. Altri decidono di fermarsi qui.
«La loro colpa è di voler vivere,  vivere una vita degna!» affermava un vescovo marchigiano, recentemente. Ma quale colpa è mai questa?!
«A uno straniero non chiedere mai il suo luogo di nascita – scriveva Edmond Jabbès – ma il luogo del suo avvenire». Oh sì, la libertà, la dignità, la vita… (Renato Zilio  - Direttore Migrantes Marche)

Card. Romero: non definire mai la migrazione un problema, il problema è la povertà

24 Agosto 2021 - Loreto  - L’ entusiasmo di raggiungere il colle della santa Casa di Loreto era evidente, per la settantina di partecipanti al Corso di Alta formazione promosso dalla Fondazione Migrantes e iniziato ieri. Un entusiasmo che non si spense neppure con il nubifragio che dopo la messa serale impediva a tutti perfino di uscire dalla Basilica. Presieduta dal arcivescovo di Ancona, mons. Angelo Spina la celebrazione  coronava con la sua abituale semplicità di cuore e nella preghiera, un primo pomeriggio, intenso di testimonianze. Due, infatti, le testimonianze che hanno aperto il convegno. La prima è stata quella del card. Cristobal Lopez Romero, vescovo di Rabat, in Marocco, che era stato visitato nel settembre 2019 da dieci componenti della Migrantes Marche. Il porporato si è collegato on line parlando della sua Chiesa come “la mia sposa”, piccola ma non insignificante realtà in un paese islamico dove i cristiani sono 30 mila su 37 milioni, stranieri, molti europei e moltissimi sub sahariani, studenti e operai, una Chiesa “straniera ma non estranea al Paese, costruttrice di ponti...” come testimoniano le 12 scuole cristiane frequentate da 12mila tra studenti ed insegnanti mussulmani, ma i cui valori sono attinti in modo condiviso dal Vangelo e dal Corano e si richiamano a quelli del Regno di Dio: pace, giustizia, libertà, amore, tutto quanto serve per lo sviluppo umano integrale della società con cui questa chiesa vive in maniera minoritaria ma ampiamente stimata. Un frutto di questa collaborazione è la facoltà teologica ecumenica a Rabat, caso unico al mondo in cui studenti cattolici, protestanti e mussulmani si radunano per studiare reciprocamente la rispettiva fede in modo da abbattere le diffidenze e i pregiudizi che impediscono di costruire con fiducia e mutuo rispetto vie per un mondo più bello per conoscersi, collaborare e perfino  pregare insieme! Il card. Romero ha concluso la sua testimonianza ammonendo di non definire mai la migrazione un problema, ma un fenomeno, perché il problema vero è la povertà. “Se la ricchezza non andrà dai poveri, saranno i poveri ad andare alla ricchezza”. Del resto la libertà di migrare è un diritto garantito dall'art. 13 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo. Un invito ad ampliare lo sguardo e andare alla radice del problema che è la povertà, non l'emigrazione, che ne è un effetto,  seguito dall'invito di andarlo a trovare in piccoli gruppi per conoscere sempre più questa realtà così interessante e stimolante di proposte, prospettive e soluzioni nuove. La seconda testimonianza è stata dei coniugi Antonio Calò e Nicoletta Ferrara, due insegnanti del trevigiano, con quattro figli, che all'ennesima notizia di centinaia di migranti morti, abbandonato ogni calcolo, chiesto solo il consenso dei figli (tra i 16 e 22 anni), hanno aperto la loro casa a sei ragazzi africani salvati dai barconi e che poi, hanno appurato, avevano attraversato l'esperienza del carcere, della tortura, raccontando la loro storia nel libro “A casa nostra, la trasformazione della nostra famiglia” edito da Emi. I due coniugi hanno avuto problemi ad abbattere qualche ostacolo (passare dalla mia o tua mamma alla nostra mamma ha richiesto...un esercizio non da poco!!!). Permettere a un loro figlio estroso e geniale ma con la testa sempre un po' sulle nuvole di  partecipare al cammino di Santiago accorgendosi solo il giorno prima di non avere scarpe adatte, grazie al dono di uno dei nuovi fratelli delle sue scarpe è costato qualcosa di davvero sorprendente... Grazie alla fede di questi sei ragazzi mussulmani e alla costante preghiera cinque volte al giorno anche i loro quattro figli, bravi ma poco...inclini a pregare, hanno avuto una trasformazione inaspettata di modo nuovo di accostarsi alla preghiera. Senza mai discutere se meglio l'Islam che il cristianesimo...ma cristiani e mussulmani veri fratelli!!! Importante è stata la cucina etnica. A pranzo una pastasciutta veloce per tutti, la sera l'aria di casa si carica degli aromi delle spezie e del cibo di terre lontane: quello delle loro terre di origine! Sono venuti a contatto con la mamma di uno di loro per telefono, che ha assicurato i nuovi genitori di essere al centro della sua preghiera perché Dio possa benedirli a dismisura. I sei ragazzi hanno attraversato prigione, tortura, pericolo del mare per arrivare fin qui. Questa famiglia ha superato le critiche asprissime dei vicini, nonostante il loro buon rapporto insieme ad ogni tipo di obiezione dei parenti. Ma ne è davvero valsa la pena perché...il bene genera sempre il bene. Proprio due belle testimonianze per iniziare nel migliore dei modi questo corso (Don Alberto Balducci - Migrantes Jesi)

