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Sr. Bottani: “una maratona di preghiera contro la tratta”
Il sorriso del piccolo Mustafà che abbraccia l’Italia
Foto SIR/Marco Calvarese[/caption]
4 Febbraio 2022 - Siena - Dalle braccia del papà a quelle della mamma, in un gioco continuo fatto di sorrisi e di urla gioiose dove anche un carrello per la spesa diventa un giocattolo da condividere con le due sorelline più piccole. Ti abbraccia con il sorriso: ti accoglie così Mustafà al-Nazzal, il bambino siriano di 5 anni, immortalato con suo padre Munzir (33 anni), dal fotografo turco Mehmet Aslam, nello scatto vincitore del concorso Siena International Photo Awards (Sipa) facendo così il giro del mondo.
La foto li ritraeva mentre giocavano in un campo profughi in Turchia: il papà privo di una gamba che librava in alto suo figlio nato senza arti. La famiglia di Mustafà era fuggita in Turchia da Idlib, nella regione nord-occidentale della Siria, nel 2019, dopo che suo padre Munzir aveva perso una gamba in un attacco chimico del regime siriano. Sua moglie Zeynep, all’epoca incinta di pochi mesi di Mustafà, inalò il gas che provocò nel piccolo la sindrome di tetra-amelia, per questo nato privo di arti. Grazie a quella foto che scatenò una vera e propria corsa alla solidarietà, la famiglia di Mustafà è arrivata a Siena, accolta dalla locale arcidiocesi guidata dal card. Augusto Paolo Lojudice, dove vive in uno dei quattro appartamenti del Centro Caritas di Arbia, un vero e proprio polo della solidarietà, aperto ai bisogni di tutti. Qui, con l’aiuto di tanti volontari, come Anna, Paolo, Maria, la famiglia di Mustafà sta ricominciando una nuova vita.
“Grazie”, “ciao”, “Italia” e soprattutto “ciaccino”, la tipica focaccia farcita senese, sono le prime parole che Mustafà e le sue sorelline hanno imparato a pronunciare e che ripetono spesso sotto lo sguardo divertito dei loro genitori. La mamma Zenyep, 26 anni, ripete il suo “grazie” all’Italia e agli italiani: “avevamo bisogno di aiuto e qui lo abbiamo trovato, ora possiamo curare Mustafà, le nostre bambine potranno andare a scuola e imparare l’italiano”. Finita la sua quarantena, il piccolo Mustafà in questi giorni sta completando un primo ciclo di visite mediche e di accertamenti. Sia lui che il papà, infatti, sono attesi per inizio marzo nel Centro Protesi Vigorso dell’Inail a Budrio, vicino a Bologna, dove inizieranno la riabilitazione. Nel centro Inail sono stati assistiti campioni e atleti paralimpici come Alex Zanardi e Bebe Vio. Ma se per il padre Munzir, spiega Anna Ferretti del team di Caritas Siena, “la riabilitazione sarà una cosa breve, quella di Mustafa sarà più complessa perché il bambino non ha mai avuto gli arti e ciò rende tutto più difficile".
Seppur con lo sguardo rivolto al futuro, la famiglia del piccolo Mustafà non dimentica la Siria. Racconta Munzir: “prima della guerra la mia famiglia aveva delle terre che coltivavo con i miei genitori. Poi la guerra ci ha tolto tutto". Oggi è in atto un conflitto contro il popolo siriano e se la comunità internazionale non si muoverà questa strage è destinata a durare ancora a lungo. Bisogna fermare tutti gli attori in lotta a cominciare dal regime”. Il pensiero corre anche ai familiari rifugiati in Turchia: “siamo in contatto con loro tutti i giorni – dice Zeynep – sono felici per quanto è accaduto e sono riconoscenti all’Italia per la generosità mostrata nei nostri confronti. Tanto riconoscenti da avere – rivela la donna – la bandiera italiana nello status di WhatsApp”.
