Tag: Immigrati e rifugiati
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I tre migranti: vogliamo aiutarvi
Trapani - Il campetto dell’oratorio è avvolto nel silenzio: una scena inconsueta in giorni normali, perché siamo sulla via principale della città e qui è sempre un via vai di ragazzi. Le stanze, liberate dagli arredamenti, sono state riadattate in magazzini, dove vengono stipati i viveri; pure nei corridoi, trovano spazio cassette impilate con ortaggi freschi. All’entrata, dove è stata messa su una rudimentale segreteria, ci sono due pile di cartoni alte due metri. Anche la stanza del direttore non esiste più: da qualche giorno, con l’aiuto di Ceesay, che ha studiato da sarto, è diventata un laboratorio per la produzione di mascherine. Il direttore è un laico, Peppe Virzì, padre di due figli. Con gli animatori, già dopo la prima chiusura, nei primi di marzo, aveva organizzato un servizio telefonico per gli anziani che non potevano andare a fare la spesa o ritirare i farmaci. Con l’aggravarsi dell’emergenza, l’oratorio è diventato, quasi naturalmente, il cuore solidale della città e ha dovuto far fronte a sempre maggiori richieste, a necessità nuove e urgenti. "Quando un amico mi ha chiamato dicendo che alcuni suoi amici immigrati volevano dare una mano – spiega Virzì – non ci ho pensato due volte". I primi a bussare alla porta dell’oratorio sono stati Embalo, Ceesay e Omar. Oggi gli immigrati africani 'in servizio', a turno, sono 18, tutti residenti in città da anni. La spiegazione di Ceesay è nitida e lineare, quasi commovente. "Siamo rimasti senza lavoro e passavamo le giornate sul divano, a non far nulla. Quando si è tutti sulla stessa barca bisogna remare insieme per superare la bufera e noi non volevamo restare a guardare", spiega il giovane africano, esibendo un sorriso gentile e profondo con cui trasforma uno slogan in una metafora drammaticamente evidente della sua storia di immigrato appartenente al 'mondo dei salvati', arrivato in Italia su un barcone.
Al mattino, all’oratorio, la giornata inizia alle 9: Tomas, della Costa d’Avorio, puntualmente, varca la soglia. Prima della pandemia, effettuava servizi transfert. Ha messo a disposizione il suo pulmino ed è lui a fare la consegna dei pacchi spesa, mentre gli altri si preparano per le commissioni agli anziani. "Possiamo fare la fila al supermercato fino a stasera. Non abbiamo soldi, ma abbiamo tempo e quello mettiamo a disposizione" è la riflessione a tutto tondo di Ceesay. Il loro pensiero corre ai genitori, ai fratelli lasciati in Africa; suscitano ricordi, forse nostalgia. "Abbiamo paura per le nostre famiglie lontane – aggiunge Omar – ma possiamo dare una mano qui". Lamin, del Gambia, l’ultimo arrivato del gruppo, aiuto cuoco, a Trapani da soli 3 anni, continua: "Qui siamo stati accolti e qui viviamo, anche noi ragazzi africani vogliamo dare il nostro contributo Ora è questa la nostra casa, qui è la nostra famiglia". Nel corridoio sono già pronte, per essere distribuite, le buste con cibo della rete solidale di 'Mangiamone tutti', un comitato spontaneo per assistere liberi professionisti e i lavoratori autonomi rimasti senza reddito. Il direttore del teatro lirico della città, Giovanni De Santis, pianifica gli aiuti, utilizzando il modello organizzativo tipico delle produzioni d’opera, potendo contare su imprenditori, comunicatori e perfino un’intera squadra di pallamano. Centro operativo sempre l’oratorio. "Ci vuole tatto e discrezione – spiega Virzì –. Qualche giorno fa abbiamo aiutato un dentista. Lui per ricambiare ci ha regalato tutte le mascherine del suo studio. A voi servono di più", ha spiegato. (Lilli Genco - Avvenire)
Mascherine per la cittadinanza: l’iniziativa del giovane ivoriano Bakary
Massa Carrara - "In un momento tanto critico, in cui il virus ci ha inchiodato tutti sulla stessa barca, la solidarietà non conosce confini di etnia e di fede". Con queste parole si può riassumere l’iniziativa che Bakary Oularè, giovane sarto Ivoriano, ha lanciato sui social network: produrre mascherine per le persone che ne hanno bisogno!