Marche: religiosità popolare, una missione

28 Luglio 2021 -
Loreto - Campocavallo, piccola località a due passi da Osimo (Ancona). Forse passarci vi sembrerà insignificante o del tutto casuale. Anche se all’incrocio delle due strade principali vi sorprenderà d’improvviso una chiesa dal profilo di antica abbazia medievale. Tutta archi, traforata di marmi, viene edificata verso la fine ‘800, come Santuario della Beata Vergine Addolorata da un sacerdote appassionato, don Giovanni Sorbellini. Di notte, illuminata da uno strano chiarore bianco e giallo-oro, emerge dal buio con un’imponenza misteriosa che incanta. Il paese tutt’attorno sembra tranquillo, ma solo in apparenza… Nelle case qui, di notte, si lavora alla grande. E lungo tutto l’anno. Donne e bambini si vedono impegnati in un insolito mestiere, che si fa da oltre un secolo: intrecciare spighe di grano. A migliaia, a milioni, nelle case o nelle stalle. Si prepara, così, la «festa del covo». «Non possiamo fare grandi cose su questa terra – diceva qualcuno – solo piccole cose con grande amore». Ed è questo il caso. Con il grano intrecciato, sorgono pian piano allo sguardo i contorni di una basilica, a grandezza quasi naturale. Enorme, splendida, tutta dorata di spighe. Così, questi lavori dell’arte contadina fanno rinascere, nel corso degli anni, dei capolavori come la Basilica di Czestochowa, quella di S.Pietro, o di san Giacomo di Compostela… La festa di due o tre giorni – lungo i quali si inanellano ogni sera eventi musicali, teatrali, artistici e gastronomici – culmina con la processione religiosa del famoso «covo» su un enorme carro, per le vie di Campocavallo. Questo, all’ombra del santuario della Beata Vergine Addolorata, a cui è dedicato il covo. Il pubblico è innumerevole, sempre tutto occhi e flash, ogni anno. Terminato l’evento, la grande chiesa in paglia di grano si avvia lentamente sul suo carro verso la…  città di origine, in segno di riconoscenza. Ogni anno, come regola, è sempre una nuova impresa. Eccetto due anni fa, quando si è rifatta la basilica di S. Antonio di Padova, tutta cupole rotonde e minareti, un vero splendore. I frati, infatti, la prima, l’avevano dimenticata all’aperto. Gli uccelli, allora, pensavano bene di continuare la festa,… lasciando sul campo un semplice scheletro in legno. In fondo, per la gente di paese, ricominciare ogni anno l’avventura di costruire pazientemente una cattedrale è più che una tradizione. È un’emozione. Una missione. Anzi, una liturgia. Quella che sa esprimere la propria fede contadina con gesti semplici, ripetuti e manuali. E l’anima religiosa di un popolo, che sa ancora celebrare la terra e il buon grano come doni di Dio. E anche questo sa di miracolo! Nascere – scrive Jostein Gaarder- è ricevere in dono un intero universo. (p. Renato Zilio - Direttore Migrantes Marche)