Poco lontano il card. Lojudice gioca e scherza con Mustafà e le sorelline: “Come Diocesi – spiega - abbiamo dato disponibilità ad accogliere questa famiglia. Abbiamo dato loro un alloggio ed abbiamo pensato ad un percorso di vita, umano e sociale da fare insieme”. “Spero che questa esperienza possa servire a riportare attenzione sulla guerra in Siria, oramai scomparsa dai radar dell’informazione, e sulla sofferenza dei bambini che sono le prime vittime della violenza. Mustafà – aggiunge il cardinale - sia un apripista, un punto di riferimento per altre situazioni simili. Perché anche dal male si può trarre il bene, e dalla disperazione speranza”.
“La diocesi di Siena sta mostrando un grande cuore – conferma Anna Ferretti – stanno arrivando fondi e regali. Pochi giorni fa una parrocchia di Montalcino ha donato un cellulare a Mustafà. Anche le Contrade stanno fremendo per fare qualcosa. La solidarietà è nel Dna dei senesi”. Lo racconta anche la storia di questa città dove già nel 1090 era operativo il più antico ospedale d’Europa per i pellegrini. Santa Maria della Scala accoglieva i pellegrini che percorrevano la Via Francigena, ospitava e sosteneva i poveri, i bambini abbandonati detti “gettatelli” e curava gli ammalati. I poveri di ieri e i rifugiati di oggi. (Daniele Rocchi) Congo: assalto al campo profughi
Li hanno sorpresi nella notte, invadendo il campo profughi di Savo, vicino alla cittadina di Bule, nella provincia nord-orientale congolese dell’Ituri. Approfittando del buio, un gruppo di miliziani è entrato nel campo e provocato l’ennesimo massacro compiuto con armi da fuoco e machete: almeno sessanta sfollati sono rimasti uccisi, un’altra quarantina feriti per mano del gruppo Codeco, che da alcuni anni pretende di difendere gli agricoltori Lendu nella faida con la comunità di pastori Hema. «Ho sentito delle urla mentre stavo ancora dormendo, poi una sparatoria durata diversi minuti – ha raccontato Lokana Bale Lussa, residente nel campo –. Sono scappato vedendo che c’era chi appiccava fuoco nel campo, mentre la gente chiedeva aiuto. Ho capito che i miliziani Codeco avevano invaso la nostra zona. Abbiamo bisogno di maggiore sicurezza: già non avevamo accesso alle nostre terre, ora veniamo perseguitati anche nei campi». Secondo alcune ricostruzioni, militari dell’esercito congolese avrebbero incrociato i miliziani dopo il massacro, ma il gruppo armato sarebbe comunque poi riuscito a fuggire. L’area in cui ha avuto luogo il massacro è quella di Djugu, al confine con il Lago Albert e l’Uganda che si trovano ad est, area che già da tempo è teatro degli scontri tra le comunità Lendu e Hema. I combattimenti tra i due gruppi sono esplosi tra il 1999 e il 2003, causando decine di migliaia di vittime prima di essere frenati da una forza di interposizione dell’Unione Europea, Artemis. La violenza è poi ripresa nel 2017, attribuita all’emergere di Codeco (Cooperativa per lo sviluppo del Congo) che punta a difendere i Lendu e che, secondo le Nazioni Unite, ha già provocato centinaia di vittime e costretto alla fuga migliaia di civili. Il gruppo – che ultimamente ha più volte preso di mira i campi profughi – è una delle tante formazioni armate che operano nella provincia, tra le più turbolente dell’intera Repubblica democratica del Congo. Il campo profughi di Savo ospita attualmente circa 24mila persone rispetto a un totale di 1,7 milioni di sfollati in tutta la provincia del-l’Ituri, provincia in cui nel 2021 le vittime civili sono state oltre 1.200.
