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Papa Francesco: “la migrazione è un diritto doppio: diritto a non migrare, diritto a migrare”

8 Marzo 2021 -

Città del Vaticano - «La migrazione è un diritto doppio: diritto a non migrare, diritto a migrare». Papa Francesco è atterrato da poche ore a Ciampino dopo una tre giorni in una delle terre più martoriate: l’Iraq. Durante il volo di ritorno, parlando con i giornalisti che lo hanno accompagnato ha detto che la gente irachena «non ha nessuno dei due, perché’ non possono non migrare, non sanno come farlo. E non possono migrare perché’ il mondo ancora non ha preso coscienza che la migrazione è un diritto umano». La volta scorsa – ha continuato il pontefice – un sociologo italiano, parlando dell’inverno demografico in Italia «mi diceva che entro quarant’anni dovremo ’importare’ stranieri perché’ lavorino e paghino le tasse delle nostre pensioni. In Francia sono stati più furbi, sono andati avanti di dieci anni con la legge a sostegno della famiglia, il loro livello di crescita è molto grande». «Ma la migrazione la si vive come un’invasione», ha aggiunto: “«Ieri ho voluto ricevere dopo la messa, perché lui lo ha chiesto, il papà di Alan Kurdi, questo bambino, che è un simbolo: per questo io ho regalato la scultura alla Fao. È un simbolo che va oltre un bambino morto nella migrazione, un simbolo di civiltà che muoiono, che non possono sopravvivere, un simbolo di umanità. Servono urgenti misure perché la gente abbia lavoro nei propri Paesi e non debba migrare. E poi misure per custodire il diritto di migrazione. È vero che ogni Paese deve studiare bene la capacità di ricevere, perché non è soltanto la capacità di ricevere e lasciarli sulla spiaggia. È riceverli, accompagnarli, farli progredire e integrarli. L’integrazione dei migranti è la chiave». Il papa ha quindi ringraziato «i Paesi generosi che ricevono i migranti: il Libano che ha, credo, due milioni di siriani; la Giordania è generosissima: più di un milione e mezzo di migranti. Grazie a questi Paesi generosi! Grazie tante!”. (Raffaele Iaria)

Un cambiamento dei cuori

8 Marzo 2021 - Città del Vaticano - Erbil, Mosul, Ninive. Nomi che non facciamo fatica a ricordare per la tragedia hanno vissuto solo pochi anni fa, per le ferite che i terroristi dell’Isis hanno inferto a chiese e moschee, per le uccisioni e le violenze sulla popolazione. A Erbil il grande campo profughi ha accolto i rifugiati siriani e oltre 540 mila sfollati iracheni in fuga da Qaraqosh e Mosul occupate. Quest’ultima nei secoli è stata una straordinaria mescolanza di etnie e religioni, fino a quando non è diventata, per tre anni, la capitale del sedicente Stato islamico; da qui sono fuggite almeno 500 mila persone, di cui 120 mila cristiani. Papa Francesco è nella piazza delle Quattro chiese – siro-cattolica, siriaco-ortodossa, armena-ortodossa, e caldea – per la preghiera per le vittime della guerra: «Ti affidiamo coloro, la cui vita terrena è stata accorciata dalla mano violenta dei loro fratelli, e ti imploriamo anche per quanti hanno fatto del male ai loro fratelli e alle loro sorelle: si ravvedano, toccati dalla potenza della tua misericordia». Bacia una croce costruita con pezzi della chiesa di Karamles bruciata dall’Isis, e libera una colomba in segno di pace, nel luogo dove l’Isis aveva minacciato di invadere Roma e mettere la sua bandiera sulla cupola di San Pietro. «Se Dio è il Dio della vita - e lo è - a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace - e lo è - a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore - e lo è - a noi non è lecito odiare i fratelli». Il potere dei segni, come l’abbraccio, virtuale, del Papa a Abdullah Kurdi, il padre del piccolo Alan, l’immagine del piccolo corpo sulla spiaggia turca ha fatto il giro del mondo, morto con la madre e il fratello mentre tentava di raggiungere l’Europa. Ancora una volta Francesco chiede un cambio di mentalità, prega perché tornino i cristiani nelle loro città: «vi incoraggio a non dimenticare chi siete e da dove venite» dice a Qaraqosh, dove l’aiuto della Chiesa e della comunità internazionale nella ricostruzione ha permesso il rientro di poco più del 40 per cento di quanti vi abitavano nell’agosto del 2014. Chiede di «custodire i legami che vi tengono insieme, custodire le vostre radici». È davanti la chiesa dell’Immacolata concezione, profanata dagli uomini dell’Isis che hanno bruciato mobili, registri e libri sacri, e hanno utilizzato il coro come poligono di tiro: «il terrorismo e la morte non hanno mai l’ultima parola. L’ultima parola appartiene a Dio e a suo figlio, vincitore del peccato e della morte». In questa terza domenica di Quaresima il libro dell’Esodo, la prima lettura, ci ricorda che Dio, al popolo ebraico che attraversa il mar Rosso, dona dieci parole, tre riguardano la relazione con Dio e sette il rapporto con i nostri fratelli. Come dire, si deve vivere bene con Dio, ma per questo è necessario vivere bene con il nostro prossimo. Perdono e conversione sono le due parole proprie del tempo liturgico che stiamo vivendo. I santi sono il punto di riferimento, afferma il Papa che ricorda: «per diventare beati non bisogna essere eroi ogni tanto, ma testimoni ogni giorno». È il Vangelo delle Beatitudini che cambia davvero il mondo, non il potere o la forza. Per questo dice: «non smettere di sognare, non arrendetevi, non perdete la speranza». Il perdono è la parola chiave, necessario, dice, «da parte di coloro che sono sopravvissuti agli attacchi terroristici»; necessario «per rimanere nell’amore, per essere cristiani». Conversione, dunque, perché «serve la capacità di perdonare e nello stesso tempo il coraggio di lottare» per portare «pace in questa terra». Quando Gesù caccia i mercanti dal tempio, è il Vangelo di questa domenica, pone in primo piano la necessità di un cambiamento radicale anche nei nostri cuori, vero tempio di Dio. In questo tempo che ci accompagna alla Pasqua, Gesù entra nei nostri cuori e manda all’aria le bancarelle delle nostre piccolezze e meschinità. Per questo, concludendo la sua giornata nella piana di Ninive, luogo di sofferenze, di ferite di privazioni, Francesco prega «per la conversione dei cuori, per il trionfo di una cultura della vita, della riconciliazione e dell’amore fraterno, nel rispetto delle differenze, delle diverse tradizioni religiose, nello sforzo di costruire un futuro di unità e collaborazione tra tutte le persone di buona volontà». (Fabio Zavattaro - Sir)    

Papa Francesco agli iracheni: “in questi tempi duri di pandemia, aiutiamoci a rafforzare la fraternità”

4 Marzo 2021 - Città del Vaticano - «Cari fratelli e sorelle, ho tanto pensato a voi in questi anni, a voi che molto avete sofferto, ma non vi siete abbattuti». Così Papa Francesco nel videomessaggio inviato agli iracheni alla vigilia del suo viaggio apostolico nel Paese, che si svolgerà da domani a lunedì, 8 marzo. «A voi, cristiani, musulmani; a voi, popoli, come il popolo yazida, gli yazidi, che hanno sofferto tanto, tanto; tutti fratelli, tutti» ha detto: «ora vengo nella vostra terra benedetta e ferita come pellegrino di speranza. Da voi, a Ninive, risuonò la profezia di Giona, che impedì la distruzione e portò una speranza nuova, la speranza di Dio. Lasciamoci contagiare da questa speranza, che incoraggia a ricostruire e a ricominciare». «E in questi tempi duri di pandemia aiutiamoci a rafforzare la fraternità, per edificare insieme un futuro di pace», ha sottolineato: «Insieme, fratelli e sorelle di ogni tradizione religiosa. Da voi, millenni fa, Abramo incominciò il suo cammino. Oggi sta a noi continuarlo, con lo stesso spirito, percorrendo insieme le vie della pace! Per questo su tutti voi invoco la pace e la benedizione dell’Altissimo. E a tutti voi chiedo di fare lo stesso di Abramo: camminare nella speranza e mai lasciare di guardare le stelle. E a tutti chiedo per favore di accompagnarmi con la preghiera. Shukran!».  