Missionari di un “noi” sempre più grande

8 Luglio 2021 - Loreto - Per qualche giorno sono ricoverato all’ospedale di Jesi, una modernissima struttura, fuori città, su una altura collinare. Tutt’attorno, vigneti del rinomato «verdicchio», - il bianco di Jesi dalle tonalità verde-limone, - si distendono su e giù per i colli. Sono solamente da ammirare… perchè gli ospiti qui all'ospedale sono trattati rigorosamente ad acqua! Ma la vostra sorpresa più grande avviene nella hall di entrata. Centinaia di occhi dietro una mascherina chirurgica vi osservano… una maxi-foto, plastificata, enorme, che dal pavimento sale all’altissimo soffitto. Venne inaugurata nella tarda primavera 2020. «La pandemia Covid ha rivoluzionato ogni nostra modalità di contatto interpersonale, riscoprendo il linguaggio degli occhi» recita una didascalia. Sono, infatti, gli occhi del personale medico del Pronto soccorso e dei reparti Covid. Si è voluto immortalarli così. E sono i nostri nuovi missionari. Seguono, poi, in questo immenso poster altre considerazioni. «Siamo rimasti colpiti dalla bellezza di alcuni sguardi, di solito neanche considerati» continua il testo. «Occhi scintillanti ad inizio turno, più opachi al termine, sempre vivi ed illuminati dall’entusiasmo di agire per il bene di chi spesso è terrorizzato da ciò che sta vivendo». E questo lo posso toccare in questi giorni con mano, personalmente. Questa tremenda emergenza è rimasta una sorprendente lezione: si è imparato a dare tutto se stessi. Disponibilità, vigilanza, qualità del contatto, amabilità e competenza sono rimaste come un’onda lunga nel DNA del personale dei reparti. «Se vuoi essere grande, sii intero!» raccomandava J.Pessoa, uno scrittore lusitano. Invito che si ritrova qui, vissuto tra le corsie, che un tempo erano vere trincee di combattimento. Vi coglierà di sorpresa anche un’altro elemento. Questo suggestivo omaggio alle equipe mediche è stato offerto dalla comunità musulmana di Jesi, in particolare, dal Centro culturale islamico «Al Huda». Volendo, infatti, partecipare con un gesto allo sforzo inedito del mondo sanitario nell’emergenza Covid, si è pensato a una traccia di memoria all’entrata dell’ospedale. Con una dedica, sottostante : «La Comunità islamica si inchina con profonda riconoscenza per i sacrifici compiuti».  Ecco la storia di una grande idea, per non dimenticare. «La memoria è un tesoro - ripeteva Cicerone - e il custode di tutte le cose». Sì, per non disperdere il valore della realtà, l’intensità di certi momenti vissuti. E la possibilità di legami che uniscono le esistenze. Come qui,  per un "noi" sempre più grande. Ma la memoria - vi potrà commentare Saramago, premio Nobel di letteratura – è legata alla responsabilità. «Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo. Senza responsabilità, forse, non meritiamo di esistere». Proprio in quest’ospedale, infatti, si fa memoria della ammirevole responsabilità di un medico e microbiologo illustre, originario dei dintorni, Castelplanio. Volontario appassionato da giovane in  associazioni come Mani Tese, Unitalsi… si impegnò, poi, in attività che lo portavano ad operare in Africa e in Asia. Fu lo scopritore della famosa Sars, tremenda epidemia scoppiata nel 2002. Scriveva di suo pugno nel diario, che teneva con sè : «Sono cresciuto inseguendo il miraggio di incarnare i sogni. Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro». Il destino si incaricò di farne anche la sua morte. Vittima, lui stesso, infatti, un giorno della Sars. L’ospedale ne porta alto, con onore, il nome: Carlo Urbani. L’era dei missionari non è finita. Per un "noi" sempre più grande. (Renato Zilio - Direttore Migrantes Marche)    

