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La pazienza di Dio

28 Settembre 2020 - Città del Vaticano - Una doppia domanda è presente nella parabola contenuta nel brano di Matteo letto ieri; Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme a insegnare ed è attaccato dai capi religiosi che gli chiedono con quale autorità fa quelle affermazioni. La sua risposta – la parabola dei due figli invitati dal padre a lavorare nella vigna – chiama sacerdoti e anziani del popolo a prendere posizione, a dare un giudizio. Conosciamo le risposte dei figli: “non ne ho voglia” il primo, ma poi andrà; “si signore”, e invece eviterà di entrare nella vigna, il secondo. E conosciamo anche la risposta che sacerdoti e anziani danno alla domanda di Gesù: chi ha compiuto la volontà del padre? Il primo. È un modo per sottolineare l’obbedienza al Padre, dunque a Dio, che si esprime nella disponibilità ad aprire i nostri cuori, perché nel nostro rapporto con il Signore, diceva Benedetto XVI, “non contano le parole, ma l’agire, le azioni di conversione e di fede”. No dunque a una fede tiepida, a una religiosità di routine, che non inquieta più l’uomo. L’obbedienza, afferma Papa Francesco all’Angelus, “non consiste nel dire ‘sì’ o ‘no’, ma nell’agire, nel coltivare la vigna, nel realizzare il Regno di Dio. Con questo semplice esempio, Gesù vuole superare una religione intesa solo come pratica esteriore e abitudinaria, che non incide sulla vita e sugli atteggiamenti delle persone. Una religiosità superficiale, soltanto rituale, nel brutto senso della parola. Gli esponenti di questa religiosità “di facciata”, che Gesù disapprova, erano in quel tempo i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo”. Le parole che troviamo nel brano di Matteo vanno lette con discernimento, e non devono “indurre a pensare che fanno bene quanti non seguono i comandamenti di Dio e la morale, e dicono: tanto, quelli che vanno in Chiesa sono peggio di noi. Gesù non addita i pubblicani e le prostitute come modelli di vita, ma come ‘privilegiati della Grazia’, che Dio offre a chiunque si apre e si converte a lui. Infatti, queste persone, ascoltando la sua predicazione, si sono pentite e hanno cambiato vita. Pensiamo a Matteo, ad esempio, San Matteo, che era un pubblicano, un traditore alla sua patria”. Matteo, nel suo Vangelo, utilizza due verbi per indicare il cambiamento avvenuto nel primo figlio: pentire e andare, “si pentì e vi andò”. È l’immagine della chiesa secondo Francesco dove peccato e conversione hanno cittadinanza. Come il figlio che, pentendosi della prima risposta, vede diversamente le cose: non è più il padrone che chiama a lavorare, ma il padre che invita a collaborare per portare frutti. Così nella parabola la figura migliore la fa il primo fratello, afferma ancora Papa Francesco nelle parole che precedono la preghiera mariana: non perché ha detto no a suo padre, ma perché dopo il no si è convertito al sì”. Il Signore “anche se siamo uomini di poca fede e peccatori, ci salverà”. È l’immagine della barca di Pietro sballottata dalle onde, della zizzania nel campo del Signore, dei pesci cattivi nella rete di Pietro. Peccatori, dunque. Ma chi sa di essere un peccatore, sa anche che Dio lo ama comunque. Ricordate: il Signore non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. La pazienza di Dio che non si stanca, “non desiste dopo il nostro no; ci lascia liberi anche di allontanarci da lui e di sbagliare”. È meraviglioso pensare alla pazienza di Dio, dice Francesco: il Signore ci aspetta sempre; sempre accanto a noi per aiutarci; ma rispetta la nostra libertà. E attende trepidante il nostro “sì”, per accoglierci nuovamente tra le sue braccia paterne e colmarci della sua misericordia senza limiti. La fede in Dio chiede di rinnovare ogni giorno la scelta del bene rispetto al male, la scelta della verità rispetto alla menzogna, la scelta dell’amore del prossimo rispetto all’egoismo”. La conversione, cambiare il cuore, ha affermato ancora Francesco, “è un processo di purificazione dalle incrostazioni morali; per questo non è mai indolore. Il cammino della conversione passa sempre attraverso la croce”. E il Vangelo di oggi “chiama in causa il modo di vivere la vita cristiana, che non è fatta di sogni o di belle aspirazioni, ma di impegni concreti, per aprirci sempre più alla volontà di Dio e all’amore verso i fratelli”. (Fabio Zavattaro)  

La Chiesa del XX secolo attenta alla mobilità umana.

25 Settembre 2020 - La condizione dei “migranti” - cioè delle persone che, per tutta la vita o per una parte di essa, non hanno una dimora stabile - è ben presente nella Sacra Scrittura ed anzi ha rappresentato, se così si può dire, la “normalità” in diverse fasi della storia del popolo ebraico. Nell’Antico Testamento questa condizione può essere considerata come una condanna ma anche avere il valore di una missione o di un incarico. Nel Nuovo Testamento la vita pubblica del Signore e l’invio dei discepoli per l’Annuncio ci vengono descritti come la scelta di una condizione mobile. Tuttavia, è solo in tempi recenti che la Chiesa ha iniziato ad avere un’attenzione pastorale specifica per le persone che si trovano in questa particolare condizione. Per secoli l’atteggiamento nei loro confronti è consistito da un lato in una generica attività caritativa – e in una certa misura anche pastorale – verso chi non aveva un domicilio fisso a causa di circostanze sfortunate e indipendenti dalla sua volontà, e dall’altro lato in una diffidenza profonda e radicata verso chi era sospettato di aver scelto volontariamente uno stile di vita ritenuto pericoloso dal punto di vista morale. Una vera e propria cura pastorale specifica e meditata nei confronti di famiglie e persone “in movimento” si è sviluppata solo dopo gli sconvolgimenti della seconda metà dell’800, quando l’Europa cristiana subì un’emorragia di milioni di lavoratori diretti verso le Americhe in cerca di fortuna, e più ancora dopo quelli della prima metà del ‘900, quando due conflitti bellici con dimensioni e caratteristiche del tutto nuove crearono masse di profughi e sfollati mai viste prima. Il primo documento magisteriale sulla cura pastorale degli emigranti – ma oggi useremmo probabilmente il termine “migranti” – risale solo al 1952: si tratta della Costituzione apostolica Exsul familia, emanata il 1° agosto di quell’anno da papa Pio XII. Il titolo del documento fa riferimento alla fuga della Sacra famiglia in Egitto, che è diventata l’emblema della Fondazione Migrantes, ma è anche un invito a non considerare le persone mobili come soggetti isolati, che hanno perso tutti i loro legami, come purtroppo accadeva spesso ai profughi ed anche agli emigranti. La Chiesa ha sempre voluto sottolineare come la sollecitudine verso queste persone debba essere estesa ai loro legami familiari, visti anch’essi come un bene prezioso da tutelare, sia nel caso di famiglie che si muovono assieme, sia in quello dove la mobilità forzata o volontaria di alcuni componenti ne causa la separazione fisica dal resto del nucleo. Questo è stato anche un impegno primario per luminose figure di pastori come il beato Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, che hanno dovuto affrontare il problema delle grandi migrazioni transoceaniche partite dall’Italia nei decenni successivi all’Unità. Si tratta di eventi che hanno toccato in particolare le nostre terre del Nord-Est italiano (Veneto, Friuli e Trentino), causando gravi sofferenze a tante persone. L’emigrazione, la condizione mobile e lo “spaesamento” da essa causato fanno quindi parte della nostra storia. Anche per questo motivo oggi non possiamo distogliere la nostra attenzione dai nuovi “emigranti” o “migranti” che hanno raggiunto la nostra terra, divenuta meta di flussi di immigrazione. Questo è un dovere ancora maggiore nei mesi che stiamo vivendo, segnati da un’altra forma di “spaesamento”, dovuta al radicale cambiamento di abitudini e stili di vita in seguito all’epidemia causata dal Covid-19. Tante persone attorno a noi, provenienti da paesi diversi e lontani, ci domandano di essere considerati nostri fratelli nella comune condizione umana e, se condividono la nostra fede, nostri fratelli in Gesù Cristo. Giornate come quella di domenica 27 settembre ci devono servire per imparare a conoscerli meglio e per riflettere su come corrispondere a questa loro legittima richiesta. Don Mirko Dalla Torre (Collaboratore dell’Ufficio diocesano Migrantes Vittorio Veneto)    