Sia nell’Ituri che nel vicino Nord Kivu sono peraltro sempre più frequenti le segnalazioni di incursioni di formazioni anche di stampo jihadista. Non a caso proprio nel Nord Kivu, nel territorio di Beni, nei giorni scorsi è stato arrestato un noto jihadista di nazionalità keniana, Salim Mohamed, inviato nella regione dal Daesh. A riferirlo l’Agenzia Fides, che ha riportato la nota di Cepadho, una Ong congolese con base a Goma. (Paola M. Alfieri)
L’odissea degli ultimi
Milano - Li hanno trovati nel villaggio turco di Pasakoy. Dodici corpi privi di scarpe e vestiti, stesi sul terreno a meno di dieci chilometri dalla frontiera greca, da sette anni porta principale della “fortezza Europa”. Là, giorno dopo giorno, sfilano, nascosti nella boscaglia, uomini, donne, bambini in fuga dal Medio Oriente o dall’Asia in fiamme. Obiettivo: attraversare il fiume Evros, in bilico tra Turchia e Grecia, e varcare la soglia del Vecchio Continente. La gran parte delle volte non ci riesce. Come i dodici di Pasakoy, nel distretto di Ipsala, nell’Edirne. Secondo le autorità turche, le vittime facevano parte di un gruppo più ampio, di ventidue persone. Il ministro dell’Interno Suleyman Soylu ha denunciato sui social che i profughi sarebbero riusciti a raggiungere la Grecia ma sarebbero stati bloccati e ricacciati indietro della guardie di confine. Non prima, però, di essere privati dei pochi averi, inclusi gli indumenti indispensabili per proteggersi dal freddo che, dunque, li ha stroncati. Quando la polizia di Ankara li ha trovati, undici erano già morti congelati. Il dodicesimo si è spento poco dopo in ospedale. «Ancora una volta, l’Europa si è dimostrata priva di soluzioni, debole e insensibile», ha tuonato Soylu che non ha precisato la nazionalità, il genere o l’età dei profughi.
Dalle foto, diffuse dallo stesso ministro su Twitter, uno sembra un ragazzino. Gli ha fatto subito eco il capo della Comunicazione del governo turco, Fahrettin Altun, che ha definito l’Unione Europea «complice» di Atene. Bruxelles «non sa cosa significhi accogliere chi cerca di salvarsi la vita», ha affermato il presidente Recep Tayyp Erdogan. La Grecia, da parte sua, non ha risposto alle accuse, per altro non nuove. Da tempo Ankara, che ha chiesto più fondi all’Ue per i profughi, sostiene che Atene faccia respingimenti sistematici. Una pratica illegale perché impedisce loro di presentare richiesta di asilo, come garantito dal diritto internazionale. Affermazioni confermate da vari attivisti e associazioni. Appena tre settimane fa, l’Aegean monitor reporter ha rivelato l’espulsione di oltre 26mila profughi in due anni dalla guardia costiera greca lungo la rotta dell’Egeo. È di poco tempo fa, inoltre, la vicenda dell’interprete di Frontex scambiato per migrante e ricacciato in Turchia. Quest’ultima, dalla guerra in Siria, si è ritrovata al centro dell’esodo: nel suo territorio ci sono circa 3,7 milioni di profughi. Il braccio di ferro con la Grecia è cominciato due anni fa quando Erdogan ha spinto questi ultimi a sconfinare.