Combattere contro il male

22 Febbraio 2021 - Città del Vaticano - Prima domenica di Quaresima. Quaranta giorni, il tempo dell’attesa, della purificazione. Cifra simbolica: quaranta sono i giorni, e le notti, che Noè trascorre nell’arca durante il diluvio; quaranta i giorni che Mosè passa sul monte Sinai, per accogliere la legge e in questo tempo digiuna. Quaranta gli anni che il popolo di Israele impiega per raggiungere dall’Egitto la terra promessa: «un lungo periodo di formazione per diventare popolo di Dio» diceva Papa Benedetto XVI nella Quaresima del 2012. Il profeta Elia impiega quaranta giorni per raggiungere il monte Oreb dove incontra Dio. Quaranta sono i giorni che Gesù trascorre nel deserto, il luogo del silenzio, e delle tentazioni. Il luogo dove Dio «parla al cuore dell’uomo», dove «sgorga la risposta della preghiera, cioè il deserto della solitudine, il cuore staccato da altre cose e solo in quella solitudine si apre alla Parola di Dio» afferma papa Francesco all’Angelus di ieri. Mercoledì le ceneri sul nostro capo, inizio della Quaresima, atto che ci ricorda come tutta la nostra esistenza è simile alla cenere, polvere che consuma sicurezze, orgoglio. Polvere come la sabbia del deserto. È nel deserto che Gesù «rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano», come leggiamo in Marco. Il deserto rappresenta la nostra vita, in un certo senso, con le sue difficoltà e le sue debolezze, con la nostra volontà di ascoltare e la nostra incapacità di resistere alle tentazioni. Il deserto è il luogo del silenzio, della povertà; il luogo dove l’uomo è solo, privato di tutto e bisognoso di tutto.  «Ma è anche il luogo della prova e della tentazione – dice Francesco – dove il tentatore, approfittando della fragilità e dei bisogni umani, insinua la sua voce menzognera, alternativa a quella di Dio, una voce alternativa che ti fa vedere un’altra strada, un’altra strada di inganno. Il tentatore seduce». È nel deserto che inizia il “duello” tra Gesù e il maligno che si concluderà con la Passione e la croce, dice il Papa: «tutto il ministero di Cristo è una lotta contro il Maligno nelle sue molteplici manifestazioni: guarigioni dalle malattie, esorcismi sugli indemoniati, perdono dei peccati. È una lotta». Luogo di morte il deserto, non c’è acqua, non si può coltivare nulla, non c’è vita, e forse viene meno anche la speranza. Eppure, è il luogo dove proprio l’essere privati di tutto porta ad affidarsi totalmente al Signore, diventando così il luogo del dialogo con Dio, come ci ricorda la liturgia. Ricorda il Papa: «nelle tentazioni Gesù mai dialoga con il diavolo. Nella sua vita Gesù mai ha fatto un dialogo con il diavolo. O lo scaccia via dagli indemoniati o lo condanna o fa vedere la sua malizia ma mai un dialogo». Anche nel deserto non c’è dialogo tra Gesù e il diavolo: questi fa tre proposte e Gesù «non risponde con le sue parole. Risponde con la Parola di Dio, con tre passi della Scrittura». Mai dialogare con il tentatore, ribadisce Francesco, altrimenti saremo sconfitti: «non c’è dialogo possibile» con il tentatore. Così la morte sul Calvario non è la vittoria del diavolo, ma «l’ultimo deserto da attraversare per sconfiggere definitivamente Satana e liberare tutti noi dal suo potere. E così Gesù ha vinto nel deserto della morte per vincere nella Risurrezione», afferma il Papa che dice: «il nemico è lì accovacciato». Il deserto non è solo territorio presente in alcuni luoghi del mondo, è anche nella nostra vita quotidiana. Non luogo fisico, dunque, «ma dimensione esistenziale in cui fare silenzio, metterci in ascolto della parola di Dio, perché si compia in noi la vera conversione». Ci sono giornate in cui non siamo capaci di avvicinare l’altro, di tendere la mano a chi chiede il nostro aiuto. Ma è proprio in questo deserto che facciamo la prova dell’ascolto della parola di Dio, quando ci troviamo a rispondere alla domanda di fondo: che cosa conta davvero nella mia vita? «Gesù nel deserto ci ricorda che la vita del cristiano, sulle orme del Signore, è un combattimento contro lo spirito del male». Gesù ha vinto il male. «Dobbiamo essere consapevoli della presenza di questo nemico astuto», afferma il Papa, e dobbiamo «prepararci a difenderci da lui e a combatterlo”. La Pasqua «è la vittoria definitiva di Gesù contro il Maligno, contro il peccato e contro la morte». (Fabio Zavattaro - Sir)    

La compassione di Dio

15 Febbraio 2021 - Città del Vaticano - Dopo l’indemoniato nella Sinagoga di Cafarnao, dopo la suocera di Simone, Marco, nel suo Vangelo, ci descrive una nuova guarigione, e ci mostra il clima nuovo che nasceva al suo passaggio: “venne a Gesù un lebbroso”. Davvero strano che un lebbroso osasse avvicinarsi a Gesù, superando un abissale distanza garantita dalla legge: il libro del Levitico lo dichiarava impuro, ne descriveva gli abiti che doveva indossare e lo obbligava a dichiararsi impuro; solo un sacerdote poteva liberarlo da questa condizione. Ma per Gesù niente è così grave e terribile da allontanare qualcuno definitivamente da Dio. E la richiesta del lebbroso – “se vuoi, puoi purificarmi” – è più di una semplice guarigione corporale; egli vuole essere reintegrato nella vita sociale e religiosa. Bisogna anche ricordare che il termine lebbra – il morbo di Hansen fu scoperto solo nel 1871 – nella Bibbia aveva un’accezione più ampia, indicando tutta una serie di mali della pelle, marchio visibile di una colpa commessa, dunque castigo di Dio a seguito di un peccato commesso. Ma da chi poteva andare questo malato se non da Gesù, che mangia con i pubblicani, con i peccatori; che non ha paura del contagio, perché niente per lui è impuro, e lo vince con la vicinanza, con il suo stendere la mano per far alzare il malato. La lebbra, per l’antica legge ebraica, era considerata non solo malattia ma la più grave forma di impurità. Nella lebbra, ricordava Benedetto nel 2009, si può intravvedere un simbolo del peccato “che è la vera impurità del cuore, capace di allontanarci da Dio”. Non è la malattia fisica della lebbra “a separarci da lui, ma la colpa, il male spirituale e morale”. Gesù, dunque, si lascia avvicinare, si commuove e “stese la mano e lo toccò”: impensabile gesto. Ma così, dice il Papa all’Angelus “realizza la Buona Notizia che annuncia: Dio si è fatto vicino alla nostra vita, ha compassione per le sorti dell’umanità ferita e viene ad abbattere ogni barriera che ci impedisce di vivere la relazione con lui, con gli altri e con noi stessi”. Gesù si è avvicinato al lebbroso, ha avuto compassione e tenerezza. Vicinanza, compassione e tenerezza, sono le tre parole che per il Papa “indicano lo stile di Dio”. Nel racconto di Marco leggiamo inoltre due trasgressioni, afferma il vescovo di Roma. La prima è quella del lebbroso: “nonostante le prescrizioni della Legge, egli esce dall’isolamento e viene da Gesù” e in lui “può vedere un altro volto di Dio: non il Dio che castiga, ma il Padre della compassione e dell’amore, che ci libera dal peccato e mai ci esclude dalla sua misericordia”. Qui Francesco ha un pensiero per i tanti confessori “che non sono con la frusta in mano, ma soltanto per ricevere, ascoltare, e dire che Dio è buono e che Dio perdona sempre, che Dio non si stanca di perdonare”. Il secondo trasgressore, per il Papa, è Gesù stesso che non rispetta la legge: “è vero, è un trasgressore. Non si limita alle parole, ma lo tocca. E toccare con amore significa stabilire una relazione, entrare in comunione, coinvolgersi nella vita dell’altro fino a condividerne anche le ferite”. Gesù mostra che Dio “non è indifferente”, non si tiene a “distanza di sicurezza”; ha compassione “si avvicina e tocca la nostra vita per risanarla con tenerezza”. Anche oggi ci sono persone che soffrono per questa malattia o per condizioni “cui è associato un pregiudizio sociale”, dice il Papa all’Angelus, nel quale fa gli auguri ai fidanzati per San Valentino e dice: “che bella la piazza con il sole”. Anche a noi “può capitare di sperimentare ferite, fallimenti, sofferenze, egoismi che ci chiudono a Dio e agli altri. Perché il peccato ci chiude in noi stessi. Dinanzi a tutto questo, Gesù ci annuncia che Dio non è un’idea o una dottrina astratta, ma Colui che si ‘contamina’ con la nostra umanità ferita e non ha paura di venire a contatto con le nostre piaghe”. Per rispettare “le regole della buona reputazione e delle consuetudini sociali”, noi, invece, spesso “mettiamo a tacere il dolore o indossiamo delle maschere che lo camuffano”, per i nostri egoismi o le nostre paure, e “non ci coinvolgiamo troppo nelle sofferenze degli altri”. Francesco ci chiede di vivere le trasgressioni del lebbroso e di Gesù, il cui amore “fa andare oltre le convenzioni, fa superare i pregiudizi e la paura di mescolarci con la vita dell’altro”. (Fabio Zavattaro)  