Il sogno di fratel Luciano: aiutare i rom

22 Settembre 2020 - Roma - Vedere ogni mattina uscire dal quartiere tutti i bambini con lo zaino sulle spalle, tenendosi per mano, per andare a scuola ed imparare ad essere uomini responsabili e liberi: questo è stato il sogno di fratel Luciano Levri, che per vent’anni ha coordinato la missione marianista a Lezha (Alessio), in Albania, per il riscatto della popolazione rom. Un sogno per realizzare il quale il missionario marianista ha lavorato instancabilmente, giorno dopo giorno, dialogando, tessendo relazioni e smantellando pregiudizi. Quest’anno, i bambini rom di Lezha che si sono messi lo zainetto in spalla per andare alla scuola statale sono stati 190. Dai più piccoli, che frequentano la prima ai ragazzi che affrontano la nona classe. Domenica 13 settembre, a poche ore dal tanto atteso suono della campanella, quando le cartelle erano già pronte vicino alla porta di casa, anche fratel Luciano, del tutto inaspettatamente, ha preparato il suo zaino. Da alcuni mesi si trovava a Roma per una cura cardiaca. L’ultimo improvviso attacco, domenica scorsa, gli è stato fatale. Nato nell’ottobre 1944 a Lomaso, in provincia di Trento, Luciano si diploma al liceo classico e diventa laico marianista, abbracciando la vocazione propria di quest’ordine, il missionarismo culturale. Si laurea in filosofia alla Cattolica di Milano nel 1973 e per qualche tempo insegna a Campobasso e nel collegio marianista di Pallanza, finché nel 1974 è chiamato in Calabria, a Condofuri, a guidare la missione marianista. Sono anni molto intensi, durante i quali fratel Luciano fonda un centro giovanile attraverso il quale promuove la difesa dei diritti delle persone. Il suo parlare semplice e schietto, senza paura, e il coraggio di denunciare apertamente ciò che non va non piacciono. La risposta dei cosiddetti “poteri forti” non si lascia attendere. Nel 1991 una bomba viene fatta esplodere davanti al centro giovanile gestito dai marinisti. Fratel Luciano lascia nel 1995 la Calabria. “Ero come uno straccio che non asciuga più - raccontava in un documentario realizzato nel 2016 dal Centro missionario di Trento –. I miei superiori mi hanno rimandato a insegnare in un collegio. E qui c’è stato l’incontro con don Simone Jubali (1927-2011), prete albanese che ha fatto 27 anni di carcere duro, rinchiuso nelle prigioni più pesanti perché si rifiutava di obbedire al regime comunista”. Don Jumali propone ai marinisti di andare a Lezhe, per fondare una comunità in Albania. Fratel Luciano prepara ancora una volta la sua valigia e parte. La nuova comunità di Lezha viene fondata nel 2000. “Era una realtà che aveva bisogno di essere accompagnata a crescere – raccontava -. Abbiamo dato vita a una tipografia per favorire la diffusione della cultura e al centro giovanile S. Maria, per essere accanto alle giovani generazioni. All’inizio non è stato facile c’è stato il periodo della diffidenza e delle minacce, ma poi, col tempo, si è instaurato un rispetto reciproco, mai sfociato, però, nell’amicizia. È molto difficile che un rom e un bianco facciano qualcosa insieme: rimane questo retaggio di emarginazione e frustrazione per quello che generazioni di rom hanno subito da parte dei bianchi”. Nel 2004, a causa di una grande alluvione, il quartiere di Skenderberg, abitato principalmente da rom ed ashkali (o “evgjit”, come vengono chiamati in Albania) viene sommerso dall’acqua. La Caritas locale chiede ai marinisti di preparare i pasti per le famiglie rom che abitavano nelle baracche allagate e che erano attendate in misere tendopoli, montante su cumuli di immondizia. Tra un panino e un piatto di minestra calda, fratel Luciano conosce così quella che sarebbe diventata la sua nuova famiglia. E inizia a coltivare un sogno. “Prima abbiamo iniziato con corsi per insegnare ai ragazzi di 13-16 anni, a leggere e scrivere. Poi ci siamo chiesti: perché non iniziare quando l’età è giusta? Di lì a pochi mesi 24 bambini rom, tutti con un fiore di plastica in mano, sulla piazza della scuola, stretti l’uno all’altro perché avevano paura, hanno iniziato a frequentare la scuola pubblica”. “È possibile cambiare – spiegava fratel Luciano – ma a due condizioni: se noi diamo loro un sogno e se non li lasciamo soli. In tutto questo è importante la relazione, il conoscersi, il fatto che loro sappiano qualcosa di te, non solo che tu sappia qualcosa di loro. Perché Dio non ama il gruppo, la razza, i rom; Dio ama Maria, Keli, Jilir e per ognuno ha una carezza, una lacrima. Occorre arrivare al volto delle persone. Questo significa conoscerne il nome, la situazione, la famiglia, ma anche farsi conoscere. La misericordia se non è l’incontro di due volti, diventa sempre un dare senza ricevere niente. Credo che anche la carità, se non è riempita dalla relazione, è un togliersi di dosso la persona, è un dare senza coinvolgersi, senza farsi cambiare la vita. È lì che la carità porta frutto, quando mi cambia la vita e mi trasforma in una persona col cuore grande che si apre agli altri. La solidarietà è una relazione fatta dal dono. Donare è un’azione eversiva, rivoluzionaria, perché non aspetta il contraccambio. Il dono è affidare nelle mani dell’altro un bene per il quale io non voglio essere ricambiato. La solidarietà è fatta di relazione e di dono”. Il cordoglio per la morte di fratel Luciano ha superato in questi giorni le frontiere nazionali, unendo nel suo ricordo tante persone dal Trentino alla Calabria e all’Albania, fino ad arrivare a Roma. Gente di ogni estrazione culturale e religiosa, cristiani e musulmani, “gage” (bianchi) e rom. Tra i tanti i messaggi postati in questi giorni sulla pagina Facebook di fratel Luciano, anche quello di Fabio Colagrande, giornalista di Radio Vaticana: “Ci ha lasciato uno dei migliori uomini di Chiesa che ho conosciuto nella mia vita: fratel Luciano Levri, marianista e missionario in Albania, a Lezhe, dove in questi anni ha realizzato, fra le altre cose, un progetto senza precedenti per l’integrazione dei bambini rom. Se esiste davvero il paradiso, lui c’è andato come un razzo. Un vero santo. Ciao Luciano, grazie di tutto e proteggici da lassù”. (Irene Argentiero)