Le immagini dei profughi nella morsa delle polizie dei due Stati che li rimpallavano come merce hanno fatto il giro del mondo. Poi di nuovo il silenzio. Eppure, intrappolati tra i conflitti fra Stati e l’indecisione europea, i migranti muoiono. Di malattie e di fame. Annegati o congelati. Corpi in genere senza nome, a volte perfino senza vestiti, abbandonati lungo le linee di faglia della geopolitica. (Lucia Capuzzi - Avvenire)
Memorandum Italia-Libia: un appello firmato da diverse associazioni ed organizzazioni umanitarie per la revoca
Accordi Italia-Libia: oggi sit-in a Roma
Cile: nuove tensioni e vandalismi contro i migranti venezuelani
Viminale: da inizio anno sbarcate 3.035 persone migranti sulle nostre coste
Migranti: 6 morti al largo della Tunisia
Card. Lojudice: “pronti a dare un futuro al piccolo Mustafà e alla sua famiglia”
Mons. Staglianò: dobbiamo ritrovare il “noi” che ci precede
Noto - Ieri l’urlo che riempiva società pervase da ideologie totalitarie nazional-razziste era “Via gli ebrei”, oggi è “Via i migranti”! Nella nostra società di massa manipolata da poteri forti e da logiche di nuovo rischiosamente nazional- razziste, la categoria del “noi”, che dice comunione, viene deformata e resa divisiva: ci sono i “nostri” e ci sono gli “altri” che, a motivo di paure alimentate ad arte, diventano subito i “nemici”. E così il mondo viene diviso in “razze” superiori e inferiori. Con questi schemi volgari, nazismo, fascismo e stalinismo hanno reso il Novecento il “secolo del male”. Oggi, populismi di diversa matrice continuano ad alimentare odio e a trovare capri espiatori. C’è di più: le “politiche dell’antipolitica” – che hanno giocato e giocano con il disagio, cresciuto in tempi di crisi – hanno diseducato interi popoli e intere generazioni, facendo avanzare il deserto dentro il cuore dell’uomo. Hanno gettato l’umanità in una guerra devastante, ieri totale, oggi “infinita”. Per non parlare dei genocidi condotti con un cinismo che ancora oggi lascia attoniti, se ci si pensa con cuore sensibile e intelligenza lucida.
Come è stato possibile? Dove era la gente comune quando avvenivano le retate? Non si vedevano i vagoni piombati con “merce” umana? Da qualche anno, queste domande risuonano mentre si continua a recuperare la memoria della Shoah, perché mai più accadano crimini così efferati contro l’umanità. Ora, però, sappiamo che non sarebbe bastato (e che non basta) “guardare” per restare uomini che reagiscono, difendono, condividono, pensano alla comune umanità. Oggi lo sappiamo meglio, perché ci arrivano in presa diretta le immagini dei barconi e dei morti che annegano e diventano pezzi di carne in sacchi neri, come accaduto a Lampedusa o a Pozzallo, o l’immagine della mamma che, lungo i confini dei Balcani, muore assiderata perché con le sue calze aveva cercato di scaldare i figli. Mentre si mette in mare per salvare vite, da “Mediterranea” giunge un appello che ci chiede di rinnovare quella liberazione degli ebrei del 27 gennaio di settantasette anni fa nella liberazione dei migranti, non solo dalle acque minacciose del mare, ma anche dalle prigioni libiche – che “Avvenire” ha raccontato anche con immagini toccanti e strazianti – e da retate volte a eliminare quei migranti che cercano di diventare protagonisti del loro riscatto: «Non sappiamo come aiutare i fratelli di Gesù ad andare in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode – scrive don Mattia Ferrari - Però dobbiamo salvarli: se le milizie li troveranno, molto probabilmente li giustizieranno, come avviene spesso ai migranti rivoltosi in Libia». Oggi vengono denunciate da gente coraggiosa (volontari di Ong, missionari, giornalisti, migranti che riescono a raccontarci cosa hanno visto) le violenze in nuovi campi di concentramento come quelli della Libia, dentro oscure manovre con la complicità di poteri economici e politici forti, o campi di raccolta, come quelli di Lesbo dove si vive di stenti. Oggi sappiamo anche che il lavoro forzato si rinnova nel nostro Paese nelle piaghe del caporalato che usa i migranti come merce a basso costo, migranti che si riparano poi sotto lamiere che diventano “forni” che evocano quelli dei campi di concentramento, roventi in estate e incapaci di riparare d’inverno.
Oggi non solo sappiamo di tanta sofferenza, ma anche ci viene chiarito come tutto questo sia disumano.