Dopo il Covid, urgente voltare pagina

2 Luglio 2021 - Loreto - Ho ancora negli orecchi il commento del direttore della Società “Dante Alighieri” di Londra, una vera istituzione questa dell’insegnamento della lingua italiana all’estero. Uomo franco, cordiale, molto laico, abituato ad andare direttamente al cuore delle cose. E delle parole. "L’essenziale sono i valori che vivete, per questo la gente vi ama ancora.” Lo diceva a noi tre, missionari degli italiani all'estero, passando per caso alla parrocchia, in Brixton Road. “Non sono i riti o le cerimonie,” precisava “sono i valori oggi di cui la gente è assetata. A cui è sensibile, anche se non sembra. La gente guarda, osserva e si rivela esigente, attenta ai valori in chi ha delle responsabilità, nei leaders”. È vero, i nostri emigrati trovano alla nostra parrocchia un’accoglienza a tutte le ore, un’empatia che li fa sentire in famiglia e spesso un gesto concreto di solidarietà. Dei valori. A volte, con loro il discorso cade sulla nostra Italia, vista da fuori.... le parole allora si fanno preoccupate. Sentono che non vi trovano più quei valori che avevano conosciuto una volta. Sembrava - prima di questa pandemia - che il “fare il proprio interesse” fosse l’idolo a cui tutto oggi si sacrifica. Da qui la fragilizzazione della situazione dei giovani, del loro affannoso arrivo all’estero, della precarizzazione di tutta una società… Fare i propri interessi sembrava fosse diventato quasi un paradigma con i suoi eroi negativi. Pareva che tutto quello che si toccasse – come il re Mida per il quale tutto diventava oro – si trasformasse per noi più banalmente in merce, le persone dei clienti reali o potenziali. Tutto si compra, tutto si vende. La pubblicità in TV vi blocca in un dibattito perfino la parola in bocca, perchè ne ha la priorità.  Anche per avere un figlio in più, come una merce, si sente esclamare: “No, ci costa troppo!” I nostri grandi valori di unità, di condivisione, di solidarietà o semplicemente di fiducia e di coraggio nell’avvenire – che i nostri emigranti hanno vissuto come un vero motore nella loro avventura – sembrano essersi sciolti, come neve al sole. Sembra venuta meno la compassione per il mondo, per le tragedie dei popoli nostri vicini di casa. Il senso dell’altro. La sfida di un avvenire per tutti, da costruire a più mani. E ritornano in mente indimenticate parole di Chiara Lubich ai sindaci: “La scelta dell’impegno politico è un atto d’amore: con esso il politico risponde ad un’autentica vocazione, ad una chiamata personale. Egli vuol dare risposta ad un bisogno sociale, ad un problema della sua città, alle sofferenze del suo popolo, alle esigenze del suo tempo”. Scendere in politica da noi sembra quasi scendere in guerra. E i leaders dei capi-popolo, dai toni infuocati, sempre pronti a incendiare gli animi. O a dichiarare guerra agli uomini, che il Dio di Abramo conduce ancora oggi per mano, i migranti. Sapendo che un migrante cerca sempre, in fondo, due realtà vitali ed essenziali per ogni essere umano: il pane e la dignità. E fugge - moltissime volte tra pericoli impensabili - da una terra, dove per lui è impossibile vivere. Dovremmo, invece, aiutarlo a vivere in un mondo sconosciuto, complesso, duro a volte per lui quale è il nostro. E dovremmo semmai scendere in guerra con realtà patologiche vere, croniche, mali antichi, che corrodono l’anima stessa della nostra bella Italia e che perfino all’estero vi sanno enumerare con sorprendente lucidità! Con la logica perversa dell’esclusione, purtroppo, non si salva il mondo. Nè lo si cambia. Ma lo si stravolge, rendendolo invivibile. È ora, finalmente, dopo la stagione amara del Covid, ritornare ai nostri valori perduti, al bene comune. Sarà il cammino verso quella terra promessa da Dio, che porta il nome di solidarietà. Di fratellanza. A cominciare dagli ultimi. Vera sfida che ci attende domani, per vivere. P. Renato Zilio – Migrante Marche)    

