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In Cristo la vita vince sempre

8 Aprile 2024 -
Città del Vaticano - Ancora un invito a pregare per la pace in questa seconda domenica di Pasqua. Pace, dunque, “giusta e duratura, in particolare per la martoriata Ucraina e per la Palestina e Israele” chiede Papa Francesco nelle parole che pronuncia dopo la preghiera mariana del Regina coeli. Come già nel messaggio Urbi et Orbi di Pasqua e mercoledì scorso all’udienza generale in cui chiedeva di evitare ogni “irresponsabile tentativo” di allargare il conflitto. Pace nello Spirito del Signore perché “illumini e sostenga quanti lavorano per diminuire la tensione e favorire gesti che rendano possibili i negoziati. Che il Signore dia ai dirigenti la capacità di fermarsi un po’ per trattare, per negoziare”. Pace è anche la prima parola che Gesù pronuncia quando incontra gli apostoli chiusi nel Cenacolo, “per timore dei giudei” come leggiamo nel Vangelo di Giovanni. Le porte chiuse per timore di essere indicati come seguaci del Cristo. Paura, le porte chiuse, incapaci di comprendere e vivere quell’evento che ha sconvolto le loro persone. Manca Tommaso in quel primo incontro, e così Gesù torna ancora in quella sala dalle porte chiuse. Torna proprio per l’apostolo che Giovanni chiama anche Didimo e che si era manifestato incredulo quando gli hanno raccontato l’incontro con Gesù: “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, non credo”. Tommaso è un po’ tutti noi con le nostre difficoltà e i nostri problemi nel credere, con quel bisogno di un passo in più per essere ancora più vicini al Signore. Così Tommaso vuole toccare per credere, e Gesù lo invita a toccare, a mettere le mani sulle sue ferite: “non essere incredulo, ma credente”. Questa seconda domenica di Pasqua è anche la festa della Divina Misericordia, per volere di Giovanni Paolo II che accolse il messaggio di santa Faustina Kowalska a unire la Chiesa e a fare dell’umanità una famiglia sola, una unità nuova “perché fondata non sulle risorse umane, ma sulla Divina misericordia”. Mi piace ricordare come il termine misericordia lo troviamo già nelle parole che Giovanni XXIII pronuncia aprendo i lavori del Concilio: la Chiesa “preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore”. E torna, prima di Papa Francesco, con le parole di Paolo VI che nel Credo del popolo di Dio, solenne professione di fede, alla quale lavorò l’amico filosofo Jacques Maritain, troviamo l’invito a riscoprire le parole antiche e sempre nuove, come misericordia: “andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all’amore e alla misericordia di Dio…”. Come non ricordare che Giovanni Paolo II alla misericordia dedicherà, due anni dopo la sua elezione, l’enciclica Dives in misericordia. Benedetto XVI, infine, parlando a Erfurt nell’ex convento agostiniano di Martin Lutero, ripropone l’interrogativo che non dava pace all’iniziatore della Riforma: “come posso avere un Dio misericordioso”. Domanda che sembra non preoccupare i cristiani, affermava. Ma torniamo al brano del Vangelo. Papa Francesco si sofferma sulle parole avere la vita, e spiega che diverse sono le vie per ottenerla: “c’è chi riduce l’esistenza a una corsa frenetica per godere e possedere tante cose: mangiare e bere, divertirsi, accumulare soldi e roba”. Ma è una strada che “non sazia il cuore”, perché “seguendo le strade del piacere e del potere non si trova la felicità” e non abbiamo risposte a altri aspetti quali “l’amore, le esperienze inevitabili del dolore, del limite e della morte”. La “pienezza di vita”, ci dice il Vangelo, “si realizza in Gesù”. Gli apostoli erano “spaventati e scoraggiati”, dice il Papa, e incontrano Gesù nel “momento di vita più tragico” chiusi nel Cenacolo per paura. Il Signore “per prima cosa mostra le sue piaghe: erano i segni della sofferenza e del dolore, potevano suscitare sensi di colpa, eppure con Gesù diventano i canali della misericordia e del perdono”. In lui, dice il Papa, “la vita vince, sempre, la morte e il peccato sono sconfitti”, basta “lasciarsi toccare dalla sua grazia e guidare dal suo esempio, e sperimentare la gioia di amare come Lui”. (Fabio Zavattaro)