I sacrifici nascosti

22 Settembre 2020 - Conosciamo quali difficoltà incontrano le famiglie, specie le più numerose, i cui sacrifici sono spesso nascosti e talora anche non stimati. Sappiamo come lo spirito del mondo, avvalendosi di sempre nuovi allettamenti, cerchi di insinuarsi nel santo istituto familiare, voluto da Dio a custodia e salvaguardia della dignità dell’uomo, dal primo sbocciare della vita alla giovinezza tumultuosa; e dall’età matura alla più alta anzianità. (Dal Messaggio del Santo Padre Giovanni XXIII alle famiglie cristiane, in occasione della festività della Sacra Famiglia, domenica 10 gennaio 1960). In occasione della festa della Sacra Famiglia, che Giovanni XXIII ha posto a ridosso dell’Epifania e quindi all’inizio dell’anno civile, il Papa invoca su tutte le famiglie l’assistenza di Gesù, Maria e Giuseppe. Dalle sue parole si evince che il richiamo alla famiglia di Nazareth ha un peso sostanziale, non è affidato ad una semplice devozione. È nel nascondimento dei numerosi anni presso i suoi genitori che Gesù “ha consacrato con virtù ineffabili la vita domestica”, virtù come dolcezza, modestia, mansuetudine con le quali esercitare le quattro caratteristiche del matrimonio cristiano: fedeltà, castità, mutuo amore e timor di Dio. La benedizione del Papa è un accompagnamento fervente, consapevole della complessità in cui le famiglie sono chiamate a vivere. Il riferimento è alle famiglie numerose, verso le quali Giovanni XXIII ha già mostrato un’attenzione particolare, forse dovuta anche alla sua diretta esperienza. Il Papa si sofferma sui sacrifici che non vengono sufficientemente considerati, che restano nascosti. È importante questa valorizzazione delle fatiche quotidiane, di quel surplus di gratuità che in famiglia si consuma spesso senza un riconoscimento, appunto, ma con quella costanza che edifica una porzione di Regno già in questa vita. Da queste parole traggono incoraggiamento tutti quei genitori che hanno lasciato aperta la porta all’abbondanza della vita, quelle coppie – negli anni sessanta sempre meno numerose – che hanno dato alla luce quattro o più figli e che si trovano a fronteggiare problemi spesso molto onerosi. Giovanni XXIII infonde coraggio ed esplicita la solidarietà che sia la Chiesa, sia la società sono tenute ad offrire a coloro che hanno scommesso sulla vita e la vita in abbondanza, ma non possono essere lasciati soli. L’istituto famigliare – dice il Papa – è custodia e salvaguardia della dignità dell’uomo ma è “tentato” di cedere agli allettamenti dello spirito del mondo. Pare di vedere in controluce le lusinghe dell’egoismo e del consumismo che inizia a fare breccia nel tessuto delle società occidentali – di certo in quella italiana. Parole semplici per esprimere concetti che saranno poi ripresi ampiamente dai suoi successori, fino alla denuncia reiterata da Papa Francesco rispetto alla “cultura dello scarto”. Un altro tassello nell’accudimento papale delle famiglie cristiane. Un’altra tappa di avvicinamento verso quella che sarà la rivoluzionaria svolta del Concilio Vaticano II. Fortemente voluta da Papa Roncalli, l’assise conciliare segnerà anche in modo determinante la visione della famiglia nel contesto di un più organico discorso sulla Chiesa (Giovanni M. Capetta – Sir)  

Migrantes Catania: la comunità delle Mauritius e il Beato Padre Laval

21 Settembre 2020 - Catania - Sabato 19 settembre, all’oratorio salesiano San Filippo Neri di Catania, la comunità mauriziana etnea ha festeggiato con una solenne celebrazione eucaristica la memoria liturgica del Beato Jacques Dèsirè Laval, missionario e apostolo della carità presso le isole di Mauritius. Un appuntamento molto sentito che ogni anno rinnova la devozione e la gratitudine per il Beato francese noto come l'Apostolo dei neri, perché dedicò la vita all'evangelizzazione degli indigeni. La festa è stata organizzata dal diacono don Giuseppe Cannizzo, Direttore dell'Ufficio Pastorale Migrantes della diocesi di Catania, in collaborazione con Milinte Rainald, presidente dell’Association des Immigrats Mauriciens della provincia di Catania. La celebrazione eucaristica si è svolta nel cortile dell'oratorio nel rispetto delle norme anti Covid-19 ed è stata presieduta da padre Antonio De Maria, rettore della Chiesa monumentale di San Nicola La Rena. Sono intervenuti il direttore dell'Ufficio Migrantes,  che ha portato i saluti dell'arcivescovo mons. Salvatore Gristina, e il presidente Milinte. Alla celebrazione erano presenti fedeli italiani e mauriziani cristiani e indù. Padre Laval è stato beatificato nel 1979 da Papa Giovanni Paolo II. Sacerdote francese della Congregazione dello Spirito Santo, dopo alcuni anni di esercizio della professione medica a Port-Louis nell’isola Mauritius nell’Oceano Indiano, si fece missionario e condusse i neri, da poco liberati dalla schiavitù, alla libertà dei figli di Dio. Filippo Cannizzo          