Emigrano i semi sulle ali dei venti

11 Giugno 2021 - Loreto - «Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le piante da continente a continente, emigrano gli uccelli e gli animali, e, più di tutti, emigra l’uomo, ora in forma collettiva, ora in forma isolata, ma sempre strumento di quella Provvidenza che presiede agli umani destini…».  Con queste parole di Giovanni Battista Scalabrini iniziava il collegamento streaming a Loreto, in preparazione della «Passione del Giusto». Evento questo, che, sotto l’esperta regia di Mario, da 40 anni si tiene tradizionalmente nella Settimana Santa, con la partecipazione di alcune migliaia di persone. In questo tempo di pandemia non ha avuto luogo. Si tratta del dramma del Cristo, rivivendo però «le passioni» dell’umanità di oggi. Le vie crucis, il  calvario e le morti innocenti dei nostri giorni. Quest’anno il tema era l’emigrazione, con la presentazione, via web, di un best-seller della EMI: «Dio attende alla frontiera». Nella mente degli ascoltatori sono rimaste alcune idee semplici. Fissate come chiodi. Fondamentali. Emigrare è cambiare mondo. È provare a camminare nei sandali degli altri, ed è, come sempre, duro e complicato… È vivere alla frontiera. Anzi, alle frontiere, al plurale. Delle nostre abitudini, delle tradizioni, della mentalità, della nostra stessa lingua, di noi stessi… Ma, la frontiera è «luogo teologico» che relativizza le costruzioni dell’essere umano, l’assoluto delle sue conquiste, la centralità dei suoi mondi. Così la sua ambizione, il suo segreto senso di onnipotenza. La frontiera è luogo per eccellenza dell’incontro e del confronto, dell’identità e dell’alterità che si danno appuntamento. Luogo del sapersi fare uomo con l’apporto dell’altro, del senso dell’incontro di un altro mondo, un altro cammino che si incrocia. In fondo, occasione di risvegliare la nostra indifferenza, chiusura o abitudini cristallizzate. Per «sprigionare», - sì, far uscire di prigione, - le nostre energie migliori, il valore della condivisione, dell’apertura. Costruire insieme all’altro un mondo più aperto e umano. Difficile sfida, sempre. Emigrare è una ricerca, spesso dura, estenuante e caparbia, di due realtà vitali per un essere umano: il pane e la dignità. Sì, perchè la terra da cui si proviene è indegna di farci vivere. E oggi sono migliaia i nostri giovani che partono all’estero, gridando in fondo all’anima proprio questo ! E scremano la nostra terra delle sue promesse. Delle sue forze migliori. Emigrare è una lotta, dura e amara. Dove ogni giorno è una sorpresa, ogni passo un’umiliazione, perchè si è in casa d’altri. E tutto ve lo ricorderà, senza pietà… Ma è anche allo stesso tempo una danza. Lotta e danza, al medesimo tempo. Perchè apre la mente e il cuore ad altri mondi, ad altri orizzonti, cambia il nostro ritmo. E tutto può trasformare e arricchire un essere umano. Che diventa, quasi per miracolo, un essere di sintesi. Mettere insieme, così, le radici che ci hanno fatto crescere, e le antenne che ci fanno vivere e respirare. Ed è sempre, questa, un’arte rara. Con il tempo, ma molto tempo e pazienza,  (lo sapevate ?) il migrante scoprirà di avere un cuore doppio del normale. Perchè imparerà ad amare – sì, con lo stesso amore – la terra di origine e insieme la terra di accoglienza. Come quando si sentono degli emigrati siciliani o calabresi, che d’estate vengono a visitarsi la loro terra di origine : «Beh, sono passati come un soffio questi quindici giorni !… è ormai ora di tornare a casa !» Cioè, all’estero. Dove hanno ricostruito la loro vita sulla terra degli altri. Ormai diventata la loro. Iniziato con l’immagine dei semi, infine, l’incontro streaming termina con « la ballata del migrante ». Con un pathos tutto suo è recitata da Rita, per raggiungere il cuore dei numerosi ascoltatori via web… Una lezione per un domani. «Come un seme sono uscita dalla terra. Come un seme sono nata nella mia terra di povertà e di miseria. Vengo dal profondo Sud, dalla Moldavia, dalla Tunisia, dalle Filippine… e da tante altre terre. Sì, la mia terra è rimasta incollata all’anima della mia vita. Ma come un seme tenevo stretta tra le braccia tutta la speranza del mondo, ogni attesa dell’universo. Allora, come un vero seme il vento mi ha scossa, mi ha percossa, mi ha dispersa altrove. E ho attraversato il mare e l’oceano. Ho conosciuto l’esilio e la paura, il coraggio, il sogno e l’amicizia, la danza e la lotta vera. Ho conosciuto la speranza e le illusioni, il pianto e la preghiera. Come un seme il cuore mi è scoppiato. Sì, la mia vita è sempre impastata di morte e di rinascita, di fame e sete di dignità, di paura di vergogna e di nostalgia, di solidarietà nuove e di speranze mai finite… E quante volte ho dovuto morire : io non sono che un seme nella mia vita di migrante, destinato a nascere e a scomparire sempre… Ma verrà un giorno, sarò un albero, finalmente, nella terra degli altri e farò frutti e meraviglie, che mai nessuno avrà visto uguali !».  (Renato Zilio - Migrantes Marche)