Una Chiesa che accoglie, ama, serve, perdona

30 Ottobre 2023 - Citta del Vaticano - “È un’ora buia” aveva detto venerdì, giornata di digiuno e di preghiera per la pace. La famiglia umana “ha smarrito la via della pace” preferendo Caino a Abele, affermava il Papa; un mondo incapace di “ripudiare la follia della guerra che semina morte e cancella il futuro”. Due giorni dopo, all’Angelus, rinnova l’appello alla pace: “cessate il fuoco. Fermatevi, fratelli e sorelle. La guerra sempre è una sconfitta, sempre”. Chiede di pregare per l’Ucraina, per la “grave situazione in Palestina e in Israele e per le altre regioni in guerra”; chiede aiuti umanitari per Gaza, e la liberazione – “subito” – degli ostaggi. Il Vangelo di questa domenica vede Gesù messo alla prova da una domanda insidiosa dei sadducei, corrente spirituale che dava peso solo alla parola scritta che veniva da Dio: “Maestro, nella legge, qual è il grande comandamento?”. Con assoluta semplicità, Gesù risponde: “amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento”. Poi ne aggiunge un secondo che “è simile” scrive Matteo: “amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non cade nella trappola Gesù, anzi li prende in contropiede mettendo in primo piano la professione di fede che ogni credente ebreo pronuncia almeno due volte al giorno, quel Shema Israel che chiede di amare Dio “con tutto il cuore, con tutta la vita, con tutta la mente”. Duplice comandamento dell’amore, anche della pace potremmo dire, che diventa sintesi di tutte le norme e di tutti i precetti, come leggiamo nel primo Vangelo. Come dire, la legge, se vogliamo la nostra esistenza, il nostro rapportarsi a Dio e ai fratelli, è un camminare sui binari dell’amore. Anche la lettura tratta dal libro dell’Esodo ci parla di amore: “non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano…”. L’amore a Dio non può essere scisso dall’amore al prossimo, ricordava Papa Benedetto: “dichiarando che il secondo comandamento è simile al primo, Gesù lascia intendere che la carità verso il prossimo è importante quanto l’amore a Dio. Infatti, il segno visibile che il cristiano può mostrare per testimoniare al mondo l’amore di Dio è l’amore dei fratelli”. Così Papa Francesco, che spiega: “amando i fratelli, noi riflettiamo, come specchi, l’amore del Padre. Riflettere l’amore di Dio, ecco il punto; amare lui, che non vediamo, attraverso il fratello che vediamo”. Domenica nella quale il vescovo di Roma ha presieduto la Messa conclusiva del Sinodo sulla sinodalità, soffermandosi, nell’omelia, su due verbi: adorare e servire. Il cuore di tutto, dice Francesco, è amare Dio e il prossimo “non le nostre strategie, non i calcoli umani, non le mode del mondo”. Amare è adorare, aggiunge, significa “riconoscere nella fede che solo Dio è il Signore e che dalla tenerezza del suo amore dipendono le nostre vite, il cammino della chiesa, le sorti dell’umanità”. Il Papa chiede di rifiutare gli idoli, di “lottare contro le idolatrie, quelle mondane, che spesso derivano dalla vanagloria personale, come la brama del successo, l’affermazione di sé ad ogni costo, l’avidità di denaro – il diavolo entra dalle tasche –, il fascino del carrierismo”; ma anche le idolatrie camuffate di spiritualità: “le mie idee religiose, la mia bravura pastorale”. Poi il secondo verbo: servire. “Non esiste un’esperienza religiosa che sia sorda al grido del mondo”. È l’immagine della Chiesa di Francesco che si china a lavare “i piedi dell’umanità ferita; accompagna il cammino dei fragili, dei deboli e degli scartati; va con tenerezza incontro ai più poveri”. È la Chiesa che guarda alle “vittime delle atrocità della guerra; alle sofferenze dei migranti, al dolore nascosto di chi si trova da solo e in condizioni di povertà; a chi è schiacciato dai pesi della vita; a chi non ha più lacrime, a chi non ha voce”. Spesso dietro belle parole e suadenti promesse, dice il Papa, si nascondono “forme di sfruttamento o non si fa nulla per impedirle". Il sogno di Francesco, “una Chiesa serva di tutti, serva degli ultimi. Una Chiesa che non esige mai una pagella di ‘buona condotta’, ma accoglie, serve, ama, perdona. Una Chiesa dalle porte aperte che sia porto di misericordia”. (Fabio Zavattaro - SIR)