Papa Francesco: “pregare per sostenere le vittime della tratta e le persone che accompagnano i processi di integrazione e di reinserimento sociale”

8 Febbraio 2021 - Città del Vaticano – La giornata di oggi, nella memoria di Santa Bakhita che «ha vissuto il dramma della tratta nella propria vita» è «importante, perché ci aiuta tutti a ricordare questo dramma, e ci incoraggia a non smettere di pregare e di lottare insieme». Lo ha detto Papa Francesco in un messaggio video ai partecipanti alla maratona di preghiera on line in occasione della Giornata Mondiale contro la Tratta sul tema “Economia senza tratta”. Possano la riflessione e la presa di coscienza essere «sempre accompagnate da gesti concreti, che aprono anche strade di emancipazione sociale» ha detto il pontefice aggiungendo che c’è «bisogno di pregare per sostenere le vittime della tratta e le persone che accompagnano i processi di integrazione e di reinserimento sociale». E citando il tema della giornata ha detto che una economia senza tratta è “un’economia di cura”, una «economia con regole di mercato che promuovono la giustizia» e una «economia coraggiosa». «La pandemia del Covid – ha detto il Papa - ha esacerbato e aggravato le condizioni di sfruttamento lavorativo; la perdita di posti di lavoro ha penalizzato tante persone vittime della tratta in processo di riabilitazione e reinserimento sociale». La tratta di persone «trova terreno fertile nell’impostazione del capitalismo neoliberista, nella deregolamentazione dei mercati che mira a massimizzare i profitti senza limiti etici, senza limiti sociali, senza limiti ambientali»: “«se si segue questa logica, esiste solamente il calcolo di vantaggi e svantaggi». La memoria liturgica di Santa Bakhita – ha concluso il papa - è «un richiamo forte a questa dimensione della fede e della preghiera: la sua testimonianza risuona sempre viva e attuale! Ed è un richiamo a mettere al centro le persone trafficate, le loro famiglie, le loro comunità. Sono loro il centro del nostro pregare. Santa Bakhita ci ricorda che esse sono le protagoniste di questa giornata, e che tutti noi siamo al servizio». (Raffaele Iaria)  

Papa Francesco: appello in favore dei minori migranti non accompagnati

8 Febbraio 2021 - Città del Vaticano - Desidero rivolgere un appello in favore dei minori migranti non accompagnati. Sono tanti! Purtroppo, tra coloro che per vari motivi sono costretti a lasciare la propria patria, ci sono sempre decine di bambini e ragazzi soli, senza la famiglia ed esposti a molti pericoli. In questi giorni, mi è stata segnalata la drammatica situazione di quelli che si trovano sulla cosiddetta “rotta balcanica”. Ma ce ne sono in tutte le “rotte”. Facciamo in modo che a queste creature fragili e indifese non manchino la doverosa cura e canali umanitari preferenziali.  

Papa Francesco: lavorare per “un’economia che non favorisca traffici ignobili”

8 Febbraio 2021 - Città del Vaticano - Oggi, memoria liturgica di Santa Giuseppina Bakhita, religiosa sudanese che conobbe le umiliazioni e le sofferenze della schiavitù, si celebra la Giornata di preghiera e riflessione contro la tratta di persone. Quest’anno - ha detto ieri papa Francesco dopo la preghiera mariana dell'Angelus - l’obiettivo è «lavorare per un’economia che non favorisca, nemmeno indirettamente, questi traffici ignobili, cioè un’economia che non faccia mai dell’uomo e della donna una merce, un oggetto, ma sempre il fine. Il servizio all’uomo, alla donna, ma non usarli come merce». «Chiediamo a Santa Giuseppina Bakhita che ci aiuti in questo", ha pregato il Papa.  

Gesù ci guarisce

8 Febbraio 2021 - Città del Vaticano - La gente in fila non sapeva bene cosa ci fosse dietro la porta della casa di Simone e Andrea, ma certo aveva riposto in quel luogo la speranza, tanto da portare malati e indemoniati. Perché? Di fronte alle sofferenze che sfigurano il volto delle persone, al dolore cui non sappiamo dare una risposta, alla malattia che ci vede impotenti, siamo assaliti da interrogativi, rifiutiamo ogni sorta di giustificazione, e alla fine chiediamo a Dio: perché? Giobbe, è la prima lettura, chiede a Dio di ricordarsi che ha una responsabilità di fronte all’uomo e alla sua sofferenza: «i miei giorni svaniscono senza un filo di speranza». È un soffio la vita, così di fronte alle avversità ecco il grido di ribellione: perché. Papa Francesco torna ad affacciarsi per l’Angelus – «un’altra volta in piazza» – e commenta il brano di Marco, la guarigione della suocera di Pietro. Se è vero che la vita degli uomini è dura, e lo vediamo soprattutto in questi tempi difficili, la pandemia, dove i più colpiti sono tanti, soprattutto i più poveri, è altrettanto vero, come mostra la giornata di Cafarnao di Gesù, che dal Vangelo troviamo la forza, l’energia per andare avanti. Gesù guarisce le persone malate, ferite. «La voce di Giobbe, che risuona nella Liturgia odierna, ancora una volta – dice il Papa – si fa interprete della nostra condizione umana, così alta nella dignità e nello stesso tempo così fragile. Di fronte a questa realtà, sempre sorge nel cuore la domanda: perché?”. È la prima guarigione raccontata da Marco, ma vediamo il modo con cui viene raccontata dall’evangelista. Gesù non parla, non risponde a domande o suppliche che sicuramente gli avranno fatto nella casa di Cafarnao, neppure una preghiera, ma compie un semplice gesto. La donna è febbricitante a letto: «si avvicinò, la fece alzare prendendola per mano”, leggiamo in Marco. Dice Francesco: “c’è tanta dolcezza in questo semplice atto, che sembra quasi naturale: la febbre la lasciò ed ella li serviva. Il potere risanante di Gesù non incontra alcuna resistenza; e la persona guarita riprende la sua vita normale, pensando subito agli altri e non a sé stessa – e questo è significativo, è segno di vera salute». Gesù agisce, non risponde con le parole, ma con i fatti, “con una presenza d’amore”, si china e prende la mano, dice il Papa. «Chinarsi per far rialzare l’altro. Non dimentichiamo che l’unico modo lecito di guardare una persona dall’alto in basso è quando tu tendi la mano per aiutarla a sollevarsi. Questa è la missione che Gesù ha affidato alla Chiesa. Il Figlio di Dio manifesta la sua Signoria non ‘dall’alto in basso’, non a distanza, ma chinandosi, tendendo la mano; manifesta la sua Signoria nella vicinanza, nella tenerezza e nella compassione. Vicinanza, tenerezza, compassione sono lo stile di Dio». Il Vangelo ci dice anche che non solo la suocera di Pietro, ma anche altre persone, in attesa davanti la porta, sono state guarite in quella prima giornata a Cafarnao. Viene spontaneo pensare alle tantissime persone colpite dalla guerra, dalla fame, dall’indifferenza, che vagano cercando una porta cui bussare, e che molto spesso resta chiusa. Ricorda il Papa la tragedia di tanti minori migranti «esposti a molti pericoli» lungo la cosiddetta rotta balcanica, o le altre rotte: «facciamo in modo che a queste creature fragili e indifese non manchino la doverosa cura e canali umanitari preferenziali». Ricorda ancora la drammatica situazione del Myanmar, e parla di “inverno demografico” invitando a non chiudere le porte di fronte alla vita, per una «nuova primavera di bambini e bambine». Ma torniamo a quella sera a Cafarnao. La gente in fila non sapeva bene cosa ci fosse dietro la porta della casa di Simone e Andrea, ma certo aveva riposto in quel luogo la speranza, tanto da portare malati e indemoniati. Gesù guarisce mostrando così «la sua predilezione per le persone sofferenti nel corpo e nello spirito». I discepoli sono stati testimoni oculari, hanno visto  «e poi lo hanno testimoniato». Non spettatori perché Gesù  «li ha coinvolti, li ha inviati, ha dato anche a loro il potere di guarire i malati e scacciare i demoni». Prendersi cura dei malati per la Chiesa non è una “attività opzionale. Non è qualcosa di accessorio. Prendersi cura dei malati di ogni genere fa parte integrante della missione della Chiesa, come lo era di quella di Gesù. E questa missione è portare la tenerezza di Dio all’umanità sofferente». (Fabi Zavattaro) ​    