Ospite dell’Associazione Casa di Betania O.n.l.u.s di Carrara, Bakary non si è piegato sotto il peso della pandemia, ma ha preso in mano ago e filo ed ha deciso di mettere a disposizione degli altri i propri talenti: "l’Italia mi ha ospitato quando avevo bisogno. Per questo, in un momento tanto tribolato, voglio fare anch’io la mia parte!". Venuti a conoscenza del progetto di Oularè, gli operatori di Casa Betania si sono attivati per fargli avere tutto l’occorrente: "Grazie al nostro tecnico della sicurezza abbiamo reperito le informazioni necessarie per confezionare mascherine idonee, da produrre in poco tempo. Bakary le ha realizzate per noi, aggiungendovi il suo tocco d’artista!". Un sentito ringraziamento per il gesto di generosità giunge da Ivonne Tonarelli, direttrice dell’Ufficio Migrantes della diocesi di Massa Carrara-Pontremoli, che si è detta orgogliosa dal grande cuore del giovane ivoriano: " È bello constatare che, anche in un momento tanto travagliato, Bakary non abbia perso l’altruismo e la generosità che lo hanno sempre contraddistinto. Gli auguro di continuare su questa strada, perché sta andando nella direzione giusta!". (E.G.)
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Produrre mascherine per le persone che ne hanno bisogno: l’impegno del sarto ivoriano Bakary Oularè
E.Guenzi
Dal ghetto alla prima linea
Foggia - Dai ghetti degli immigrati nel Foggiano alla prima linea del Covid-19, le Rsa del Nord, dove l’epidemia sta facendo strage. È la scelta del dottor Antonio Palieri, 64 anni, gastroenterologo e dirigente medico della Asl di Foggia. Lunedì 6 aprile è stato per l’ultima volta nel ghetto di “ Tre Titoli” a Cerignola a visitare i braccianti africani che vivono in casolari e baracche. Emarginati e sfruttati. Volontario tra gli immigrati, così come lo fa nei pellegrinaggi a Lourdes dell’Unitalsi. Mercoledì 8 è partito per la Liguria, medico volontario, in risposta al bando della Protezione civile. Fino all’ultimo non lo ha fatto sapere a nessuno. Discreto come sempre. «Faccio il medico, lo facevo giù e ora lo faccio qua. Lavorare qui è molto bello», è la sua semplice spiegazione, rispondendoci al telefono dal suo nuovo “fronte”. «Non faccio niente di speciale. È nella mia scelta di vita – aggiunge –. Il lavoro di medico l’ho sempre preso come una missione. Sarei voluto andare in Africa ma poi l’Africa è arrivata nella mia terra». Così da anni, con la Caritas diocesana di Cerignola-Ascoli Satriano, segue i braccianti dei ghetti assieme ad altri medici volontari. Tre volte a settimana, prima visitando in un container, dall’anno scorso a “Casa Bakhita”, la grande struttura realizzata dalla Diocesi a “ Tre Titoli”, della quale è il direttore. Si occupa di patologie legate alle condizioni di vita e lavorative. «Non arrivano malati in Italia, si ammalano qui – ci aveva spiegato in uno dei nostri incontri a “ Tre Titoli” –. D’inverno malattie respiratorie, d’estate muscolari e articolari. Per il lavoro piegati in due a raccogliere per dieci ore pomodori o asparagi, o a raccogliere in alto l’uva». Ma quando è stato fatto il bando per medici volontari non ci ha pensato due volte. «Mi è sembrato doveroso farlo. Ne ho parlato con la mia famiglia e ho avuto la loro autorizzazione. E ne ho parlato anche col vescovo, monsignor Luigi Renna. Ho fatto il tampone prima di partire, ed era negativo. Spero che lo sia anche al ritorno... ». Anche perchè è finito proprio nel cuore dell’epidemia. Ora è a Genova, assegnato alla Asl 3 e si deve occupare delle Rsa che ospitano anziani. «La situazioni negli ospedali è buona, nelle Rsa no. Sono le situazioni più preoccupanti. Le persone anziane dovevano essere cautelate prima, le strutture andavano chiuse. Perchè una volta che il virus entra fa una strage. Ora faremo i tamponi a tutti, ospiti e operatori». Drammi e inaspettati “miracoli”. Come un signore di 107 anni che «fortunatamente sta bene». E i ragazzi africani dei ghetti? Non sono rimasti