La moneta, Cesare e Dio

23 Ottobre 2023 -
Città del vaticano - Per la Chiesa ieri, domenica, è stat la Giornata missionaria mondiale, memoria liturgica di san Giovanni Paolo II e anniversario dell’inizio del Pontificato di Papa Wojtyla, 22 ottobre di 45 anni fa. Domenica in cui Papa Francesco esprime preoccupazione per quanto sta accadendo in Israele e Palestina, e rinnova la sua richiesta perché si arrivi alla pace: “la guerra sempre è una sconfitta. È una distruzione della fraternità umana. Fratelli fermatevi”. Prega il Papa per coloro che soffrono e manifesta vicinanza “agli ostaggi, ai feriti, alle vittime e ai loro familiari”. A Gaza è “grave la situazione umanitaria”, dice prima di ricordare, con dolore, quanto accaduto alla parrocchia greco-ortodossa di San Porfirio, colpita da diversi missili, e all’ospedale Al-Ahli: “rinnovo il mio appello affinché si aprano gli spazi, si continuino a fare arrivare gli aiuti umanitari, e si liberino gli ostaggi”. Ma non dimentica Francesco l’Ucraina: “la guerra, ogni guerra che è nel mondo è una sconfitta”. Tornano alla mente le parole, quanto mai attuali oggi, che venti anni fa san Giovanni Paolo II pronunciava mentre il mondo era in ansia per il possibile intervento della coalizione internazionale, poi avvenuto, in Iraq: “Mai potremo essere felici gli uni contro gli altri, mai il futuro dell’umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra”. Domenica che Matteo, nel suo Vangelo, ci porta a Gerusalemme dove Gesù è messo alla prova da discepoli dei farisei e da erodiani: filogovernativi e collaborazionisti, questi ultimi, una popolazione a sud del Mar Morto sotto la Giudea; contrari all’occupazione romana, i primi. L’evangelista, nel suo racconto, ci propone tre elementi: la moneta, il sottile inganno e la risposta spiazzante. La moneta con il volto di Cesare è il census coniata appositamente da Roma per il tributo dovuto all’impero dal popolo della Giudea, esclusi anziani e bambini. Aveva il valore di una giornata di lavoro ed era uno dei segni più odiosi per far sentire il peso della schiavitù. Il sottile inganno è la domanda sulla legittimità del tributo a Cesare e una risposta positiva poteva costare l’accusa di idolatria, una negativa, l’accusa di essere un sobillatore politico. Ma Gesù non si lascia ingannare: li chiama “ipocriti”, e pone loro una domanda: questa immagine e questa iscrizione di chi sono? Risponde con un sorprendente realismo politico: “rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Il tributo va pagato “ma l’uomo porta in sé un’altra immagine quella di Dio” commentava Benedetto XVI: “l’immagine di Dio non è impressa sull’oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l’umanità”. Quante volte abbiamo ripetuto, e non sempre in modo appropriato, la frase del Vangelo di Matteo. “Parole diventate di uso comune, dice Papa Francesco, ma a volte utilizzate in modo sbagliato – o almeno riduttivo – per parlare dei rapporti tra Chiesa e Stato, tra cristiani e politica”. Altra lettura sbagliata, per il vescovo di Roma, la divisione tra Cesare e Dio: è una “schizofrenia” separare la realtà terrena e quella spirituale, “come se la fede non avesse nulla a che fare con la vita concreta, con le sfide della società, con la giustizia sociale, con la politica e così via”. A Cesare, afferma Francesco, “cioè alla politica, alle istituzioni civili, ai processi sociali ed economici, appartiene la cura dell’ordine terreno”, e noi siamo chiamati a dare alla società il nostro contributo “promuovendo il diritto e la giustizia nel mondo del lavoro, pagando onestamente le tasse, impegnandoci per il bene comune”. A Dio “appartiene l’uomo, tutto l’uomo e ogni essere umano. E ciò significa che noi non apparteniamo a nessuna realtà terrena, a nessun ‘Cesare’ di turno. Siamo del Signore e non dobbiamo essere schiavi di nessun potere mondano”. Gesù ci ricorda “che nella nostra vita è impressa l’immagine di Dio, che niente e nessuno può oscurare”. È quanto affermava l’anonimo estensore della lettera A Diogneto il quale scriveva, a metà del secondo secolo, che i cristiani hanno la loro cittadinanza in cielo: “abitano ognuno nella propria patria, ma come se fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri di cittadini e si sobbarcano gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Ciò che ci disseta è l’Amore

4 Settembre 2023 -
È pomeriggio inoltrato a Ulan Bator, capitale della Mongolia dove Papa Fran0cesco si trova da venerdì primo settembre, 43mo viaggio internazionale. In Italia sono da poco passate le undici del mattino quando, al termine della messa, celebrata nel moderno Palazzo del ghiaccio, il vescovo di Roma rivolge un messaggio alla Cina, tenendo per mano l’arcivescovo emerito di Hong Kong, cardinale John Tong Hon, e il successore Stephen Chow Sauyan, che riceverà la porpora nel concistoro del 30 settembre 2023: “vorrei approfittare della loro presenza per inviare un caloroso saluto al nobile popolo cinese. A tutto il popolo auguro il meglio, e andare avanti, progredire sempre! E ai cattolici cinesi chiedo di essere buoni cristiani e buoni cittadini”. Due ore di aereo separano la capitale della Mongolia da Pechino; qualcosa in più da Mosca. Ma è evidente il valore di queste parole che Francesco pronuncia con a fianco i due presuli cinesi. Parole che anticipano l’annunciata visita a Pechino dell’inviato del Papa per il processo di pace in Ucraina, il cardinale Matteo Zuppi. Parole da leggere in controluce con quelle pronunciate, poco prima della celebrazione, nell’incontro interreligioso nel quale ha detto: “continuiamo a crescere insieme nella fraternità, come semi di pace in un mondo tristemente funestato da troppe guerre e conflitti”. Come esponenti di diverse religioni dobbiamo promuovere uno “stare insieme armonioso e aperto al trascendente, in cui l’impegno per la giustizia e la pace trovano ispirazione e fondamento nel rapporto con il divino”. Domenica in cui il Vangelo di Matteo ci propone il dialogo tra Pietro e Gesù, il quale parla di cosa accadrà a Gerusalemme: patire e soffrire a causa della cecità e dell’arroganza di anziani, sacerdoti e scribi, e venire ucciso per poi risorgere. Pietro non accetta queste parole, ragiona con logica umana, è convinto che Dio non lascerà morire suo figlio sulla croce. Ma Gesù sa che senza la croce non ci sarà resurrezione e non saranno sconfitti il peccato e la morte. Così dice a Pietro “va dietro di me, Satana, tu mi sei di scandalo”. Domenica scorsa abbiamo letto nel Vangelo che il Signore ha cambiato il nome di Simone in Cefa, ovvero in Pietro, la roccia sulla quale edificherà la sua chiesa; e questa domenica lo chiama Satana. Pietro si ribella, rifiuta il destino annunciato da Gesù lo considera un fallimento e così diventa da pietra solida a pietra d’inciampo nel cammino del Signore. Nell’omelia pronunciata nel Palazzo del ghiaccio cita le parole del Salmo, e si sofferma su due aspetti: la sete che ci abita e l’amore che ci disseta. Alla sinistra del Papa c’è la statua di legno della Vergine ritrovata da una donna nella spazzatura, alle spalle il grande crocifisso: chi vuole seguire Gesù percorre un cammino che passa attraverso l’esperienza del rifiuto, della contraddizione: “se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Rinnegare è dire no all’egoismo che ci fa ragionare con il metro della convenienza e non quello dell’affidamento totale. Siamo “nomadi di Dio” dice il Papa, “pellegrini alla ricerca della felicità, di “un significato e una direzione della nostra vita, di una motivazione per le attività”. La fede cristiana afferma il vescovo di Roma “risponde a questa sete, la prende sul serio; non la rimuove, non cerca di placarla con palliativi o surrogati. Perché in questa sete c’è il nostro grande mistero: essa ci apre al Dio vivente, al Dio Amore che ci viene incontro per farci figli suoi e fratelli e sorelle tra di noi”. Ciò che ci disseta è l’amore, ricorda Francesco: “a volte ci sentiamo come una terra deserta, arida e senz’acqua, ma è altrettanto vero che Dio si prende cura di noi e ci offre l’acqua limpida e dissetante, l’acqua viva dello Spirito che sgorgando in noi ci rinnova liberandoci dal pericolo della siccità”. Successo, potere e cose materiali non dissetano le arsure della nostra vita, “questa è una mentalità mondana, che non porta a nulla di buono e ci lascia più aridi di prima”. Gesù, dice Francesco, ci indica la via: se vogliamo essere suoi discepoli dobbiamo prendere la sua croce e seguirlo. Solo l’amore ci disseta il cuore, guarisce le nostre ferite e ci dà la vera gioia. (Fabio Zavattaro - Sir)