Giornata Internazionale della Fratellanza Umana: Papa Francesco partecipa alla prima celebrazione

1 Febbraio 2021 - Città del Vaticano – Papa Francesco celebrerà la Giornata Internazionale della Fratellanza Umana giovedì 4 febbraio in un evento virtuale organizzato dallo Sceicco Mohammed Bin Zayed ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, con la partecipazione del Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb; il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres e altre personalità. Nella medesima occasione, fa sapere oggi il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, verrà assegnato il Premio Zayed per la Fratellanza Umana che si ispira al Documento sulla Fratellanza Umana. L’incontro e la cerimonia di premiazione verranno trasmessi in streaming in diverse lingue dalle ore 14.30 da Vatican News, il portale di informazione multimediale della Santa Sede, e diffusi da Vatican Media. «Questa celebrazione risponde al chiaro invito rivolto da Papa Francesco a tutta l’umanità a costruire un presente di pace nell’incontro con l’altro», ha sottolineato il card. Miguel Ángel Ayuso Guixot, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. «Nell’ottobre 2020, tale invito divenne ancora più ineludibile con l'Enciclica Fratelli tutti. Questi incontri sono un modo per realizzare un’amicizia sociale autentica, come ci ha chiesto il Santo Padre», ha aggiunto. La data non è una coincidenza. Il 4 febbraio 2019, nel corso del Viaggio Apostolico del Pontefice negli Emirati Arabi Uniti, il Papa e il Grande Imam di Al-Azhar (Il Cairo), Ahmad Al-Tayyeb, firmarono il Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune. Il Papa e il Grande Imam hanno dedicato quasi un anno e mezzo alla stesura di questo Documento finché non ne hanno dato annuncio insieme durante una visita di così storica portata. Pochi mesi dopo è stato istituito l’Alto Comitato per la Fratellanza Umana per tradurre le aspirazioni del Documento sulla Fratellanza Umana in impegni e azioni concrete, per promuovere la fraternità, la solidarietà, il rispetto e la comprensione reciproca, sottolinea la nota. L’Alto Comitato ha in programma di istituire una Casa Famiglia Abramitica, con una sinagoga, una chiesa e una moschea, sull’Isola Saadiyat ad Abu Dhabi. Ha costituito una giuria indipendente che riceve candidature al Premio Zayed per la Fratellanza Umana, selezionando i vincitori il cui lavoro si è distinto per l’impegno permanente a favore della fraternità umana. Papa Francesco ha esortato la Santa Sede a partecipare alla celebrazione della Giornata Internazionale della Fratellanza Umana sotto la guida del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Nell’edizione di gennaio del Video del Papa “Al servizio della Fraternità Umana”, il Papa ribadisce l’importanza di concentrarsi su ciò che è essenziale alla fede di tutte le fedi: adorare Dio ed amare il prossimo.  «La fratellanza ci induce ad aprirci al Padre di tutti e a vedere nell'altro un fratello, una sorella, a condividere la vita, a sostenerci reciprocamente, ad amare, a conoscere», sottolinea nel video Papa Francesco.    

Il momento di Dio

25 Gennaio 2021 - Città del Vaticano - Al centro del Vangelo di questa domenica – siamo tornati a quello di Marco che, attorno all’anno 70, ha raccolto la testimonianza di Pietro – c’è il racconto della chiamata dei primi discepoli, l’inizio della vita pubblica di Gesù e la sua prima predicazione: “il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino”. Sullo sfondo, la prima lettura, la chiamata di Giona, o meglio la seconda chiamata visto che la prima volta il profeta fugge e va dalla parte opposta a Ninive, dove Dio vorrebbe inviarlo. Non per paura o per la difficoltà della prova, ma perché non può comprendere che la conversione è il frutto della misericordia di Dio. Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni rispondono subito alla chiamata del Signore; ai primi due “Gesù disse loro: venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini. E subito lasciarono le reti e lo seguirono”. Così i due fratelli, incontrati poco dopo, che “lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui”. Giovanni Battista è stato arrestato e ucciso da Erode, e il Signore sente che è giunto il suo tempo, anzi “il tempo è compiuto”. La vita pubblica di Gesù inizia non a Gerusalemme, ma, possiamo dire con papa Francesco, nelle periferie dell’esistenza: la Galilea è terra lontana dalla capitale. È qui che incontra i suoi primi discepoli, gente semplice, poveri pescatori. È da questa periferia che sceglie di iniziare la sua missione: luogo marginale, escluso, abitato da poveri, da pagani e rivoluzionari. Ma è proprio da questo luogo, dove non ha difficoltà ad incontrare i samaritani giudicati eretici, scismatici, separati dai giudei, che dice: sono finiti i giorni dell’odio, della contrapposizione, della divisione. Papa Francesco, all’Angelus, ci invita a riflettere su due temi: il tempo e la conversione. Si tratta di “cambiare mentalità e cambiare vita: non seguire più i modelli del mondo, ma quello di Dio, che è Gesù”. La conversione, ricorda il Papa, “è un cambiamento decisivo di visione e di atteggiamento. Infatti, il peccato ha portato nel mondo una mentalità della mondanità, che tende all’affermazione di sé stessi, definendosi contro gli altri e anche contro Dio, e per questo scopo non esita a usare l’inganno e la violenza”. Queste portano alla “cupidigia”, alla “voglia di potere e non di servizio, guerre, sfruttamento della gente”. A ciò si oppone Gesù “che invita a riconoscersi bisognosi di Dio e della sua grazia; ad avere un atteggiamento equilibrato nei confronti dei beni terreni; a essere accoglienti e umili verso tutti; a conoscere e realizzare se stessi nell’incontro e nel servizio agli altri”. Poi il tempo, “quello in cui l’azione salvifica è giunta al suo culmine, alla sua piena attuazione: è il momento storico in cui Dio ha mandato il Figlio nel mondo”, ricorda Francesco. “Per ciascuno di noi – ha aggiunto – il tempo in cui poter accogliere la redenzione è breve: è la durata della nostra vita in questo mondo”. Ma la vita è breve, “vola via la vita”. È dono dell’infinito amore di Dio, “ma è anche tempo di verifica del nostro amore verso di lui. Perciò ogni momento, ogni istante della nostra esistenza è un tempo prezioso per amare Dio e il prossimo, e così entrare nella vita eterna”. Il tempo lo misuriamo in ore, giorni, anni; ma c’è anche un altro modo, dice il Papa, composto dalle stagioni del nostro sviluppo: nascita, infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia, morte. “Ogni tempo, ogni fase ha un valore proprio, e può essere momento privilegiato di incontro con il Signore. La fede ci aiuta a scoprire il significato spirituale di questi tempi: ognuno di essi contiene una particolare chiamata del Signore”. Il riacutizzarsi della sciatalgia non ha permesso al Papa di essere in San Pietro e nella basilica di San Paolo per la conclusione della 54ma Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Proprio la basilica dedicata all’apostolo delle genti venne scelta da Giovanni XXIII, 25 gennaio 1959, per indire il Concilio ecumenico Vaticano II. E sarà sempre questa basilica ad essere indicata come luogo per la celebrazione conclusiva della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, istituita nel 1910 in seguito alla necessità, manifestata dai missionari delle varie confessioni cristiane, di presentarsi uniti, e quindi credibili, nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo. (Fabio Zavattaro)  

