Tag: Immigrati e rifugiati
Ancora un naufragio alle Canarie: decine di vittime e di scomparsi
Madrid - Il gommone è stato localizzato alle tre di ieri mattina a circa 18 chilometri al largo del Faro de la Entallada, a Forteventura con il suo carico di disperazione e di morte. Trentun superstiti, 15 donne e 16 uomini, sono stati soccorsi e trasportati dalla Guardia costiera al molo del Porto del Rosario, nell’isola di Fuerteventura. Il corpo senza vita di un giovane è stato subito individuato in alto mare e portato via su un elicottero assieme a un’altra persona in crisi ipotermica, che però non ce l’ha fatta ed è morta prima di arrivare in ospedale. Provenienti dall’Africa subsahariana, i migranti si erano imbarcati sul precario gommone a Tan-Tan, al sud del Marocco, cercando di raggiungere l’arcipelago. E almeno una ventina di persone mancherebbe all’appello, secondo le testimonianze di alcuni dei sopravvissuti. «Assicurano che sull’imbarcazione viaggiavano sessanta persone», confermano fonti della prefettura. Altri hanno raccontato ai sanitari che le vittime durante la traversata, fra le quali ci sarebbero due bambini, sarebbero un numero inferiore. E che i loro cadaveri sono stati lanciati in mare dopo la morte. Caminando Fronteras, la Ong che vigila le chiamate di Sos dei migranti e dei familiari dei “desaparecidos” in mare, attribuisce la contraddizione sul numero di dispersi al fatto erano due gli Zodiac salpati dalla costa di Tan-Tan. «Abbiamo ricevuto due allerte per due gommoni, uno con 59 persone a bordo, l’altro con 42, partiti nello stesso giorno, venerdì, dallo stesso luogo», ha spiegato ad Avvenire la portavoce Siham Korriche. «Abbiamo verificato con i familiari che quella soccorsa a Forteventura è la seconda imbarcazione, c’erano 42 migranti a bordo. Mancano in dieci». Significa anche che altre 59 persone ancora vagano perdute nell’Atlantico. Quella di ieri è la seconda strage di migranti in 72 ore sulla letale rotta fra l’Africa occidentale e l’arcipelago, dopo la tragedia nel fine settimana in cui hanno perduto la vita 29 persone, delle quali 7 erano bambini, dopo 12 giorni di agonia alla deriva. La settimana scorsa, altri undici migranti sono stati dati per dispersi dopo il salvataggio di un altro barcone, che trasportava una quarantina di persone sulla stessa rotta della morte. Dietro le cifre e il rosario di morti ormai quotidiane, la tragedia umanitaria senza fine. Vite e storie di intere famiglie che sarebbero semplicemente cancellate, ingoiate dal mare, se non fosse per chi si impegna a lasciarne costanza. Come Caminando Fronteras, anche la Cruz Roja ha avviato un progetto pilota per aiutare i familiari dei “desaparecidos” nei viaggi dalle coste africane alle Canarie a localizzare i propri cari. «L’obiettivo è dare sostegno alle famiglie separate o i cui contatti si sono visti interrotti dal dramma umanitario», segnala Carlos Ocana, responsabile dell’iniziativa pilota. Con gli aiuti del governo spagnolo, il programma per gli scomparsi nei conflitti, sarà allargato ai migranti, i tanti ingoiati dall’Atlantico, ai quali è stato negato anche il diritto a una sepoltura. (Paola Del Vecchio - Avvenire)
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Giochi Paralimpici di Tokyo 2020, in prima mondiale anche una squadra di rifugiati
Roma - Parfait Hakizimana, lottatore di taekwondo burundese, Anas Al Khalifa, canoista siriano, Alia Issa, anche lei di origine siriana, specialista in una disciplina di lancio e prima “para-atleta” donna rifugiata di sempre, Ibrahim Al Hussein, nuotatore siriano, Shahrad Nasajpour, lanciatore del disco iraniano, e infine Abbas Karimi, afghano, un secondo nuotatore. Sono i sei atleti della Squadra paralimpica di rifugiati che partecipa ai Giochi Paralimpici di Tokyo 2020.
Se alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 aveva già partecipato un team di rifugiati, è la prima volta che ne gareggia uno anche ai Giochi Paralimpici. Alle Paralimpiadi di Rio, infatti, grazie alla collaborazione fra International Paralympic Committee e UNHCR avevano potuto partecipare solo due rifugiati sotto la bandiera della Squadra indipendente.