Continuiamo a seminare

17 Luglio 2023 -
Città del Vaticano - Le braccia spalancate di Papa Pio XII, quasi abbraccio alla folla del quartiere romano di San Lorenzo, dopo il bombardamento: 19 luglio del 1943. È l’immagine evocata da Papa Francesco con le sue parole, nel dopo angelus di domenica, quando parla di tragedie che si ripetono, come oggi in Ucraina, preghiera per un popolo che soffre tanto: “com’è possibile? Abbiamo perso la memoria? Il Signore abbia pietà di noi e liberi la famiglia umana dal flagello della guerra”.
Angelus nel giorno in cui il Vangelo di Matteo ci propone la parabola del seminatore, Gesù come un agricoltore che semina prima ancora di raccoglierei frutti e “bruciare la paglia con un fuoco inestinguibile” come diceva Giovanni Battista. Con una lettura superficiale si potrebbe dire che non tiene conto del terreno in cui cade il seme, un contadino distratto. Ma lui, il Signore, continua a seminare potremmo dire con pazienza e speranza; certo conosce i terreni, e sa che i primi tre, la strada, il terreno sassosi e i rovi, non porteranno alcun frutto, ma continua a seminare con tenacia e fiducia: sono “i sassi della nostra incostanza e le spine dei nostri vizi che possono soffocare la parola, eppure spera – dice Papa Francesco – spera sempre che noi possiamo portare frutto abbondante”. Poi ecco il quarto terreno, il terreno buono che darà frutto anche al di là delle aspettative. Nel linguaggio di Gesù la parabola aveva la funzione di far comprendere facilmente, attraverso immagini e esempi di vita quotidiana, il senso del suo discorso; il suo non era un linguaggio complicato come usavano i dottori della legge del tempo. E la semina – “immagine molto bella” dice il Papa – è utilizzata da Gesù per “descrivere il dono della sua parola”: il seme è piccolo ma “fa crescere piante che portano frutti”. Il Vangelo è “un piccolo libro semplice e alla portata di tutti che produce vita nuova in chi lo accoglie”. Matteo pone in primo piano il seminatore e il seme perché noi siamo il terreno e dipende da noi l’efficacia della semina. Con Isaia, la prima lettura, il legame tra Antico e Nuovo testamento, sappiamo che la pioggia e la neve non ritornano al cielo senza aver irrigato e fatto germogliare la terra, così la parola pronunciata dal Signore non tornerà da lui senza aver prodotto frutti. Anche noi siamo chiamati a seminare continuamente senza stancarci, afferma Francesco. Così, per spiegare meglio il senso delle sue parole, propone alcuni esempi, innanzitutto i genitori: “seminano il bene e la fede nei figli, e sono chiamati a farlo senza scoraggiarsi se a volte questi sembrano non capirli e non apprezzare i loro insegnamenti, o se la mentalità del mondo rema contro”. Il seme buono resta e “attecchirà a tempo opportuno”, per questo non bisogna cedere alla sfiducia e lasciare “i figli in balia delle mode e del cellulare, senza dedicare loro tempo e senza educarli”, altrimenti “il terreno fertile si riempirà di erbacce”. Poi i giovani che “possono seminare il Vangelo nei solchi della quotidianità”, con la preghiera “piccolo seme che non si vede” e che Gesù può far maturare. Ancora il tempo da dedicare agli altri, a chi ha bisogno: “può sembrare perso – ha affermato – e invece è tempo santo, mentre le soddisfazioni apparenti del consumismo e dell’edonismo lasciano le mani vuote”. Infine, lo studio: “è faticoso e non subito appagante, come quando si semina, ma è essenziale per costruire un futuro migliore per tutti”. Una parola, infine, per i “seminatori del Vangelo”, sacerdoti, religiosi e laici impegnati nell’annuncio che “vivono e predicano la Parola di Dio spesso senza registrare successi immediati”. Francesco li ha esortati a non dimenticare che “anche dove sembra non succeda nulla, in realtà lo Spirito Santo è all’opera e il regno di Dio sta già crescendo, attraverso e oltre i nostri sforzi”. Così invita tutti a fare memoria a quando è iniziata la fede in ognuno di noi, forse anni dopo l’incontro un testimone che ha posto la parola di Dio nella nostra vita. Angelus che termina con alcune domande: “getto qualche seme di Vangelo nella vita di tutti i giorni: studio, lavoro, tempo libero? Mi scoraggio o, come Gesù, continuo a seminare, anche se non vedo risultati immediati?”. (Fabio Zavattiaro - Sir)