Quando Dio ci chiama

18 Gennaio 2021 - Città del Vaticano - La pagina di questa domenica del quarto Vangelo si apre ancora con la figura di Giovanni, che stava sulla riva del fiume Giordano, il giorno dopo l’evento della discesa dello Spirito Santo su Gesù, Messia ancora sconosciuto a Israele. Il giorno dopo, Gesù è di nuovo vicino al fiume, e Giovanni lo vede tra la folla e “fissa lo sguardo su di lui che passava”. Il compito del Battista sta proprio nel riconoscere “l’agnello di Dio”, come leggiamo in Giovanni. Riconoscerlo e indicarlo a coloro che saranno poi i primi discepoli del Signore, prima di uscire di scena silenziosamente: Giovanni è colui che vede e capisce, è il vero testimone che subito dopo torna nel nascondimento. Dai Vangeli sapremo la sua morte. I due discepoli lasciano Giovanni e seguono Gesù. All’inizio di ogni vocazione, di ogni cammino, c’è sempre la testimonianza di qualcuno che ci aiuta a percepire la voce di Dio, a scorgere il suo volto, anche nel volto del fratello. “Che cosa cercate” chiede Gesù ai due: sono le prime parole che pronuncia nel quarto Vangelo, parole che interrogano e mettono a nudo motivazioni e desideri dei discepoli. “Maestro dove dimori” chiedono Andrea e il suo compagno a Gesù, che li invita a seguirlo: “venite e vedrete”. Nella risposta del Signore non c’è un indirizzo, “abito a Cafarnao o a Nazaret”, dice il Papa all’Angelus: “Non un biglietto da visita, ma l’invito a un incontro. I due lo seguono e quel pomeriggio rimangono con lui. Non è difficile immaginarli seduti a fargli domande e soprattutto ad ascoltarlo, sentendo che il loro cuore si riscalda sempre più mentre il Maestro parla. Avvertono la bellezza di parole che rispondono alla loro speranza più grande”. Il tempo passa velocemente e arriva la sera e Giovanni, nel suo Vangelo, può annotare l’ora: “erano circa le quattro del pomeriggio”. Commenta il Papa: “ogni autentico incontro con Gesù rimane nella memoria viva, non si dimentica mai. Tanti incontri li dimentichi, ma l’incontro vero con Gesù rimane sempre. E questi, tanti anni dopo, si ricordavano anche l’ora, non avevano potuto dimenticare questo incontro così felice, così pieno, che aveva cambiato la loro vita”. Andrea poi incontrerà il fratello Simone al quale dirà: abbiamo trovato il Messia. Lo porta da Gesù che, “fissando lo sguardo su di lui” lo chiamerà non più Simone ma Cefa, cioè Pietro. Interessante notare che la pagina del Vangelo si conclude con le stesse parole, con lo stesso sguardo con cui era iniziata: Giovanni ha guardato e ha riconosciuto il Messia. Gesù ha guardato e ha riconosciuto colui al quale affiderà la chiesa. “Ogni chiamata di Dio è un’iniziativa del suo amore. Sempre è lui che prende l’iniziativa, ti chiama. Dio chiama alla vita, chiama alla fede, e chiama a uno stato particolare di vita: io voglio te qui”. Dice Francesco: sono modi diversi di “realizzare il progetto di Dio”, e ogni chiamata è “individuale, perché Dio non fa le cose in serie”. La gioia più grande del credente, per il Papa, “rispondere a questa chiamata, offrire tutto sé stesso al servizio di Dio e dei fratelli”. Angelus alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che si celebra ogni anno dal 1966. Appuntamento non rituale ma sostanziale, contributo a quel celebrare insieme che è auspicio e speranza ancor prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, indetto da Papa Giovanni XXIII. Già da Patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli è attento all’ecumenismo: quando arriva nella città lagunare trova una realtà che opera già dal 1947, come luogo di dialogo con chi crede diversamente. La Settimana è chiamata ogni anno a riproporre il cammino del dialogo tra i cristiani: “rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto” il tema proposto. È preceduta da una Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici e ebrei, che quest’anno mette al centro della comune riflessione il libro di Qohelet, il cui autore ci fa riflettere sul senso della vita e sui limiti della condizione umana, anche attraverso una sorta di ritornello che torna nelle pagine del testo: “vanità delle vanità, tutto è vanità […] Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo”. (Fabio Zavattaro)  

Nuove regole per le ceneri nel tempo del virus

13 Gennaio 2021 - Città del Vaticano - Anche il rito dell’imposizione delle ceneri, all’inizio del tempo di Quaresima, dovrà rispettare alcune regole anti-Covid. La Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha dato indicazione sulla modalità da seguire. «Pronunciata la preghiera di benedizione delle ceneri e dopo averle asperse con l’acqua benedetta, senza nulla dire, il sacerdote, rivolto ai presenti, dice una volta sola per tutti la formula: “Convertitevi e credete al Vangelo” o “Ricordati, uomo, che polvere tu sei e in polvere ritornerai”. Quindi il sacerdote asterge le mani e indossa la mascherina a protezione di naso e bocca, poi impone le ceneri a quanti si avvicinano a lui o egli stesso si avvicina a quanti stanno in piedi al loro posto, lasciando cadere le ceneri sul capo di ciascuno, senza dire nulla».