Una Chiesa sempre in uscita

21 Settembre 2020 - Città del Vaticano - Quanto è ingiusto il padrone che chiama, in ore diverse, operai a lavorare alla sua vigna e poi, al termine della giornata, da a tutti lo stesso compenso, sia a coloro che hanno lavorato una sola ora, sia a quanti sono stati assunti alla prima chiamata, lavorando così dodici ore. È per lo meno inconcepibile, per noi, un fatto del genere; nel caso accadesse veramente in una azienda, o in una attività lavorativa, non mancherebbero proteste e disordini. È la parabola di questa domenica che troviamo in Matteo. Nel brano evangelico dei lavoratori chiamati a giornata, ci troviamo a condividere la protesta di quelli che sono stati ingaggiati al mattino presto dal padrone della vigna, i quali ricevuto per ultimi un denaro come tutti gli altri operai si lamentano: “questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Si affacciano allora due domande: chi darebbe a un operaio più di quanto gli spetta per il compito assolto? Perché nella protesta i lavoratori chiedono non un aumento del loro compenso dettato dalle maggiori ore lavorate, ma la diminuzione dalla paga a coloro che hanno lavorato di meno? Qui non si tratta di riflettere sul giusto salario, perché, come in ogni parabola, la logica sottesa è un’altra. Possiamo parlare di ingiustizia del padrone? Un aiuto ci viene dalla prima lettura, l’invito a cercare il Signore che risuona all’inizio del testo di Isaia, un Dio che rivela la sua diversità: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”. La presunta ingiustizia del padrone serve, dunque, a provocare chi ascolta la parabola; a chi lo cerca Gesù propone di abbandonare tutto, anche l’ovvietà dei propri pensieri, quel ragionare secondo il mondo. La giustizia di Dio va oltre quella degli uomini: gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi. Solo così possiamo comprendere davvero il senso profondo di questa parabola: Dio vuole chiamare tutti a lavorare per il suo Regno, e la ricompensa è la stessa per tutti, cioè la salvezza, la vita eterna. Papa Francesco, all’Angelus, per far comprendere meglio la parabola, utilizza questa affermazione: “chi è il primo santo canonizzato nella Chiesa? Il buon ladrone, che ha ‘rubato’ il paradiso nell’ultimo momento della sua vita”. Quali parole migliori per ricordare che l’agire di Dio “è più che giusto, nel senso che va oltre la giustizia e si manifesta nella grazia”. Perché, come diceva spiegando questa parabola nel 2017, nella chiesa di Cristo “non ci sono disoccupati e tutti sono chiamati a fare la loro parte”. Proviamo a cogliere altre due sottolineature che papa Francesco propone nelle parole che precedono la preghiera mariana. La prima è la chiamata: in cinque orari diversi il padrone ha mandato operai a lavorare nella sua vigna. “Quel padrone rappresenta Dio – afferma papa Francesco – che chiama tutti e chiama sempre, a qualsiasi ora. Dio agisce così anche oggi: continua a chiamare chiunque, a qualsiasi ora, per invitare a lavorare nel suo Regno. Questo è lo stile di Dio, che a nostra volta siamo chiamati a recepire e imitare”. È un Dio che “non sta rinchiuso nel suo mondo”, ma è “sempre in uscita, cercando noi”, perché vuole “che nessuno sia escluso dal suo disegno d’amore”. È la Chiesa in uscita cara a Francesco: comunità chiamate a “uscire dai vari tipi di confini”, per aprirsi a “orizzonti di vita che offrano speranza a quanti stazionano nelle periferie esistenziali e non hanno ancora sperimentato, o hanno smarrito, la forza e la luce dell’incontro con Cristo”. Una Chiesa sempre in uscita, afferma ancora Francesco, perché “quando la Chiesa non è in uscita, si ammala di tanti mali che abbiamo nella Chiesa [...] È vero che quando uno esce c’è il pericolo di un incidente. Ma è meglio una Chiesa incidentata, per uscire, per annunziare il Vangelo, che una Chiesa ammalata da chiusura”. La seconda sottolineatura, la ricompensa. Nella parabola, il padrone paga tutti allo stesso modo, sia chi ha lavorato tutto il giorno, che chi ha lavorato solo un’ora. Dio, afferma papa Francesco, “si comporta così: non guarda al tempo e ai risultati, ma alla disponibilità e alla generosità con cui ci mettiamo al suo servizio”. Fabio Zavattaro

Migrantes: il cordoglio e la vicinanza alla diocesi di Como per la morte di don Malgesini

15 Settembre 2020 - Roma - "La morte di don Malgesini, prete accanto agli ultimi, ci addolora e siamo vicini alla sua diocesi e al vescovo, mons. Oscar Cantoni". Lo scrive in una nota la Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Cei. La figura di don Malgesini rappresenta, come ha detto mons. Cantoni ,"il santo della porta accanto", al servizio dei più deboli ed emarginati. "Ha lavorato e si è prodigato - aggiunge la nota - con opere di solidarietà mettendo al centro il primato e la dignità della persona con attività di accoglienza di migranti e senza fissa dimora. Preghiamo il Signore per questo sacerdote che ha dato la vita per il bene del prossimo e che la sua testimonianza di vita non venga dimenticata".