La nostra vita è piena di miracoli

10 Luglio 2023 -
Città del Vaticano - La sorpresa dell’Angelus di domenica, XIV del tempo ordinario, è nell’annuncio del prossimo Concistoro che Papa Francesco presiederà il 30 settembre. Saranno creati 21 i nuovi cardinali, tre ultraottantenni, portando così a 136 il numero dei porporati in un possibile Conclave, 16 votanti in più rispetto al tetto fissato da Paolo VI e confermato da Giovanni Paolo II. Tra i nomi alcune sorprese: monsignor Víctor Manuel Fernández, appena nominato prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, monsignor Stephen Chow Sau-Yan, Vescovo di Hong Kong, nomina importante, ponte con le autorità di Pechino, e monsignor Stephan Ameyu Martin Mulla arcivescovo di Juba, Sud Sudan, paese visitato lo scorso febbraio, dove la pace, disse il Papa il 4 febbraio, “è un cammino tortuoso ma non più rimandabile”. Due gli italiani: monsignor Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le chiese orientali e monsignor Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, il primo a ricevere la berretta porpora in una terra dove continuano le violenze, come ricorda Francesco nel dopo Angelus, auspicando tra israeliani e palestinesi la ripresa di un “dialogo diretto al fine di porre termine alla spirale di violenze e aprire strade di riconciliazione e di pace”. Angelus nella domenica in cui leggiamo, in Matteo, che Gesù prega il Padre e lo ringrazia “perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. Quanto è diversa dalla nostra la logica di Dio che chiama beati i “poveri di spirito”, i sofferenti, i perseguitati, gli operatori di pace. Nell’Antico Testamento è il profeta Zaccaria – è la prima lettura – che annuncia la salvezza messianica operata da un re “giusto e vittorioso, umile”, che cavalca un asino. L’immagine di Gesù che entra in Gerusalemme su un umile asino. Ma cosa sono le cose per cui Gesù loda il Padre, e chi sono i piccoli che le accolgono. Innanzitutto, il Signore ricorda le opere, ovvero i ciechi che riacquistano la vista, i lebbrosi purificati, i poveri ai quali è annunciato il Vangelo. Dice Francesco: “Dio si rivela liberando e risanando l’uomo, e lo fa con un amore gratuito, un amore che salva”. Per questo Gesù loda il Padre, perché “la sua grandezza consiste nell’amore e non agisce mai al di fuori dell’amore”. Grandezza che “non è compresa da chi presume di essere grande e si fabbrica un dio a propria immagine: potente, inflessibile, vendicativo. In altre parole, questi presuntuosi non riescono ad accogliere Dio come Padre; chi è pieno di sé, orgoglioso, preoccupato solo dei propri interessi convinto di non aver bisogno di nessuno”. Corazìn, Betsàida e Cafarnao sono tre città dove Gesù ha compiuto molte guarigioni. Lo ricorda il Papa per dire che gli abitanti “sono rimasti indifferenti alla sua predicazione”, per loro i miracoli sono stati “eventi spettacolari” ma “esaurito l’interesse passeggero, li hanno archiviati, magari per occuparsi di qualche altra novità del momento. Non hanno saputo accogliere le grandi cose di Dio”. Non così i piccoli e Gesù loda il Padre “per i semplici che hanno il cuore libero dalla presunzione e dall’amor proprio”. I piccoli ricorda Papa Francesco sono come i bambini “si sentono bisognosi e non autosufficienti, sono aperti a Dio e si lasciano stupire dalle sue opere”. I piccoli, afferma ancora il Papa, “sanno leggere i suoi segni, meravigliarsi per i miracoli del suo amore”. La nostra vita ricorda il vescovo di Roma “è piena di miracoli, è piena di gesti d’amore”, ma un “cuore chiuso, un cuore blindato” non ha la capacità di stupirsi; dobbiamo lasciarci impressionare come “la pellicola di un fotografo”. L’atteggiamento del giusto “davanti alle opere di Dio: fotografarle nella mente le sue opere perché si imprimano nel cuore, per poi svilupparle nella vita, attraverso tanti gesti di bene”. Così chiede: “mi lascio meravigliare come un bambino dal bene […] oppure ho perso la capacità di meravigliarmi?”. Non è mancata, nel dopo l’Angelus, la preghiera per l’Ucraina e la gratitudine per quanti operano “per il salvataggio di migranti in mare”; parole all’indomani della lettera a dieci anni dal viaggio a Lampedusa: “la morte di innocenti, principalmente bambini … è un grido doloroso e assordante che non può lasciarci indifferenti. È la vergogna di una società”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Ascoltare gli altri per evitare i conflitti

