Tag: Immigrati e rifugiati
Decreto Rilancio ed emersione dei rapporti di lavoro
Mediterraneo: crescono i soccorsi
Bangladesh: il coronavirus miete la sua prima vittima in un campo profughi
“Il Mediterraneo e la crisi globale”: parte “Sabir 2020”
Tavolo Asilo: favorire emersione e regolarizzazione di tutti i lavoratori stranieri presenti in Italia
Mazara del Vallo: iniziazione cristiana per quattro ragazzi africani
Quella nave che “graffia” le nostre coscienze
Viminale: da inizio anno sbarcate 5.024 persone migranti sulle coste italiane
Roma - 5.024 sono le persone migranti sbarcate sulle coste italiane da inizio anno. Il dato è stato diffuso dal ministero degli Interni, considerati gli sbarchi rilevati entro le 8 di questa mattina.
Papa Francesco: “è un momento delicato per il diritto d’asilo”
Per un mondo più fraterno
Migrantes Milano: mons. Delpini celebra la Pentecoste con le comunità migranti
R.I.
Mediterraneo …. Quanto resta della notte?
- La condizione dei tanti stranieri senza titolo di soggiorno (si stima siano almeno 600.000) presenti nel nostro paese, persone senza diritti, condannati all’invisibilità, esposti allo sfruttamento lavorativo e di altro genere, e ora anche al contagio. Papa Francesco li ha ricordati più volte in questi mesi, e anche il Cardinal Bassetti si è pronunciato, proprio nei giorni in cui si discuteva in parlamento della norma per consentire l’emersione dal lavoro nero e dalla irregolarità. La legge approvata non corrisponde a quanto avevamo chiesto, e cioè la regolarizzazione di tutti gli “invisibili” presenti sul nostro territorio, indipendentemente dal contratto di lavoro, come condizione indispensabile per il riconoscimento della loro dignità e la tutela della salute loro e di tutti. Tuttavia è un passo in questa direzione e permetterà a molte migliaia di persone una vita più giusta.
- La condizione di tante persone che fuggono dalla guerra e dalla miseria e che continuano ad essere costrette ad affidarsi a trafficanti senza scrupoli perché non ci sono vie di fuga legali e sicure. Ad essere torturati e violentati nei campi di detenzione libici e a morire lungo il viaggio: “La catastrofe umanitaria più grande dopo la seconda guerra mondiale” (Papa Francesco). E questo ormai come se fosse una cosa normale, inevitabile, senza un sussulto di umanità.
- Occorre moltiplicare le occasioni di ascolto e di incontro, perché impariamo a riconoscerci parte di una stessa umanità. Giustamente qualcuno ha notato che fra il lasciar morire nel Mediterraneo i profughi e il lasciar morire i vecchi, come cinicamente si è fatto in alcuni paesi, il passo è breve. Si tratta di esercitarci in quelle sei coppie di verbi che ci ha suggerito il Papa nel suo messaggio per la prossima GMMR.
- Il prossimo 3 giugno saranno tolti i limiti agli spostamenti fra le regioni e con gli stati esteri, per favorire l’afflusso dei turisti. I nostri porti resteranno vietati solo a quanti fuggono dalla morte?
- Basta con la criminalizzazione delle navi delle ONG accusate di essere complici dei trafficanti e di attentare alla sicurezza del paese. Esse fanno quello che l’Europa dovrebbe fare, garantire l’accesso a un porto sicuro ai richiedenti asilo.