Pace, unità, concordia

15 Settembre 2020 -  Roma - Infine alla stessa concordia alla quale abbiamo invitato i popoli, i loro capi, le classi sociali, invitiamo pure, con animo paterno, tutte le famiglie, perché la cerchino e la consolidino. Se infatti non c’è pace, unità e concordia nelle famiglie, come potrà aversi nella società civile? (Giovanni XXIII, Lettera enciclica Ad Petri Cathedra, cap. II, 29 giugno 1959).   Nello stesso anno 1959, papa Giovanni scrive la sua prima enciclica che introduce con queste parole: “Questi tre beni - la verità, l’unità e la pace - da conseguire e promuovere secondo lo spirito della carità cristiana, formeranno l’argomento di questa Nostra prima enciclica, sembrandoCi che, nel momento presente, questo sia particolarmente richiesto dal Nostro apostolico mandato”. E in questo contesto, nel secondo capitolo dell’enciclica ecco il passo dedicato alla famiglia. Un convincimento forte che sia essa la cellula nevralgica della società civile e anche della Chiesa, il nucleo che per primo deve coltivare tutte le virtù necessarie per trovare la concordia nella verità. La pace deriva da questa ricerca che si opera nella carità. Un circolo virtuoso che, nel prosieguo del suo dire, il Papa affida in primo luogo agli sposi, uniti dal vincolo indissolubile e chiamati alla santità e poi singolarmente al padre, a cui chiede di precedere gli altri “non solo con l’autorità, ma anche con l’esempio di una vita integra”; alla madre, che guidi i figli insieme al marito “con fortezza e soavità”; infine ai figli a cui è chiesta obbedienza e capacità di saper amare i genitori e anche aiutarli con l’avanzare dell’età. Se manca concordia nelle famiglie non si può sperare che reggano “i fondamenti stessi della civile convivenza”. Le parole del Papa sono ancora esortazione perché le famiglie trovino al loro interno le risorse per una concordia che non viene da sé ma è frutto della libertà degli uomini e delle donne cristiane e dono dello Spirito Santo. In questa prima enciclica, non dedicata direttamente alla famiglia, sono gettati i semi di una riflessione che negli anni a seguire si amplia ed approfondisce molto. La famiglia non è solo soggetto a cui si chiede di vivere in un certo modo, ma anche oggetto di studio e di analisi delle sue caratteristiche nel tempo, della sua evoluzione o involuzione, delle risorse e delle difficoltà. Giovanni XXIII non dedicherà un documento squisitamente dedicato alla famiglia, ma – come vedremo – non mancherà occasione di confermare i suoi convincimenti sulla centralità del matrimonio per la vita del mondo e della Chiesa. È questa continuità nel magistero dei Papi che ci interpella ancora oggi e ci invita a mantenere uno sguardo privilegiato sulle nostre famiglie, cogliendone tutte le potenzialità e le stesse fragilità da affrontare con coraggio e determinazione. La vita pastorale delle nostre comunità sa valorizzare le energie sane che scaturiscono dalle famiglie? Nella loro quotidianità, nell'amore che circola fra i loro membri, nella capacità di fare rete fra loro e saper portare un contributo di pace a tutta la collettività, le nostre famiglie sono oggi protagoniste? Dare risposta o lasciarsi comunque interpellare da queste domande ci porta a proseguire il cammino seguendo le parole dei nostri pontefici. (Giovanni M. Capetta – Sir))

Mons. Cantoni: “profondo dolore e disorientamento” per la morte di don Malgesini

15 Settembre 2020 - Como - Il vescovo di Como Mons. Oscar Cantoni, recatosi a San Rocco appena appresa la notizia dell’uccisione di don Roberto Malgesini, esprime “profondo dolore e disorientamento per quanto accaduto”, ma anche “orgoglio verso questo nostro prete, che ha da sempre lavorato su campo fino a dare la sua vita per gli ultimi”. Il sacerdote, 51 anni, questa mattina, martedì 15 settembre, poco dopo le 7 è stato trovato privo di vita a San Rocco ucciso da un uomo che pare già essersi costituito alle forze dell’ordine, scrive il giornale diocesano “Il Settimanale: “sacerdote da sempre in prima linea accanto alle persone in difficoltà, schivo e defilato nello stile, non faceva mai mancare il suo sostegno a chi incontrava lungo la strada, costantemente e senza risparmio al servizio di ogni forma di fragilità umana”. Don Malgesini era nato a Morbegno nel 1969. Ordinato sacerdote nel 1998, era stato vicario prima a Gravedona e poi a Lipomo, dal 2008 era collaboratore della comunità pastorale Beato Scalabrini. Questa sera la Diocesi di Como si riunirà in preghiera in Cattedrale, alle ore 20.30, per la recita del Santo Rosario. Si pregherà per don Roberto Malgesini e anche per il suo assassino.  

Migrantes Roma: un osservatorio per i minori fragili

15 Settembre 2020 - Roma – Un Osservatorio per la tutela e il sostegno dei minori fragili è stato promosso a Roma dall’Ufficio Migrantes della diocesi insieme a “Dorean Dote” e Medicina Solidale”. L’Osservatorio è particolarmente attivo nelle periferie della città e nei campi rom. Durante il periodo della pandemia, ancora in corso, i promotori dell’Osservatorio sono stati particolarmente vicini alle famiglie più deboli con pacchi viveri e assistenza medica gratuita

Como: ucciso sacerdote impegnato nell’assistenza agli ultimi

15 Settembre 2020 - Como – Accoltellato e ucciso questa mattina a Como il sacerdote don Roberto Malgesini, conosciuto come il prete degli ultimi. L’aggressione è avvenuta intorno alle 7 di oggi in piazza san Rocco, vicino ala sua parrocchia. 51 anni, il sacerdote è stato trovato a terra, con ferite di arma da taglio, nella strada accanto alla chiesa. Poco distante gli uomini della polizia scientifica hanno ritrovato un coltello sporco di sangue, riferiscono le agenzie. Don Malgesini era impegnato nell'assistenza ai più bisognosi: portava la colazione ai senzatetto e ai migranti e assisteva tutti coloro che vivevano in situazioni di marginalità. Appena avuta la notizia è arrivato sul posto anche il vescovo di Como, Mons. Oscar Cantoni.  

Don Arjan Dodaj: arrivo su un barcone, poi cappellano degli albanesi e oggi vescovo

14 Settembre 2020 -

Roma - La notte del 15 settembre del 1993, a 16 anni, Arjan Dodaj lascia l’Albania su una barca affollata da tanti altri ragazzi come lui, in cerca di un futuro migliore in Italia. Esattamente 27 anni dopo essere salpato dal suo piccolo paese d’origine, Lac–Kurbin, il prossimo 15 settembre, quel giovane migrante, che nel nostro Paese ha incontrato la fede, verrà ordinato vescovo, dopo la nomina del 9 aprile scorso ad ausiliare di Tirana– Durazzo. 

"C’è una trama nella mia storia guidata dal Signore – dice con emozione –. Attraversando l’Adriatico, subito dopo la caduta del regime comunista, mi resi conto che stavo portando con me la mia vecchia vita ma che, contemporaneamente, tutto stava cambiando". Giunto in Italia, don Arjan si stabilisce a Cuneo dove fa il saldatore e "tanti altri lavori nel campo dell’edilizia" e dove incontra, partecipando ad un gruppo di preghiera, la Comunità Casa di Maria, che "mi ha fatto sentire realmente a casa". Così il futuro vescovo si avvicina alla fede cristiana, "i cui semi erano stati instillati in me da mia nonna, mentre i miei genitori subivano totalmente il regime ateo del comunismo», spiega.