3 Luglio 2023 -
Città del Vaticano - Mai stancarsi di pregare per la pace, anche in questo tempo che ha il sapore delle vacanze. “La preghiera è la forza mite che protegge e sostiene il mondo” dice papa Francesco all’Angelus, rinnovando il suo appello per la pace, “in modo speciale per il popolo ucraino tanto provato”. Pace in Ucraina, certo, ma ci sono tante altre guerre “dimenticate, numerosi conflitti e scontri che insanguinano molti luoghi della terra; tante guerre ci sono oggi… Interessiamoci di quello che accade, aiutiamo chi soffre e preghiamo”. In questa domenica il Vangelo di Matteo ci propone parole forti, esigenti, contenute nell’ultima parte del discorso missionario di Gesù. Parla ai discepoli, ma parla a tutti noi, per indicare la strada di quell’andare nel mondo, per essere testimoni della novità cristiana. Certo ci sono fatiche e sofferenze, dice sempre Matteo, ma chi compie questa scelta “non perderà la sua ricompensa”. La nostra vita è fatta di tanti fili sottili che ci legano, come il voler bene a una persona, l’affetto e la stima degli altri, il timore di non essere “qualcuno”, paure e insicurezze che ci impediscono di essere accoglienti, di guardare l’altro come un fratello e non un nemico, e di chiuderci nelle nostre pseudo sicurezze. Di qui l’invito fatto da Giovanni Paolo II, all’inizio del suo Pontificato, a non aver paura, a “aprire, anzi spalancare le porte a Cristo”. Le parole che leggiamo in Matteo sono sì parole esigenti: “chi ama padre o madre più di me, non è degno di me”; così chi ama di più il proprio figlio o non prende con se la propria croce. Ma non leggiamole come un assoluto, pretesa davvero inaudita – tutto l’insegnamento di Gesù è un invito ad amare l’altro, anche il nemico – ma cerchiamo di comprenderne la verità profonda. Non si tratta, cioè, di non amare padre, madre – come la mettiamo con il quarto comandamento? – o di non amare i figli. Gesù non esige un amore totalitario, ma chiede quel “morso del più”, direbbe don Ciotti, richiama l’amore che deve essere dato al Signore, e chiede che i cristiani siano testimoni di Gesù capaci di fare scelte serie, altrimenti, diceva Francesco, si è cristiani “da pasticceria”, oppure “cristiani da salotto”, più attenti alla forma che alla sostanza. Nella sua riflessione il Papa si sofferma sul termine profeta che in Matteo è ripetuto tre volte: “c’è chi lo immagina come una sorta di mago che predice il futuro; questa è un’idea superstiziosa e il cristiano non crede alle superstizioni, come la magia, le carte, gli oroscopi o cose simili”, ha commentato. Altri “dipingono il profeta come un personaggio del passato, esistito prima di Cristo per preannunciare la sua venuta”. Ma Francesco ci dice che profeti siamo tutti noi quando, in forza del battesimo, aiutiamo gli altri “a leggere il presente sotto l’azione dello Spirito Santo, a comprendere i progetti di Dio e corrispondervi. In altre parole, è colui che indica agli altri Gesù, che lo testimonia, che aiuta a vivere l’oggi e a costruire il domani secondo i suoi disegni”. Il profeta “è un segno vivo che indica Dio agli altri”, per il vescovo di Roma, “è un riflesso della luce di Cristo sulla strada dei fratelli”. Di qui l’invito a un esame di coscienza: “sono stato eletto profeta nel Battesimo, parlo e, soprattutto, vivo come testimone di Gesù? Porto un po’ della sua luce nella vita di qualcuno?”. La pagina dell’evangelista contiene anche un invito a accogliere i profeti. Per Francesco è importante “accoglierci a vicenda come tali, come portatori di un messaggio di Dio, ciascuno secondo il suo stato e la sua vocazione, e farlo lì dove viviamo: in famiglia, in parrocchia, nelle comunità religiose, negli altri ambiti della Chiesa e della società”. Assieme all’accoglienza c’è anche l’ascolto perché “lo Spirito ha distribuito doni di profezia nel santo Popolo di Dio”. È bene, dunque, ascoltare tutti, dice il Papa, “quando c’è da prendere una decisione importante”: pregare, ascoltare e dialogare, perché “anche il più piccolo, ha qualcosa di importante da dire, un dono profetico da condividere”. Così si ricerca la verità: “pensiamo – dice il Papa – a quanti conflitti si potrebbero evitare e risolvere così, mettendosi in ascolto degli altri con il sincero desiderio di comprendersi”. (Fabio Zavattaro)