La carezza di Dio

11 Gennaio 2021 - Città del Vaticano - Abbiamo da poco celebrato il Natale e l’Epifania, il mistero di un Dio che si china sull’uomo fino al punto di nascere in povertà, per essere uomo in mezzo a tutti gli uomini. Un bambino è l’essere più indifeso, più bisognoso di affetto e di attenzioni. Il Creatore ha voluto assumere in Gesù, le dimensioni di un bambino per farsi vedere e toccare. Ma è proprio in questo farsi piccolo la sua grandezza. Nel giorno in cui la chiesa fa memoria del battesimo di Gesù – domenica che conclude il tempo natalizio e apre a quello ordinario – ci troviamo a ammirare un adulto alla sua prima manifestazione pubblica. La liturgia ci fa fare un salto di quasi trenta anni; gli anni di “vita nascosta” dice il Papa, “vivendo la vita di tutti i giorni, senza apparire”. È un “bel messaggio per noi: ci svela la grandezza del quotidiano, l’importanza agli occhi di Dio di ogni gesto e momento della vita, anche il più semplice, anche il più nascosto”. Il Vangelo questa domenica ci porta nuovamente sulle rive del Giordano. Marco ci narra di Giovanni Battista che battezza con l’acqua, annunciando che arriverà chi battezzerà in Spirito Santo, colui al quale lui non è degno di slegare i lacci dei sandali. È una immagine che deve farci riflettere, in questo tempo di confusione, di manipolazione, di abuso e offesa del nome di Dio. Anche i manifestanti che hanno preso d’assalto il Congresso, a Washington, avevano cartelli con la scritta “Jesus save”. Si dice scosso dall’assedio a Capitol Hill Papa Francesco, e prega per le vittime di “quei drammatici momenti”. La violenza è “sempre autodistruttiva” afferma all’Angelus, non si “guadagna nulla con la violenza, e tanto si perde”. Chiede responsabilità alle autorità e alla popolazione “al fine di rasserenare gli animi, promuovere la riconciliazione nazionale e tutelare i valori democratici radicati nella società americana”. Con padre David Maria Turoldo potremmo dire che la violenza è come un terribile vulcano in eruzione, “esplosi da oscurità insondabili nel cuore della follia”. Ma torniamo al Vangelo. Gesù è lì in fila con gli altri peccatori, pur non avendo peccato. Non sgomita per passare avanti, non dice ‘lei non sa chi sono io’; non vuole privilegi, corsie preferenziali. È lì, si mescola alla folla, si confonde con i più poveri, gli emarginati, i peccatori; è dalla loro parte, solidarizza con questa umanità e attende il suo turno. Il battesimo, rito penitenziale, era segno della volontà di convertirsi, di essere migliori, chiedendo perdono dei propri peccati. Gesù non ne aveva certo bisogno. Giovanni Battista cerca di opporsi, ma Gesù insiste, “perché vuole stare con i peccatori: per questo si mette in coda con loro e compie il loro stesso gesto. Lo fa con l’atteggiamento del popolo”. Si avvicina, dice Francesco con le parole di un inno liturgico, “‘nuda l’anima e nudi i piedi’. L’anima nuda, cioè senza coprire niente, così, peccatore. Questo è il gesto che fa Gesù, e scende nel fiume per immergersi nella nostra stessa condizione” È il suo “manifesto programmatico”, afferma il Papa; ci dice che lui “non ci salva dall’alto, con una decisione sovrana o un atto di forza, un decreto, no: lui ci salva venendoci incontro e prendendo su di sé i nostri peccati”. Così vince il male: “abbassandosi, facendosene carico. È anche il modo in cui noi possiamo risollevare gli altri: non giudicando, non intimando che cosa fare, ma facendoci vicini, con-patendo, condividendo l’amore di Dio. La vicinanza è lo stile di Dio nei nostri confronti”. Dopo il battesimo “i cieli si aprono e si svela finalmente la Trinità. Lo Spirito Santo scende in forma di colomba, e il Padre dice a Gesù: tu sei il figlio mio, l’amato”. Dio si manifesta, ricorda Francesco, “quando appare la misericordia: quello è il suo volto. Gesù si fa servo dei peccatori e viene proclamato figlio”. Vale anche per noi: “in ogni gesto di servizio, in ogni opera di misericordia che compiamo Dio si manifesta”. Il battesimo è un affidare ogni nuova vita a colui che è più potente dei poteri oscuri del male. Anche coloro che non sono battezzati “ricevono la misericordia di Dio” perché la nostra vita è “segnata dalla misericordia” e Dio “ci carezza con la sua misericordia”. (Fabio Zavattaro)  

Siate gioiosi!

14 Dicembre 2020 - Città del Vaticano - “Più il Signore è vicino a noi – ha detto il Papa – più siamo nella gioia; più lui è lontano, più siamo nella tristezza. Questa è una regola per i cristiani”. Viviamo una stagione difficile e ci prepariamo al Natale tra regole dettate per far fronte alla pandemia e le difficoltà di un tempo che impone sacrifici, ma anche distrae con le luci e richiami commerciali. In questa domenica, la terza di Avvento, la chiesa ci invita alla gioia. Il Natale non è solo una festa fatta di acquisti e di luci: c’è ben altro dietro questo tempo di attesa, di speranza. E bisogna prepararsi nella gioia per la festa imminente: domenica laetare, cioè gioire. Nelle chiese dell’est si accende un lume che si pone alla finestra – lo faceva san Giovanni Paolo II – o all’interno delle case. Papa Paolo VI alla gioia dedica una Esortazione apostolica: Gaudete in Domino. “La società tecnologica – scrive – ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia”. Perché la gioia è spirituale, abbiamo denaro, sicurezza materiale, eppure “la noia, la malinconia, la tristezza rimangono sfortunatamente la porzione di molti. Ciò giunge talvolta fino all’angoscia e alla disperazione, che l’apparente spensieratezza, la frenesia di felicità presente e i paradisi artificiali non riescono a far scomparire”. Perché, come scrive papa Francesco nella sua Evangelii gaudium “la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento”. Alle persone presenti in piazza San Pietro, ci sono bambini venuti per la benedizione dei “bambinelli”, e l’albero con il Presepe ci fanno respirare il tempo di Natale, Francesco propone la riflessione sulla gioia cristiana. “L’attesa che viviamo è gioiosa, un po’ come quando aspettiamo la visita di una persona che amiamo molto, ad esempio un grande amico che non vediamo da tanto tempo”. “Più il Signore è vicino a noi – ha detto il Papa – più siamo nella gioia; più lui è lontano, più siamo nella tristezza. Questa è una regola per i cristiani” che, non dovrebbero mai avere facce tristi. Invece “ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua”, diceva Papa Francesco alcuni anni fa. La vicinanza di Dio, ricordava Benedetto XVI, “non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina”. Il Natale ci viene a ricordare “questa verità fondamentale della nostra fede”. In questa domenica, Giovanni, nel suo Vangelo, ci propone la figura del Battista, “voce di uno che grida nel deserto”. L’evangelista scrive: “Venne un uomo mandato da Dio […] venne come testimone per dare testimonianza alla luce”. Il Battista è il primo testimone di Gesù “con la parola e con il dono della vita”, ricorda Francesco: “tutti i Vangeli concordano nel mostrare come lui abbia realizzato la sua missione indicando Gesù come il Cristo, l’Inviato di Dio promesso dai profeti. Giovanni era un leader nel suo tempo. La sua fama si era diffusa in tutta la Giudea e oltre, fino alla Galilea. Ma lui non cedette nemmeno per un istante alla tentazione di attirare l’attenzione su di sé: sempre lui orientava a colui che doveva venire. Diceva: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo”. Qui troviamo la prima condizione della gioia cristiana, dice il vescovo di Roma: decentrarsi e mettere al centro Gesù, il quale “è la luce che dà senso pieno alla vita di ogni uomo e donna che viene a questo mondo. È lo stesso dinamismo dell’amore, che mi porta a uscire da me stesso non per perdermi, ma per ritrovarmi mentre mi dono, mentre cerco il bene dell’altro”. Il cammino della gioia non è una “passeggiata”, Giovanni Battista “ha percorso un lungo cammino per arrivare a testimoniare Gesù”. Ha lasciato tutto sin da giovane, si “è ritirato nel deserto spogliandosi di ogni cosa superflua, per essere più libero di seguire il vento dello Spirito Santo. Certo, alcuni tratti della sua personalità sono unici, irripetibili, non proponibili a tutti. Però la sua testimonianza è paradigmatica per chiunque voglia cercare il senso della propria vita e trovare la vera gioia. Di qui l’invito ai cristiani ad essere gioiosi: “deve essere la caratteristica della nostra fede, anche nei momenti bui”. No, dunque, a cristiani tristi “che sembrano di essere a una veglia funebre” perché se “non ho la gioia della mia fede, non potrò dare testimonianza”. (Fabio Zavattaro)

Siate pronti!