Ce lo dice con forza e tenacia papa Francesco che, nella “Fratelli tutti”, spiega anche come si crei un meccanismo perverso che ci spinge a “guardare” senza “vedere” e senza decidere quei gesti necessari per restare umani: «I “briganti della strada” hanno di solito come segreti alleati quelli che passano per la strada “passando dall’altra parte”. Si chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma nello stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse [...] In tal modo, si alimenta il disincanto e la mancanza di speranza, e ciò non incoraggia uno spirito di solidarietà e generosità» (FT,75).
Non basta “guardare”, occorre vedere e occorre agire! Solo così la memoria diventa memoriale, che ci interpella nell’oggi della storia e rende onore alle vittime. E ci sono dati tanti esempi in coloro che si espongono in prima persona. E in questi giorni ha parlato al cuore di molti la testimonianza e lo stile del presidente del Parlamento europeo Davide Maria Sassoli che, in uno dei suoi ultimi messaggi, quello per il Natale, ripreso dal cardinale Zuppi e dalla figlia al funerale, diceva con estrema chiarezza: «Abbiamo visto nuovi muri, i nostri confini in alcuni casi sono diventati confini tra morale e immorale, tra umanità e disumanità. Muri eretti contro persone che chiedono riparo dal freddo, dalla fame, dalla guerra, dalla povertà [...] Il periodo del Natale è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini, quando combattiamo tutte le ingiustizie».
In una vignetta pubblicata dopo i funerali di Sassoli si vede una figura che, girando le spalle alla realtà concreta di un migrante mentre affonda, dice: «Continueremo sulle orme di David Sassoli », quando il migrante invoca e grida «Voltati». Ecco, in questo imperativo categorico, in questo “voltarsi” c’è la via per non continuare con emozioni e parole astratte, ma per aprire – nella cura che accoglie, protegge, promuove, integra, protegge (cfr. FT,129) – cammini nuovi in cui il “noi” viene ritrovato, non solo inclusivo e concreto, ma anche capace di dare pienezza e verità alla nostra vita. Scrive ancora il Papa: «Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prenderci cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune » (FT,17). Nel “noi” che diventiamo accogliendo il migrante, cifra dell’umanità tutta in cammino, riscopriamo la comune e originaria co-appartenenza che ci fa insieme uomini.
“Fratelli tutti”, l’appello che papa Francesco ci dona, non è un appello emotivo o solo etico, ma teologale: è verità e sostanza della vita, è l’unico futuro degno dell’umanità, coerente con la conoscenza del volto vero di Dio, Padre che tutti ci abbraccia. Il filo della memoria lega allora i giusti di ieri, con i coraggiosi di oggi, e invoca dalla Chiesa anzitutto una presenza che aiuti, non solo a “guardare” ma a “vedere” («Dacci occhi per vedere», invochiamo nella preghiera eucaristica!) e così, come amava dire don Tonino Bello, «organizzare la speranza e forzare l’aurora». (mons. Antonio Stagliano - Vescovo di Noto e Vescovo delegato Migrantes della Conferenza Episcopale Siciliana)
Comunità S.Egidio: non è accettabile morire di freddo a pochi passi dall’Europa
Roma - L’ennesima tragedia del mare "obbliga tutti a non restare indifferenti: non è accettabile morire di freddo a pochi metri dall’Europa". La Comunità di Sant’Egidio esprime il suo "cordoglio" per i sette cittadini del Bangladesh che hanno perso la loro vita per ipotermia - alcuni sul barcone in cui viaggiavano, altri subito dopo lo sbarco a Lampedusa - e "si stringe attorno alle loro famiglie". Occorre che "il nostro continente esca dal suo torpore e si preoccupi di salvare i tanti che sono ogni giorno in pericolo nel mare Mediterraneo. Ma è necessario, al tempo stesso, incrementare i corridoi umanitari - che hanno già offerto a oltre 4.300 profughi un preciso progetto di integrazione in Europa - e predisporre l’apertura di nuove vie di ingresso regolare per motivi di lavoro, come richiedono ormai da tempo molti imprenditori nel settore agricolo come in quello industriale e dei servizi alla persona".