Ancora una volta nel raccontare le storie, il coraggio dei sei atleti dei Paralympic Games e il significato della loro rappresentanza è facile scivolare sulle bucce della retorica, dei luoghi comuni, del rischio di chetare per una manciata di giorni, con lo spettacolo e la condivisione di un rito globale, la cattiva coscienza di grandi istituzioni e di una “comunità internazionale” che includono ai massimi livelli pochi singoli ma intanto sono incapaci di fermare i meccanismi e le violenze che in giro per il mondo producono sempre più sradicati e persone in fuga. Però, nonostante tutto, è ancora possibile ricordare qualche briciola di verità, magari facendo la tara del… “di troppo”. La presenza di questi sei giovani atleti «sulla scena mondiale segna un momento storico per oltre 12 milioni di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo che vivono con disabilità in tutto il mondo – ha detto Filippo Grandi, l’alto commissario ONU per i rifugiati -. Le persone costrette allo sradicamento forzato e che convivono con una disabilità possono essere maggiormente a rischio di discriminazione, violenza e sfruttamento. Ma nonostante queste sfide, i rifugiati con disabilità sono agenti di cambiamento positivo, anche nel campo del “parasport”».
Per l’UNCHR lo sport aiuta a combattere lo stigma e la discriminazione anche in questo campo, sfidando «i pregiudizi su ciò che le persone con disabilità costrette alla fuga possono e non possono fare, e offrendo opportunità di inclusione e responsabilizzazione». (Giovanni Godio – www.viedifuga.org)
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Protezione temporanea per due anni: la direttiva Ue che apre all’accoglienza
Il dramma dell’Afghanistan, con migliaia di persone in fuga verso il Vecchio continente, tiene banco a tutti i livelli e mentre l’Italia, con l’Operazione Aquila 1, ha già portato nel nostro Paese 1.990 persone (tra cui 547 donne e 667 bambini) le capitali europee fanno i conti da Ferragosto con il mutato scenario geopolitco legato all’esodo di massa da Kabul. Esistono precedenti? C’è chi evoca la crisi del Kosovo negli anni Novanta, chi lo spostamento di 10mila cittadini provenienti dalla Tunisia dopo le primavere arabe, chi l’esodo dei cittadini siriani accolti in Germania nel 2015. Oggi se ne parlerà anche al Tavolo asilo che in Italia riunirà diverse associazioni impegnate nei piani di accoglienza.
La proposta è stata lanciata dall’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e riguarda un testo che non è mai stato applicato. La Direttiva 2001/55 permette infatti un’azione controllata dell’Ue in caso di afflusso massiccio di gruppi di persone che siano in fuga da un pericolo grave nel proprio Paese. Per Emilio De Capitani, ex segretario della Commissione parlamentare Libertà pubbliche del Parlamento europeo tra il 1998 e il 2011, profondo conoscitore dei meccanismi comunitari, «siamo di fronte a uno strumento flessibile, che consentirebbe alle autorità continentali di fare un salto di qualità. Non più solo misure di contrasto, come succede oggi con Frontex, ma finalmente azioni che interpretino la solidarietà concreta verso le persone». In questo senso, la Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo non è sufficiente, perché è pensata per rispondere ai bisogni di protezione delle singole persone senza che però si riescano a risolvere i nodi legati ai movimenti di massa. L’obiettivo deve dunque essere quello di 'aiutare' i cittadini afghani in fuga, come stabilisce l’articolo 2d, a uscire dal proprio Paese assicurando loro il diritto a una protezione temporanea fino a due anni. La Corte di Giustizia nel 2017 ha peraltro già dichiarato che le misure temporanee come questa «possono sospendere o modificare anche la legislazione Ue vigente»: si creerebbe dunque lo spazio per sospendere o emendare provvisoriamente «la legislazione europea, come lo stesso regolamento di Dublino». Nessun vincolo d’accoglienza, ad esempio, sui Paesi di primo approdo come accade adesso per i normali flussi migratori dal Mediterraneo, ma una condivisione complessiva dei carichi d’ospitalità tra i vari Stati. Lo stesso varrebbe per il rilascio di visti umanitari, che potrebbe avvenire anche nei consolati dei Paesi vicini all’Afghanistan evitando così viaggi pericolosi per i profughi. Il punto resta quello di un’azione politica efficace: se è vero ad esempio che i ministri degli Interni dei Ventisette non vogliono un’azione coordinata, è anche vero che da tempo si discute sul rafforzamento di organismi come l’Easo, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, che potrebbe essere chiamato a un ruolo-chiave adesso nell’attuazione delle misure di protezione per i cittadini afghani. Nel frattempo, e ciò riguarderà in particolare l’Italia, occorrerà capire come ridefinire il sistema d’accoglienza Sai già presente nei territori alla luce dei nuovi arrivi, partendo dal fatto che molti sindaci a nome delle loro comunità hanno già dato una disponibilità. Quel che è certo, in ogni caso, è che per attivare queste misure di emergenza, a partire dalla Direttiva del 2001, occorrerà a livello europeo un’iniziativa degli Stati membri 'volonterosi' nei confronti della Commissione. Un percorso a tappe, insomma, che grazie alla mobilitazione della società civile in questi giorni di fatto è già partito. (Diego Motta – Avvenire)