9 Novembre 2020 - Città del Vaticano - C’è una domanda di fondo sottesa alla pagina del Vangelo di ieri, la parabola delle dieci vergini: che cosa significa vegliare; come vivere nell’attesa della venuta del Signore. Una pagina che è preceduta da un’altra parabola, quella del servo che attende il ritorno del padrone, senza sapere in quale giorno questo accadrà. Ma sa attendere, anche ai suoi doveri, e per questo è definito fidato e prudente. Quest’ultima parola si lega bene alla vicenda delle donne che, prudentemente, hanno messo da parte l’olio per alimentare le loro lampade, nel momento dell’arrivo dello sposo. Fermiamoci su queste immagini suggerite dal primo Vangelo: l’olio, le dieci vergini, il banchetto nuziale. Sappiamo che delle dieci donne solo cinque – definite proprio prudenti – parteciperanno alla festa di nozze, le altre, andate a cercare l’olio per le loro lampade, troveranno la porta chiusa. “Signore aprici”, diranno al loro arrivo ricevendo in risposta: “in verità io vi dico: non vi conosco”. Sappiamo ancora che, nell’attesa, si addormentarono anche loro, pronte però a destarsi e a prepararsi per esultare all’arrivo dello sposo: “vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”, leggiamo in Matteo. La parabola è un invito a essere pronti perché non ci è dato sapere quando il Signore verrà, e per questo nella nostra lampada non dovrà mancare l’olio; dobbiamo essere prudenti come le cinque ragazze che sono state ammesse al banchetto, le cui lampade emettevano luce all’arrivo dello sposo. “Con questa parabola – ha spiegato il Papa, parlando alle persone presenti per la preghiera mariana dell’Angelus – Gesù ci vuole dire che dobbiamo essere preparati all’incontro con Lui. Non solo all’incontro finale, ma anche ai piccoli e grandi incontri, all’impegno di ogni giorno in vista di quell’incontro, per il quale non basta la lampada della fede, occorre anche l’olio della carità e delle opere buone”. Essere saggi e prudenti, ha affermato Francesco, significa “non aspettare l’ultimo momento per corrispondere alla grazia di Dio, ma farlo attivamente da subito”. Capita, lo sappiamo, afferma il Papa, di “dimenticare la meta della nostra vita, cioè l’appuntamento definitivo con Dio, smarrendo così il senso dell’attesa e assolutizzando il presente”. La prudenza alla quale Gesù ci invita è quella di chi conosce il proprio limite, sa le proprie debolezze – anche le cinque che sono entrate nella sala, si sono addormentate come le altre – ma nello stesso tempo è anche capace porvi rimedio: avevano “l’olio in piccoli vasi” affinché non restassero senza. Non dobbiamo guardare solo il presente, assolutizzandolo, perché così si “perde il senso dell’attesa”, ricorda il vescovo di Roma. Perdere il senso dell’attesa “preclude ogni prospettiva sull’aldilà: si fa tutto come se non si dovesse mai partire per l’altra vita. E allora ci si preoccupa soltanto di possedere, di emergere, di sistemarsi”. Vegliare, dunque, non significa non dormire, ma essere pronti, perché non sappiamo quando arriverà il nostro momento; ma occorre anche essere umili: non avere la presunzione di ignorare le nostre debolezze. Come disse il cardinale Giacomo Biffi, presi dalla voglia di festeggiare a volte ci dimentichiamo del festeggiato; diamo più importanza alle lampade che allo sposo; e quando arriva, l’olio non basta per continuare a far luce. “Se ci lasciamo guidare da ciò che ci appare più attraente, da quello che mi piace, dalla ricerca dei nostri interessi, la nostra vita diventa sterile”, afferma Papa Francesco; così “non accumuliamo alcuna riserva di olio per la nostra lampada, ed essa si spegnerà prima dell’incontro con il Signore. Dobbiamo vivere l’oggi, ma l’oggi che va verso il domani, verso quell’incontro, l’oggi carico di speranza”. Un incontro che va preparato prima; non si può essere superficiali, pensando che a tutto si può trovare rimedio, anche all’ultimo minuto. Dobbiamo, invece, essere pronti, ricorda il Papa: “se siamo vigilanti e facciamo il bene corrispondendo alla grazia di Dio, possiamo attendere con serenità l’arrivo dello sposo. Il Signore potrà venire anche mentre dormiamo: questo non ci preoccuperà, perché abbiamo la riserva di olio accumulata con le opere buone di ogni giorno”. (Fabio Zavattaro)  

Nella vigna del Signore

5 Ottobre 2020 - Città del Vaticano - La vera autorità è nel servire, non sfruttare gli altri, dice il Papa. La vigna è del Signore, non nostra. L’autorità è un servizio, e come tale va esercitata. Nel giorno in cui si chiude il Tempo del Creato voluto dal Papa e aperto il primo settembre scorso, Francesco consegna al mondo la sua terza enciclica, Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, firmata sabato presso la tomba del poverello di Assisi. Un testo che mentre propone l’icona del Buon Samaritano, ci offre l’occasione di riflettere su quelle vie percorribili da ognuno di noi per contribuire a costruire un mondo più giusto e fraterno nella vita quotidiana, nella politica, nel sociale. “I segni dei tempi mostrano chiaramente che la fraternità umana e la cura del creato formano l’unica via verso lo sviluppo integrale e la pace, già indicata dai Santi Papi Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II”. Nella sua enciclica papa Francesco evidenzia subito le “ombre di un mondo chiuso”; un mondo che non sa guardare l’altro come un fratello, che antepone l’egoismo al bene comune, la logica di un mercato fondata sul profitto e sulla cultura dello scarto, la cultura dei muri all’accoglienza, alla condivisione e alla solidarietà. Un messaggio che trova eco nelle letture della domenica: l’immagine della vigna, che in Isaia è sterile; in Matteo, invece, sono i vignaioli a impedire al padrone di coglierne i frutti. Se nel profeta è metafora di una resistenza ad accogliere la novità del Signore, nel Vangelo è il luogo del “sogno” di Dio, il progetto che Dio ha sul suo popolo. In Fratelli tutti, il Papa ci ricorda la comune appartenenza alla famiglia umana, quel riconoscerci fratelli perché figli di un unico creatore, e abitanti dello stesso luogo da custodire, perché in un mondo globalizzato e interconnesso ci si può salvare solo insieme: il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Rileggendo in Matteo la parabola – la vigna, il padrone premuroso e i contadini avidi – ci troviamo di fronte a orgoglio, egoismo, infedeltà e rifiuto; ma anche alla volontà del padrone di non escludere nessuno, di insistere fino a mandare il proprio figlio per ottenere la “conversione” dei contadini: nell’ostinazione del padrone della vigna c’è il desiderio profondo di ottenere i frutti della sua proprietà, mentre il rifiuto del figlio – l’erede, ucciso perché così i contadini pensano di appropriarsi della vigna – è il “no” deciso, secco alla mano tesa dal padrone; come dire, il rifiuto definitivo dell’amore del padre che pur di stingere l’alleanza con l’uomo manda il proprio figlio. Nella parabola, Gesù rilegge la propria storia, la sua missione, il suo amore per il popolo dell’alleanza. Lui è il figlio rifiutato, cacciato e poi ucciso: è la pietra che i costruttori hanno scartato e che è diventata indispensabile. L’immagine della vigna è chiara, dice all’Angelus Papa Francesco: “rappresenta il popolo che il Signore si è scelto e ha formato con tanta cura; i servi mandati dal padrone sono i profeti, inviati da Dio, mentre il figlio è figura di Gesù. E come furono rifiutati i profeti, così anche il Cristo è stato respinto e ucciso”. La domanda al termine del racconto – quando verrà il padrone della vigna, cosa farà a questi contadini? – trova, nei capi del popolo, la risposta che è anche la loro condanna: “il padrone punirà severamente quei malvagi e affiderà la vigna ad altri contadini. Un ammonimento che vale in ogni tempo e non solo per coloro che rifiutarono Gesù. Vale anche per il nostro tempo, dice il Papa: “anche oggi Dio aspetta i frutti della sua vigna da coloro che ha inviato a lavorare in essa. Tutti noi. In ogni epoca, coloro che hanno un’autorità, qualsiasi autorità, anche nella Chiesa, nel popolo di Dio, possono essere tentati di fare i propri interessi, invece di quelli di Dio stesso”. La vera autorità è nel servire, non sfruttare gli altri. La vigna è del Signore, non nostra. L’autorità è un servizio, e come tale va esercitata. Così afferma: “è brutto vedere quando nella Chiesa le persone che hanno autorità cercano i propri interessi”. Ecco la grande responsabilità di chi è chiamato a lavorare nella vigna del Signore, specialmente con ruolo di autorità. Gesù non ci lascia estranei alla sua vicenda personale, non possiamo sentirci semplici spettatori. Anche noi possiamo essere coinvolti nello stesso peccato: la durezza di cuore, il rifiuto di accogliere il figlio, l’altro. (Fabio Zavattaro)  