soli. «Ho lasciato tutto sotto controllo. Le visite continuano come prima. Stiamo assicurando gli stessi servizi, che oggi sono ancor più necessari ». Fino ad ora non ci sono casi di contagio. «Sarebbe stato drammatico, ma per ora sta andando bene. Non credo sia una questione genetica. Forse perchè vivono molto isolati e tra di loro, con pochi contatti con l’esterno. In questo periodo ancora di più. L’agricoltura è ferma. Infatti lavorano meno, non li chiamano ». Una situazione che aggrava la condizione di emarginazione. Per questo, aggiunge non dimenticando il suo ruolo di “direttore”, «la Caritas è presente nei ghetti di Borgo Tre Titoli, Contrada Ragucci, Pozzo Terraneo, Contrada Ripalta e Borgo Tressanti. Sono circa settecento ragazzi immigrati che non sono stati abbandonati ». I volontari sono sempre in campo. Nei ghetti e “in prestito” anche su altri campi. Da dove il dottore ci lascia con una sola richiesta, la stessa che ha fatto prima di partire. «Pregate per me». (Antonio Maria Mira - Avvenire)
Tarquinio: saggio regolarizzare chi vive e lavora qui
Milano - Ci siamo ripetuti sino alla nausea che “tutto cambierà” a causa della pandemia. E che la sfida, d’ora in poi, è quella di cambiare le cose in meglio: più salute, più giustizia, più rispetto. Sì, più rispetto: per tutti e tra tutti i popoli, tra di noi e nel nostro rapporto con la natura che ci ha drammaticamente ricordato di essere, alla fine e per principio, più forte di qualunque tecnologia, umana e disumana. Non tutto è fermo, ma basta dare una rapida occhiata allo stato delle nazioni e del mondo per capire che purtroppo non ci stiamo muovendo nella giusta direzione.
C’è ancora modo e tempo (non molto, però) per correggerci. E c’è qualcosa, qui in Italia, che si può mettere in cantiere subito e non richiede investimenti miliardari, ma solo onesta volontà di sgombrare un bel po’ di ombre dalla vita e dalle attività del Paese.
Si tratta di riconoscere che persone e lavoratori di origine straniera ora, appunto, ridotti legalmente a ombre hanno invece volto e corpo, chiari diritti e chiari doveri. Si tratta, insomma, di dare regole e status, controlli e garanzie a chi vive e lavora nell’irregolarità. Parliamo di circa 600mila donne e uomini (metto le donne per prime non solo e non tanto per cortesia, ma perché sono la maggioranza delle persone di cui stiamo parlando).
Qualcuno già parla di “sanatoria”, magari storcendo naso e bocca come se si stesse confezionando un regalo per personaggi che non lo meritano. E c’è chi si è premurato di far partire il solito ritornello contro il “clandestino” che ruberebbe il lavoro agli italiani e va sbattuto fuori dal Bel Paese. Ma vale la pena di ragionare appena un po’ e di aprire gli occhi sulla realtà italiana degli “irregolari” di origine straniera, esercizio virtuoso e soprattutto utile, al quale più d’uno – con particolare efficacia Andrea Riccardi – ha invitato nella settimana che ci sta alle spalle. Se a ragionare si prova per davvero, se si mettono da parte slogan e invettive d’occasione, si arriva presto alla conclusione che siamo davanti a un passaggio necessario.
Stiamo parlando, infatti, di braccianti agricoli necessari ai nostri campi, di autotrasportatori che portano le mostre merci, di muratori e manovali impegnati nei nostri cantieri. Stiamo parlando di un vero esercito di badanti e collaboratrici familiari, donne che abitano e servono l’intimità delle nostre famiglie. Sul serio qualcuno pensa che per ripartire col piede giusto dopo il blocco da coronavirus si possano lasciare tutte queste persone e la loro opera nel “nero”, ai margini e fuori dalle regole e dalle tutele – anche sanitarie, ovvio – poste a generale presidio? Per davvero qualcuno ritiene che di loro si possa fare a meno?
C’è solo da riconoscere una realtà. C’è da curare una ferita aperta. E, sì, c’è da far più sano il domani di tutti. (Marco Tarquinio - Avvenire)
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