Lo Spirito che unisce

29 Maggio 2023 -
Città del Vaticamo - Ancora una volta sono nel Cenacolo, le porte chiuse per paura. La morte di Gesù “li aveva sconvolti, i loro sogni erano andati in frantumi, le loro speranze svanite”, dice papa Francesco al Regina caeli. Certo, Gesù aveva detto loro che non li avrebbe lasciati orfani, e avrebbe mandato un altro consolatore; ma in quel momento al Cenacolo erano soli, timorosi di fronte al grande compito che avevano di fronte: nell’orto degli ulivi non avevano lasciato solo Gesù; Giuda non aveva tradito; e Pietro non aveva forse rinnegato il maestro tre volte. Paura, dunque: “vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Vi perseguiteranno”, aveva detto loro Gesù. Poi ecco il giorno di Pentecoste. Al Cenacolo, come nel tempo di Pasqua. Pentecoste. Festa che Benedetto XVI aveva definito il “battesimo della chiesa”. Festa che conclude il tempo liturgico della Pasqua. Nell’ebraismo è la festa che ricorda la rivelazione, il dono di Dio al popolo ebraico della legge, sul monte Sinai. Per il cristianesimo è la discesa dello Spirito Santo sui discepoli, riuniti con Maria. Per l’Islam lo Spirito è sorgente ispiratrice di angeli e profeti. Con il dono dello Spirito “Gesù desidera liberare i discepoli dalla paura, questa paura che li tiene rinchiusi in casa, e li libera perché siano capaci di uscire e diventino testimoni e annunciatori del Vangelo”. Non più chiusi, non solo nella stanza ma anche nel cuore. Anche noi ci chiudiamo, afferma il Papa prima della preghiera mariana, “per qualche situazione difficile, per qualche problema personale o familiare, per la sofferenza che ci segna o per il male che respiriamo attorno a noi, rischiamo di scivolare lentamente nella perdita della speranza e ci manca il coraggio di andare avanti”. Questo accade quando “permettiamo alla paura di prendere il sopravvento”, e crediamo di essere soli e pensiamo di non farcela: “la paura blocca, la paura paralizza. E anche isola: pensiamo alla paura dell’altro, di chi è straniero, di chi è diverso, di chi la pensa in un altro modo. E ci può essere persino la paura di Dio: che mi punisca, che ce l’abbia con me”. Dove c’è paura c’è chiusura, dice Francesco; il rimedio: lo Spirito Santo che “libera dalle prigioni della paura”. Nell’omelia che pronuncia nella basilica Vaticana il Papa afferma inoltre che lo Spirito Santo “è Colui che, al principio e in ogni tempo, fa passare le realtà create dal disordine all’ordine, dalla dispersione alla coesione, dalla confusione all’armonia”. E oggi nel mondo c’è tanta discordia, afferma il vescovo di Roma, tanta divisione; “siamo tutti collegati eppure ci troviamo scollegati tra di noi, anestetizzati dall’indifferenza e oppressi dalla solitudine. Tante guerre, tanti conflitti: sembra incredibile il male che l’uomo può compiere”. Ostilità e divisione sono alimentate dal diavolo, il “divisore”. Per questo, “al culmine della Pasqua, al culmine della salvezza”, il Signore “riversa sul mondo creato il suo Spirito buono, lo Spirito Santo, che si oppone allo spirito divisore perché è armonia, Spirito di unità che porta la pace”. Scende sugli apostoli e “ognuno riceve grazie particolari e carismi differenti”. Una pluralità che non genera confusione “ma lo Spirito, come nella creazione, proprio a partire dalla pluralità ama creare armonia. Non è un ordine imposto e omologato”, ricorda il Papa, “non crea una lingua uguale per tutti, non cancella le differenze, le culture, ma armonizza tutto senza omologare, senza uniformare”. Senza lo Spirito “la Chiesa è inerte, la fede è solo una dottrina, la morale solo un dovere, la pastorale solo un lavoro”. Di qui l’invito a essere “docili all’armonia dello Spirito”. Così il cammino del Sinodo – “che non è un parlamento per reclamare diritti e bisogni secondo l’agenda del mondo, non l’occasione per andare dove porta il vento” – deve cogliere l’opportunità di “essere docili al soffio dello Spirito”. Nel dopo Regina caeli la preghiera per le popolazioni al confine tra Myanmar e Bangladesh, per i Rohingya; per la “martoriata Ucraina”. Francesco ricorda anche Alessandro Manzoni che “è stato cantore delle vittime e degli ultimi: essi sono sempre sotto la mano protettrice della Provvidenza divina che atterra e suscita, affanna e consola”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Pasqua è un affrettarsi incontro al Signore

11 Aprile 2023 -
Città del Vaticano - Giovanni nel suo Vangelo scrive che a notare per prima che la pesante pietra del sepolcro non è più al suo posto è una donna, Maria di Magdala, giunta al luogo della sepoltura che era ancora notte. Gli uomini, gli apostoli, si erano dileguati e vivevano chiusi nella stanza del Cenacolo per paura. In un tempo come quello che viviamo in cui la comunicazione spesso è falsata da fake news, da interessi non sempre coincidenti con la verità dei fatti, Giovanni dà una lezione a noi giornalisti e ci dice quanto sia importante la testimonianza diretta, la fonte attendibile che ci consente di interpretare correttamente gli avvenimenti accaduti. Nessuno degli evangelisti narra il momento esatto della resurrezione, ma attraverso i testimoni diretti, si raccontano quei momenti così difficili da capire. Giovanni fa muovere nel racconto e sulla scena, come un abile cronista, o, se volete, un regista cinematografico, i personaggi: Maria rimane fuori dal sepolcro e, probabilmente, piange perché “hanno portato via il Signore dal sepolcro”. Informati da Maria che è corsa da loro, Pietro e Giovanni corrono verso il sepolcro, entrano, era ancora buio, e vedono i teli posati, il sudario piegato in un luogo a parte. E cosa pensano? Che qualcuno ha profanato il sepolcro, perché dalla morte non si torna indietro, e una nuova cattiveria è stata inflitta a quell’uomo giusto e innocente. Eppure, sapevano, dovevano ricordare le parole pronunciate da Gesù alla sorella di Lazzaro, Maria: “io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore, vivrà”. La sera di Pasqua, poi, due discepoli sulla via di Emmaus incontrano il risorto e subito “partirono senza indugio” per annunciare la gioia di quel momento; infine, Pietro, che si trovava sul lago di Galilea, si tuffa per andare incontro a Gesù risorto appena lo ha visto. La resurrezione di Cristo, ricordava Benedetto XVI, “non è il frutto di una speculazione, di un’esperienza mistica: è un avvenimento, che certamente oltrepassa la storia, ma che avviene in un momento preciso della storia e lascia in essa un’impronta indelebile”. La Pasqua del Signore, ha affermato Papa Francesco nell’omelia della notte in basilica, ci spinge a andare avanti, a uscire dal senso di sconfitta, a rotolare via la pietra dei sepolcri in cui spesso confiniamo la speranza, a guardare con fiducia al futuro, perché Cristo è risorto e ha cambiato la direzione della storia”. Pasqua “invita a rotolare via i massi della delusione e della sfiducia”, e “ribaltare le pietre tombali del peccato e della paura”. Quel correre del Vangelo di Giovanni torna nel Messaggio Urbi et Orbi che Francesco pronuncia dalla loggia centrale della basilica vaticana. Pasqua è un affrettarsi incontro al Signore, afferma; “affrettarsi in un cammino di fiducia reciproca, fiducia tra le persone, tra i popoli e le nazioni. Lasciamoci sorprendere dal lieto annuncio della Pasqua, dalla luce che illumina le tenebre e le oscurità in cui troppe volte il mondo si trova avvolto”. Affrettiamoci, afferma ancora il vescovo di Roma, “a superare i conflitti e le divisioni e a aprire i nostri cuori a chi ha più bisogno. Affrettiamoci a percorrere sentieri di pace e fraternità”. Il pensiero di Francesco va ai tanti luoghi del mondo dove guerre e violenze minacciano la vita delle persone. È un lungo elenco che inizia dall’Ucraina: al Signore chiede aiuto per “l’amato popolo ucraino nel cammino verso la pace e effondi la luce pasquale sul popolo russo”. Quindi invoca conforto per i feriti e per coloro che hanno perso i propri cari in battaglia; per i rifugiati, i deportati, i prigionieri politici, e “tutti coloro che soffrono la fame, la povertà, e i nefasti effetti del narcotraffico, della tratta delle persone e di ogni forma di schiavitù”. Poi ancora Libano, Siria, Haiti, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Gerusalemme. Ai responsabili delle nazioni chiede di non discriminare nessun uomo o donna, né calpestare la loro dignità; di ricercare il bene comune nel rispetto dei diritti umani e della democrazia per costruire dialogo e convivenza pacifica. Pasqua, aggiunge, significa passaggio e “in Gesù si è compiuto il passaggio decisivo dell’umanità: dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia, dalla paura alla fiducia, dalla desolazione alla comunione”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Togliete la pietra!