Pochi mesi dopo la sua sistemazione nella provincia cuneese, il 30 ottobre del 1994, Dodaj riceve i sacramenti dell’iniziazione cristiana; quindi, maturata la vocazione sacerdotale, nel 1997 si trasferisce a Roma per la formazione e nel 2003 è ordinato sacerdote da Giovanni Paolo II per la Fraternità dei Figli della Croce. Dapprima assegnato come vicario parrocchiale alla comunità di San Domenico di Guzman, a Tor San Giovanni, don Dodaj nel 2004 diventa cappellano della comunità albanese a Roma e dall’anno seguente viene trasferito nella parrocchia di San Raffaele Arcangelo, dove "ha curato la pastorale dei giovani, lasciando un segno profondo con la sua capacità di essere un vero educatore alla fede", dice don Alessandro Cavallo, parroco della comunità del Trullo. Il sacerdote fa sapere che "come comunità parrocchiale, in segno di riconoscenza e di affetto, abbiamo donato a don Arjan una bella croce pastorale ma è importante soprattutto aiutarlo a portarla, sostenendolo nel suo nuovo incarico con la preghiera". 

Dal 2017, su richiesta dell’arcivescovo di Tirana George Anthony Frendo, Dodaj ha fatto ritorno nel suo Paese come sacerdote fidei donum, per "essere anche in quei luoghi, vera terra di missione, testimone efficace specialmente per i giovani, in virtù della sua chiarezza di giudizio di fede", sottolinea il superiore della comunità Casa di Maria don Giacomo Martinelli. Don Dodaj esprime "gratitudine per il nuovo incarico cui Papa Francesco mi ha chiamato" e lo affida a Maria, "presenza centrale nella mia vita, autentica luce nel mio ministero". Per questo il motto episcopale scelto recita “Ecce Mater tua”, "testamento e dono di Gesù sulla croce", dice. Ancora, don Arjan sottolinea "la grazia di essermi formato nella Chiesa di Roma, respirando quella vera cattolicità che mi aiuterà ad allargare lo sguardo, facendomi vero servo di Cristo". Proprio per ricordare il legame del sacerdote albanese con la Chiesa romana, alla sua ordinazione episcopale sarà presente, quale concelebrante, il vescovo ausiliare della diocesi mons. Gianpiero Palmieri, delegato Migrantes della Conferenza Episcopale del Lazio. (M.A. - RomaSette)

Sport: nasce l’Osservatorio contro le discriminazioni

14 Settembre 2020 -

Roma - L’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, insieme a Uisp e Lunaria, ha presentato a Roma l’Osservatorio contro le discriminazioni nello sport. Nato dopo molti anni di lavoro, sarà intitolato a Mauro Valeri, sociologo che ha concentrato i suoi studi sui fenomeni del razzismo collegati al mondo dello sport e scomparso nel novembre scorso. Qual è l’obiettivo che si pongono i promotori di questa iniziativa unica in Europa, che ci pone all’avanguardia nella lotta al razzismo? La risposta nelle parole di Triantafillos Loukarelis, direttore dell’Unar. Alla nascita dell'osservatorio è dedicato uno speciale del Giornale Radio Sociale. Madrina dell’osservatorio è stata Beatrice Ion, atleta paralimpica della nazionale di basket femminile, aggredita nei giorni passati con minacce e insulti razzisti. Beatrice ha evidenziato quanto sia difficile raccontare le discriminazioni subite, mentre è rassicurante sapere che c’è qualcuno pronto ad ascoltare e a tutelarti.

Fino a quando assenti?

14 Settembre 2020 - Roma - Si pensava, si diceva e si scriveva che la tragedia provocata da un virus sconosciuto avrebbe fatto nascere una società migliore e avrebbe lasciato qualche traccia buona anche nella cultura. Si pensava e si diceva e si scriveva che tutto sarebbe andato bene. Si pensava, si diceva, si scriveva… Non era sbagliato quel pensare, quel dire, quello scrivere. Il trovarsi di fronte a una misura inattesa di rancore, di odio e di violenza ha però profondamente sconcertato anche se non ha cancellato le molte e straordinarie storie di umanità. Non ci si aspettava un rigurgito così devastante. Non è serio addossare il lievitare del male esclusivamente ai media, ai loro titoli, ai loro racconti e alle loro immagini. Ci sono media che fedeli all’etica professionale scelgono di raccontare la realtà, anche la più sconvolgente, con il rispetto della dignità di persone e comunità lacerate dal dolore. Andrebbe al riguardo aperta una riflessione anche sul ruolo critico dell’opinione pubblica. In una lettera al direttore di un quotidiano nazionale un giovane scrive: “La violenza di Colleferro è l’estrema conseguenza di una cultura della movida che è ormai istituzionalizzata in Italia”. Partendo dall’assassinio di Willy la lettera al giornale è un appello a conoscere le radici di una brutalità mostruosa e a non trasformare un lutto in occasione politica. La paternità di tanto male è nel nulla che avanza, senza farsi troppo notare, nella vita di molti. Un nulla che è parente stretto della noia e nel quale convivono la perdita di senso, la debolezza di pensiero, il rifiuto dell’altro, la violazione della dignità dell’altro che è poi violazione della propria dignità. La movida preoccupa per il rischio di far avanzare un virus sconosciuto e preoccupa per la presenza di un male che non è meno oscuro e aggressivo. Colleferro lo ha confermato e una prima risposta è stata quella di aumentare le misure preventive e repressive. Non bastano. L’impegno urgente è quello per la formazione della coscienza attraverso solide alleanze educative e attraverso una rinnovata comunicazione intergenerazionale. Willy, come qualcuno ha detto, è diventato un riferimento contro l’indifferenza, contro il chiamarsi fuori quando sono in pericolo la dignità e la vita di un altro. Questo ragazzo pone qualche domanda agli adulti e agli stessi suoi coetanei: “Dove eravate prima che io venissi ucciso, dove eravate mentre mimetizzandosi cresceva la cultura di morte, dove eravate nei Colleferro di questo Paese? Resterete ancora assenti?” (Paolo Bustaffa – Sir)

Migrantes Gaeta: lunedì un webinar con il Direttore Migrantes don Giovanni de Robertis

11 Settembre 2020 - Gaeta - Si intitola “Come Gesù Cristo, costretti a fuggire. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli sfollati interni“. E’ il webinar organizzato dall’Ufficio Comunicazioni Sociali e Ufficio Migrantes della diocesi di Gaeta in vista della Giornata Mondiale del prossimo 27 settembre. Andrà in onda lunedì 14 settembre alle ore 19.30 sulla pagina Facebook della diocesi. I lavori saranno introdotti da  don Maurizio Di Rienzo, direttore Ucs Gaeta, e saluterà gli ospiti Mons. Luigi Vari, arcivescovo di Gaeta. Modera il webinar Maria Giovanna Ruggieri, direttore dell’ufficio diocesano Migrantes. Due saranno gli ospiti che dialogheranno insieme: don Giovanni De Robertis, Direttore generale della Fondazione Migrantes, e Angela Caponnetto, giornalista Rai e autrice del libro “Attraverso i tuoi occhi” (edizioni Piemme).  