La pazienza di Dio

28 Settembre 2020 - Città del Vaticano - Una doppia domanda è presente nella parabola contenuta nel brano di Matteo letto ieri; Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme a insegnare ed è attaccato dai capi religiosi che gli chiedono con quale autorità fa quelle affermazioni. La sua risposta – la parabola dei due figli invitati dal padre a lavorare nella vigna – chiama sacerdoti e anziani del popolo a prendere posizione, a dare un giudizio. Conosciamo le risposte dei figli: “non ne ho voglia” il primo, ma poi andrà; “si signore”, e invece eviterà di entrare nella vigna, il secondo. E conosciamo anche la risposta che sacerdoti e anziani danno alla domanda di Gesù: chi ha compiuto la volontà del padre? Il primo. È un modo per sottolineare l’obbedienza al Padre, dunque a Dio, che si esprime nella disponibilità ad aprire i nostri cuori, perché nel nostro rapporto con il Signore, diceva Benedetto XVI, “non contano le parole, ma l’agire, le azioni di conversione e di fede”. No dunque a una fede tiepida, a una religiosità di routine, che non inquieta più l’uomo. L’obbedienza, afferma Papa Francesco all’Angelus, “non consiste nel dire ‘sì’ o ‘no’, ma nell’agire, nel coltivare la vigna, nel realizzare il Regno di Dio. Con questo semplice esempio, Gesù vuole superare una religione intesa solo come pratica esteriore e abitudinaria, che non incide sulla vita e sugli atteggiamenti delle persone. Una religiosità superficiale, soltanto rituale, nel brutto senso della parola. Gli esponenti di questa religiosità “di facciata”, che Gesù disapprova, erano in quel tempo i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo”. Le parole che troviamo nel brano di Matteo vanno lette con discernimento, e non devono “indurre a pensare che fanno bene quanti non seguono i comandamenti di Dio e la morale, e dicono: tanto, quelli che vanno in Chiesa sono peggio di noi. Gesù non addita i pubblicani e le prostitute come modelli di vita, ma come ‘privilegiati della Grazia’, che Dio offre a chiunque si apre e si converte a lui. Infatti, queste persone, ascoltando la sua predicazione, si sono pentite e hanno cambiato vita. Pensiamo a Matteo, ad esempio, San Matteo, che era un pubblicano, un traditore alla sua patria”. Matteo, nel suo Vangelo, utilizza due verbi per indicare il cambiamento avvenuto nel primo figlio: pentire e andare, “si pentì e vi andò”. È l’immagine della chiesa secondo Francesco dove peccato e conversione hanno cittadinanza. Come il figlio che, pentendosi della prima risposta, vede diversamente le cose: non è più il padrone che chiama a lavorare, ma il padre che invita a collaborare per portare frutti. Così nella parabola la figura migliore la fa il primo fratello, afferma ancora Papa Francesco nelle parole che precedono la preghiera mariana: non perché ha detto no a suo padre, ma perché dopo il no si è convertito al sì”. Il Signore “anche se siamo uomini di poca fede e peccatori, ci salverà”. È l’immagine della barca di Pietro sballottata dalle onde, della zizzania nel campo del Signore, dei pesci cattivi nella rete di Pietro. Peccatori, dunque. Ma chi sa di essere un peccatore, sa anche che Dio lo ama comunque. Ricordate: il Signore non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. La pazienza di Dio che non si stanca, “non desiste dopo il nostro no; ci lascia liberi anche di allontanarci da lui e di sbagliare”. È meraviglioso pensare alla pazienza di Dio, dice Francesco: il Signore ci aspetta sempre; sempre accanto a noi per aiutarci; ma rispetta la nostra libertà. E attende trepidante il nostro “sì”, per accoglierci nuovamente tra le sue braccia paterne e colmarci della sua misericordia senza limiti. La fede in Dio chiede di rinnovare ogni giorno la scelta del bene rispetto al male, la scelta della verità rispetto alla menzogna, la scelta dell’amore del prossimo rispetto all’egoismo”. La conversione, cambiare il cuore, ha affermato ancora Francesco, “è un processo di purificazione dalle incrostazioni morali; per questo non è mai indolore. Il cammino della conversione passa sempre attraverso la croce”. E il Vangelo di oggi “chiama in causa il modo di vivere la vita cristiana, che non è fatta di sogni o di belle aspirazioni, ma di impegni concreti, per aprirci sempre più alla volontà di Dio e all’amore verso i fratelli”. (Fabio Zavattaro)  

Epidemia in Cina: il Vaticano invia 600mila mascherine

3 Febbraio 2020 - Città del Vaticano - Il Vaticano ha spedito in Cina circa 600-700mila mascherine per aiutare a prevenire la diffusione del contagio da coronavirus. Lo ha riferito oggi il vicedirettore del Pontificio Collegio Urbano, Vincenzo Han Duo, al Global Times, tabloide del Quotidiano del Popolo. A prendere l'iniziativa, insieme alla Farmacia vaticana e alla comunità  cinese in Italia, l'elemosiniere del Papa, il card. Konrad Krajewski. Domenica 26 gennaio Papa Francesco, durante l'Angelus, aveva parlato dell’epidemia dicendosi “vicino” e “pregare per le persone malate a causa del virus che si è diffuso in Cina". "Il Signore accolga i defunti nella sua pace, conforti le famiglie e sostenga il grande impegno della comunità cinese, già messo in atto per combattere l'epidemia".

Papa Francesco: collaborazione con il patriarcato di Costantinopoli sull’accoglienza dei migranti e rifugiati

28 Giugno 2019 - Città del Vaticano - “Ritengo un bel segno la collaborazione tra Chiesa Cattolica e Patriarcato Ecumenico su altre questioni attuali, come la lotta contro le forme moderne di schiavitù, l’accoglienza e l’integrazione di migranti, profughi e rifugiati e la promozione della pace a vari livelli”. Lo ha detto questa mattina Papa Francesco ricevendo in udienza la Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli presente a Roma per la Festa dei Santi Pietro e Paolo. “La vostra presenza – ha detto il Papa - manifesta i saldi legami esistenti tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli e il comune impegno a camminare verso quella pienezza di comunione a cui aneliamo, in obbedienza alla ferma volontà di Gesù (cfr Gv 17,21). La festa dei Santi Pietro e Paolo, che ricorre nello stesso giorno nei calendari liturgici d’Oriente e d’Occidente, ci invita a rinnovare la carità che genera unità. Ci richiama, al tempo stesso – ha quindi aggiunto - al coraggio apostolico dell’annuncio. Ciò significa anche impegnarsi a rispondere alle nuove sfide del nostro tempo. Pure questa è fedeltà al Vangelo. Mi piace ricordare, a proposito dell’attenzione al contesto odierno, l’impegno del Patriarca Ecumenico per la salvaguardia del creato, che è stato per me fonte di ispirazione. Di fronte alla preoccupante crisi ecologica che stiamo attraversando, promuovere la cura della casa comune per i credenti non è solo un’urgenza non più rimandabile, come per tutti, ma un modo concreto di servire il prossimo, nello spirito del Vangelo. Similmente, ritengo un bel segno la collaborazione tra Chiesa Cattolica e Patriarcato Ecumenico su altre questioni attuali, come la lotta contro le forme moderne di schiavitù, l’accoglienza e l’integrazione di migranti, profughi e rifugiati e la promozione della pace a vari livelli”. (R.I.)