MEMA, Il Museo dell’Emigrazione Marchigiana

13 Maggio 2021 - Recanati - Le antiche cantine di Villa Colloredo Mels ospitano il Museo dell’Emigrazione Marchigiana (MEMA) che è stato inaugurato nel dicembre 2013. Si tratta di un Museo multimediale e interattivo, realizzato per volere del Comune di Recanati, della Regione Marche, dell’Associazione marchigiani nel mondo e anche grazie al cofinanziamento del Dipartimento della Gioventù e del servizio civile nazionale. È dedicato a tutti i marchigiani, circa settecentomila, che tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, oppressi da condizioni di estrema povertà, hanno preso la coraggiosa decisione di abbandonare la loro terra d’origine per dirigersi verso un luogo sconosciuto alla ricerca di fortuna. All’ingresso del Museo si trova una riproduzione della tipica casa del mezzadro e una sezione dedicata al viaggio e al bagaglio che gli emigranti portavano con sé. Scendendo ci si trova a un bivio: il visitatore è chiamato a scegliere se spostarsi ai treni o alle navi. Dal vagone del treno cinque marchigiani raccontano la loro storia di emigranti che hanno lasciato la propria regione alla volta dell’Argentina, del Belgio, degli Stati Uniti. Davanti al treno si trova una sezione dedicata al lavoro in miniera dove si possono vedere da vicino gli strumenti utilizzati dai minatori. La sezione dedicata al viaggio in nave, invece, propone la riproduzione di una tipica cuccetta di terza classe e, mettendosi seduti, è possibile ascoltare un’altra storia di emigrazione. Più avanti un touch screen consente di visualizzare, leggere e ingrandire documenti, fotografie, diari e memorie che sono stati donati al Museo dalle Acli, dalle Associazioni di marchigiani all’estero e dai discendenti di alcune famiglie di emigranti. Nell’ultima sala del Museo è infine possibile ricercare la scheda di viaggio di conoscenti e parenti, che sono emigrati in quel periodo storico, attraverso la consultazione di un database che raccoglie i dati degli emigranti non solo marchigiani ma di tutta Italia. L’intero percorso è accompagnato da pannelli descrittivi, suggestive foto e gigantografie che raccontano il viaggio della speranza intrapreso dagli emigranti marchigiani. Un commovente viaggio indietro nel tempo alla scoperta degli usi, dei costumi e delle tradizioni che appartengono alla storia di ognuno di noi. Il Museo dell’emigrazione marchigiana intende accompagnare e coinvolgere il visitatore in un itinerario “fisico ed emozionale” destinato a ripercorrere la storia del fenomeno migratorio e a riannodare quei legami profondi che hanno unito e uniscono ancora oggi le Marche alle comunità di emigranti. Immagini, oggetti, lettere, documenti e ricordi, animano i diversi ambienti museali che ripetono altrettanti significativi ‘momenti’ di questo viaggio nella memoria dell’emigrazione marchigiana, ma acquistano una dimensione più coinvolgente ed emozionale, sollecitando in un pubblico ampio ed eterogeneo sempre nuove suggestioni e riflessioni. Grazie all’utilizzo di tecnologie innovative, infatti, la storia del passato diventa narrazione interattiva, le immagini della memoria realtà virtuale ed i suoni contribuiscono ad evocare situazioni e luoghi lontani nel tempo. La visita si trasforma così in un’esperienza viva e vitale dove la lezione di quanti con tenacia e perseveranza hanno contribuito alla crescita di tanti Paesi, sia di monito per le giovani generazioni che, nell’affacciarsi sul palcoscenico del ‘mondo globale’, non dimentichino le proprie radici.

GMMR: nelle Marche le celebrazioni principali

6 Maggio 2021 - Roma - Le celebrazioni ufficiali della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato si svolgeranno quest’anno nelle Marche. L’iniziativa è della Commissione Cei per le Migrazioni e della Fondazione Migrantes che proprio in questa regione promuoverà, dal 23 al 27 agosto, a Loreto, in collaborazione con il SIMI (Scalabrini International Migration Institute),  il Corso di Alta Formazione sul tema “Costruire e custodire la casa comune” con la partecipazione di vescovi, direttori Migrantes, operatori di diverse diocesi italiane. Un santuario, quello di Loreto, che ogni anno accoglie il pellegrinaggio regionale dei migranti.  Nelle Marche anche la celebrazione eucaristica nazionale c che si svolgerà domenica 26 settembre, Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Attualmente nelle Marche risiedono 136mila cittadini stranieri, il 9% della popolazione mentre i cittadini marchigiani  residenti all’estero sono 155mila con una incidenza sulla popolazione marchigiana pari al 10%.  (Raffaele Iaria)