Migrantes Genova: “voler bene al nostro territorio parte dal non fare sentire più nessuno straniero”

11 Settembre 2020 - Genova – “Dopo il responsabile ripensamento della Prefettura di Genova affinché l'accoglienza dei richiedenti asilo potesse essere una vera opportunità, anziché la gestione di un problema, la Chiesa genovese presenterà un progetto che parte dalle intuizioni di Papa Francesco”. Così Mons. Giacomo Martino, direttore dell'Ufficio Migrantes della diocesi di Genova, in merito alla situazione legata all'accoglienza dei richiedenti asilo. “L'odierna situazione dei richiedenti asilo presenta una criticità dovuta alla visione semplicemente alloggiativa e assistenziale aggravatasi dall'ultimo decreto governativo sulla sicurezza", afferma il sacerdote genovese in un editoriale pubblicato dal settimanale cattolico di Genova, "Il Cittadino". A causa delle attuali normative, “molte persone, uomini, donne e figli, usciti alla fine del percorso di emergenza delle nostre realtà non hanno più potuto accedere, come prima, ai percorsi integrativi dello Sprar (ora Siproimi), che aiutavano un inserimento abitativo e lavorativo quanti avevano avuto il permesso”. La situazione, dice il sacerdote, è diventata via via sempre più difficile perché “la stragrande maggioranza di quanti erano ospitati nelle nostre case genovesi, non avendo ricevuto i documenti perché è stato cancellato il permesso per 'motivi umanitari', sono diventati dei senzatetto che vagano per le strade, anche in questo momento di rischio di contagio, senza trovare un letto per dormire, senza documenti per lavorare e quindi, spesso, nelle mani di chi li sfrutta illegalmente per dare loro il minimo per la sopravvivenza. Senza documenti, però, non si può affittare una casa, avere un contratto di lavoro, pagare le tasse e davvero non si potrà mai integrarsi vivendo sempre come una minoranza sfruttata, legata al disagio economico e al colore della pelle e al Paese di provenienza". A tutto questo, vuol provare a rispondere la Chiesa genovese con un progetto "che parte dalla persona e dalla relazione di amicizia, con tante idee e cose concrete, con suggerimenti e innovazioni, ma senza mai prescindere dalle persone" perché "volere bene al nostro territorio, alla nostra città, al nostro quartiere parte proprio dal non fare sentire più nessuno straniero".

GMMR: il Piemonte e la Valle d’Aosta nel solco dei «santi sociali»

10 Settembre 2020 -

Torino - Non è casuale che la Fondazione Migrantes abbia scelto le diocesi di Piemonte e Valle d’Aosta come sedi principali per la celebrazione italiana della 106ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, in programma il 27 settembre. Nella Cattedrale di Torino in diretta su Rai 1 alle 11 monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino e amministratore apostolico di Susa, presiederà la celebrazione eucaristica della Giornata, che il Papa nel suo messaggio diffuso il 13 maggio ha intitolato “Come Gesù Cristo, costretti a fuggire: accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli sfollati interni”. "La scelta delle diocesi subalpine da sempre terre d’immigrazione – ha sottolineato ieri Sergio Durando, direttore dell’Ufficio pastorale migranti di Torino e coordinatore Migrantes del Piemonte – ci sprona ad andare avanti nel solco dei santi sociali come don Bosco e Murialdo che accoglievano i contadini e i giovani dalle campagne, dell’emigrazione dal Sud Italia nel Dopoguerra ed ora delle nuove migrazioni dal Sud del mondo e dai Paesi in guerra". Oggi infatti Torino e le diocesi del Piemonte – aggiunge Durando – "con 429.375 stranieri (il 50% nel capoluogo, con età media 30-39 anni) sono la quinta regione d’Italia con provenienze da 172 paesi diversi e 12 comunità etniche molto numerose". "Presenze e bisogni – ha ribadito monsignor Nosiglia – che, grazie alle sollecitazioni di questa Giornata devono attraversare la coscienza e la vita delle nostre comunità per stimolare la ricerca di vie e impegni concreti di accoglienza e solidarietà verso tutti gli immigrati e gli sfollati presenti nel nostro territorio: una realtà importante che nel mondo coinvolge 50 milioni di persone, compresi i nostri connazionali sfollati ad esempio dai recenti terremoti". "Far leva sull’allarmismo e sull’invasione, come già è avvenuto in passato – ha aggiunto Nosiglia – non aiuta ad affrontare seriamente il problema ma suscita solo paura e timore che, collegato al coronavirus, suscita ancora di più rifiuti e scelte drastiche che nulla hanno a che vedere con l’accoglienza delle persone ma ne fanno dei capri espiatori di ben altre situazioni». Dal canto suo monsignor Marco Prastaro, vescovo di Asti, incaricato regionale Migrantes della Conferenza episcopale del Piemonte e della Valle d’Aosta con un passato da fidei donum in Kenya, ribadendo che occorre un cambiamento di mentalità nel considerare gli stranieri "non come capo espiratorio di tutti i nostri problemi ma come risorsa" (in Italia sono 52 mila gli imprenditori immigrati) ha presentato il documento che il coordinamento Migrantes di Piemonte e Valle d’Aosta "terra di santi sociali che hanno saputo rispondere alle sollecitazioni del loro tempo tra cui l’immigrazione" diffonderà in occasione della Giornata. È intitolato “Mi avete ospitato”. "Il motivo per cui la comunità cristiana in primis non può sottrarsi all’accoglienza – ha aggiunto Prastaro – sta nelle parole di Gesù: 'Ero forestiero e mi avete ospitato'". 