Don Gianni De Robertis
direttore generale Fondazione Migrantes
Avezzano:il dialogo interreligioso e interculturale con mondo migrante
Verso Tokyo 2021: quei rifugiati che sognano le Olimpiadi
Milano - Cinquanta atleti, uomini e donne. Sono tutti rifugiati e in comune hanno un sogno: quello di far parte dell’Olympic Refugee Team, che parteciperà ai Giochi estivi di Tokyo nel 2021, quando si spera che il Coronavirus sia solo un ricordo o quasi. La squadra, la cui composizione ovviamente non è ancora definitiva a causa di tutto ciò che è accaduto recentemente, segue le orme della delegazione che nel 2016 ha preso parte alle Olimpiadi di Rio ed è sostenuta dal CIO attraverso il Programma di Solidarietà Olimpico. Una miriade di atleti, in cui si distinguono tre provenienze. La prima è quella costituita dai dieci membri della squadra di Rio 2016. A loro, tra cui Yusra Mardini, nuotatrice di origine siriana fuggita via mare e poi stabilitasi in Germania, l’Olympic Solidarity Programme garantisce supporto per continuare l’allenamento e gli studi. Il secondo gruppo è formato dagli atleti e dalle atlete, specializzati nell’atletica (fondo e mezzofondo), che si allenano a Ngong, nel Kenya meridionale al Tegla Loroupe Refugee Training Centre. Provengono dai campi profughi dell’Africa centrale e li segue Tegla Loroupe, tre volte campionessa del mondo della mezza maratona, che a settembre 2015 ha stretto un accordo con il Programma di Solidarietà Olimpica. Il terzo gruppo, invece, è composto da 26 atleti individuati dai Comitati olimpici dei Paesi in cui hanno ottenuto asilo e dove si allenano, grazie al Refugee Athlete Support Programme, creato dopo Rio 2016, che li supporta con una borsa di studio: di questo gruppo fanno parte anche i ragazzi che Niccolò Campriani sta allenando a Losanna nel tiro a segno.
Atlete e atleti che praticano sport diversi, dal taekwondo al badminton, passando per ciclismo e pugilato, le cui storie raccontano la globalità del dramma dei rifugiati. Per esempio la ciclista Masomah Ali Zada: viene dall’Afghanistan, ha coltivato la sua passione a Kabul, insieme alla sorella Zahra, tra difficoltà e pregiudizi. Una storia scovata dai media francesi e che colpisce la famiglia Communal la quale, dopo avere contattato le due sorelle su Facebooke averle conosciute in una gara in Francia, riesce a far loro ottenere i documenti per farle trasferire con la famiglia in Bretagna dove oggi le allena Thierry Communal. Una vicenda da romanzo che ha ispirato anche un libro: Le piccole regine di Kabul.Masomah sogna Tokyo, lo stesso obiettivo che, dalla Svizzera, insegue Habtom Amaniel, specialista dei 10mila metri, nato e cresciuto in Eritrea. Durante il servizio militare, essendogli negato il permesso di vedere i suoi parenti, viene imprigionato e fugge. Arriva in Libia dopo aver attraversato il deserto e si imbarca per l’Italia, riuscendo a raggiungere un centro d’accoglienza vicino a Ginevra. Lì, la svolta. Un’allenatrice mette a disposizione dei profughi un campo d’allenamento. Iniziano in quattordici, lui è l’unico che ha continuato. Non ha più rivisto l’Africa, come il berbero di nazionalità marocchina Otmane Nait Hammou, primo rifugiato ad aver partecipato a un Mondiale di cross, emigrato in Francia per studiare e poi, impossibilitato a tornare, in Svezia, o come Dorian Keletela, orfano e nipote di una oppositrice del regime della Repubblica del Congo, arrivato adolescente in Portogallo dove si è fatto notare come speranza dello sprint.
A volte però non è l’Europa il luogo dove coltivare il sogno olimpico. È il caso di Wael Fawaz Al-Farraj, classe 2002, scappato da Homs in Siria e rifugiatosi insieme alla famiglia nel campo profughi di Al Azraq in Giordania, lì dove la Taekwondo Humanitarian Foundation e la ong Care proponevano un programma dell’arte marziale coreana. Per Wael è amore a prima vista. Dopo pochi anni è già cintura nera e partecipa alle gare, con buoni risultati. E ora l’orizzonte è Tokyo. (Roberto Brambilla - Avvenire)