In preparazione alla Giornata, la Fondazione Migrantes ha promosso nei giorni scorsi a Villa Lascaris di Pianezza (Torino) il Corso di Alta formazione sulle sfide dell’emigrazione. Ai lavori, presieduti dal direttore generale della Fondazione don Giovanni De Robertis, hanno partecipato 60 tra direttori della Pastorale migranti delle diocesi della Penisola e collaboratori laici. Tra i relatori, l’inviato di Avvenire, Nello Scavo. Fitto il calendario degli appuntamenti piemontesi di qui al 27 settembre: da spettacoli e presentazioni di libri e mostre, ai cineforum, al Meeting tra giovani italiani e immigrati sul messaggio del Papa, sabato 12 settembre dalle 14 alle 18, (in via Cottolengo 24/a). I giovani, su un testo raccolto da Marco Laruffa e musicato da fratel Ettore Moscatelli, hanno anche composto l’inno della Giornata che verrà inviata a papa Francesco. La stessa composizione, il calendario completo della Giornata e il messaggio del Coordinamento Migrantes Piemonte e Valle d’Aosta si trovano sul sito www.migrantitorino.it. (Marina Lomunno - Avvenire)

GMRR: oggi la presenzazione delle iniziative nella regione del Piemonte e Valle d’Aosta

9 Settembre 2020 -
Torino - Saranno presentate questa mattina a Torino le iniziative per la prossima Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che vedrà, in Italia, al centro la regione ecclesiastica Piemonte e Valle d'Aosta, scelta dalla Commissione Episcopale per le Migrazioni e dalla Fondazione Migrantes.
Alla conferenza stampa parteciperanno l'arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, il vescovo di Asti e incaricato regionale Migrantes della Conferenza episcopale di Piemonte/Valle d'Aosta (CEP), mons. Marco Prastaro, e il direttore della Migrantes di Torino, Sergio Durando.
Il messaggio di Papa Francesco per la Giornata sul tema “Come Gesù Cristo, costretti a fuggire. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli sfollati interni”, sarà presentato da mons. Nosuglia mentre mons. Pastaro presenterà il messaggio del Coordinamento Migrantes di Piemonte e Valle d'Aosta, composto da 17 diocesi, dal titolo "'...mi avete ospitato'. La Migrantes regionale per un modello di società più giusto e inclusivo per tutti".
Oltre alla Santa Messa di domenica 27 settembre in diretta Rai dal Duomo di Torino, Sergio Durando illustrerà il ricco programma di eventi che si terranno nel mese di settembre in tutta la regione, e in particolare nel capoluogo. Inoltre sarà presentato l'Inno ufficiale della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2020, composto a Torino da un gruppo di giovani musicisti volontari della Migrantes e un documento del Coordinamento Migrantes regionale.
R.Iaria

Luogo di vocazione

8 Settembre 2020 - Ebbene, lo diciamo con un sentimento di grande commozione, e di profonda gratitudine a Dio; sì; alla Nostra famiglia, non così povera in verità come ad alcuno piacque presentarla, ma soprattutto ricca di doni celesti: agli esempi dei Nostri buoni genitori, papà e mamma, sempre scolpiti nel cuore: all’atmosfera di bontà, di semplicità e di rettitudine che abbiamo respirata fin dall’infanzia, dobbiamo gran parte della Nostra vocazione sacerdotale ed apostolica. (Discorso del Santo Padre Giovanni XXIII alle partecipanti al IX Congresso nazionale del Centro italiano femminile, III Domenica di Quaresima, 1 marzo 1959) A meno di due mesi dall’Angelus commentato nell’articolo di settimana scorsa, papa Giovanni torna sul tema della famiglia incontrando le partecipanti al IX Congresso nazionale del Centro italiano femminile: un’associazione nata nell’ottobre del 1944 (ed ancora esistente) come collegamento di donne e di associazioni di ispirazione cristiana, per contribuire alla ricostruzione del Paese attraverso la partecipazione democratica e l’impegno di promozione umana e di solidarietà. A queste donne riunite in assemblea, il Papa rivolge un esteso discorso in cui, anche in questa circostanza, prevale il calore della testimonianza personale. Poco dopo l’esordio, il suo riferimento alla famiglia d’origine è forte, anche perché questa volta il ricordo si fa sentimento di “profonda gratitudine” in ordine anche alla sua vocazione al sacerdozio. Prima di proseguire nel suo dire il pontefice richiama, dunque, l’attenzione su un atteggiamento che non può essere dato per scontato. Al padre, alla madre, all’ambiente in cui nasciamo, nel bene e nel male noi dobbiamo molto di quello che saremo da grandi, lì si impianta come in embrione la nostra vocazione. È un concetto semplice dal punto di vista della comprensione, ma ciò nonostante non sempre facile da vivere con consapevolezza ed il Papa sembra spontaneamente portato a tornarci più volte offrendo anche a noi oggi uno stimolo a rifletterci. Conseguentemente a ciò Giovanni XXIII prosegue il suo discorso affidando alle donne presenti e a quelle del mondo, più in generale, “l’amore alla famiglia, intesa come naturale ambiente per lo sviluppo della personalità umana, e come provvidenziale rifugio, nel quale si placano e si addolciscono le tempeste della vita, si spengono gli allettamenti delle inclinazioni indisciplinate, e si combattono gli influssi dei mali esempi”. Qui, nel linguaggio, ma anche nella sostanza percepiamo la distanza dei tempi, se non altro perché oggi siamo purtroppo abituati a considerare che molte delle difficoltà delle famiglie – a partire dalle violenze domestiche – nascono all’interno di esse e anzi si cercano fuori le agenzie tese alla cura e al risanamento delle stesse. Forse, però, anche su questo potremmo fare tesoro dell’insegnamento pontificio. Di fatto sono dall’esterno che arrivano molti degli elementi di disgregazione dei nuclei famigliari e questi ultimi possono proteggersi non chiudendosi in un isolamento anacronistico ma facendo rete coltivando i germi positivi che l’istituzione famigliare, prima ancora che il sacramento del matrimonio, porta con sé. È in quest’ottica che il Papa elogia il Centro italiano femminile, la cui azione sociale ha avuto un impatto notevole nel nostro Paese non solo negli anni della ricostruzione. Oggi il numero delle associazioni famigliari, di ispirazione cristiana e no, è aumentato a dismisura, ma è istruttivo constatare come fin dall’inizio non sia mai mancato il sostegno e la “confortatrice” benedizione dei Papi che si sono succeduti e che non hanno mai smesso di mettere la famiglia al centro del loro interesse pastorale. (Giovanni M. Capetta - Sir)