27 Marzo 2023 - Città del Vaticano - Da una parte, la guerra che continua con il suo corollario di vite recise e di distruzioni, cui si aggiunge l’annuncio, da parte di Mosca, di inviare armi nucleari in Bielorussia; dall’altra un Papa che ancora una volta invita a pregare, all’Angelus, per il martoriato popolo ucraino – ma anche per il Perù, per i terremotati della Turchia e della Siria e per le popolazioni del Mississippi – preghiera per dire basta al conflitto che dura da oltre 395 giorni. Così Francesco, nelle parole che pronuncia dopo la preghiera mariana, ricorda che “nella solennità dell’Annunciazione, abbiamo rinnovato la consacrazione al cuore immacolato di Maria, nella certezza che solo la conversione dei cuori può aprire la strada che conduce alla pace”. Già lo scorso anno Francesco aveva compiuto questo atto affidando a Maria, in “questa ora buia”, l’umanità intera e in particolare Russia e Ucraina. Parole nel giorno in cui la Chiesa fa memoria della resurrezione di Lazzaro, messaggio di speranza di fronte a una sorta di muro, la morte, oltre il quale non siamo capaci di andare. Che Dio abbia il potere di vincere la morte è certezza anche per l’Antico Testamento come leggiamo nel libro di Ezechiele, che si rivolge al popolo ebraico, lontano dalla terra di Israele, affermando che il Signore aprirà le tombe: “vi farò uscire dai vostri sepolcri” e “vi farò riposare nella vostra terra”. Così il racconto di Giovanni ci dice che nei cuori di Maria e Marta la speranza si riaccende alla vista di Gesù: “pur nel dolore – afferma il Papa – si aggrappano a questa luce, a questa piccola speranza. E Gesù le invita ad avere fede e chiede di aprire il sepolcro”. Giovanni, nel suo Vangelo, ci ha fatto percorrere, in queste tre domeniche, un cammino, narrando l’incontro con la samaritana al pozzo di Siloe e il cieco che riacquista la vista, la cui sintesi la troviamo in questa domenica: Gesù disseta l’uomo in ricerca e gli mostra una luce nuova, che gli permette di scoprire l’ultimo dei segni prima della passione, ovvero “io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muove, vivrà”. Il messaggio è chiaro, dice Francesco: “Gesù dà la vita anche quando sembra non esserci più speranza”. Capita a volte, afferma il Papa di “sentirsi senza speranza” o “incontrare persone che hanno smesso di sperare, amareggiate perché hanno vissuto cose brutte, il cuore ferito non può sperare”. Hanno vissuto una perdita, una malattia, una delusione, e altro; “sono momenti – afferma il vescovo di Roma – in cui la vita sembra un sepolcro chiuso: tutto è buio, intorno si vedono solo dolore e disperazione”. Sentiamo dire che non c’è nulla da fare. Il miracolo di Lazzaro ci dice che non è così. La fine non è questa: “in questi momenti non siamo soli, anzi che proprio in questi momenti lui si fa più che mai vicino per ridarci vita”. In una poesia brasiliana si racconta di un uomo che cammina in riva al mare con il Signore e la sua vita e segnata dalle orme lasciate sulla sabbia. Camminando si rende conto che in un certo punto c’è solo una impronta e dice: sono stati i giorni più difficili della mia vita e tu mi hai lasciato solo. Il Signore risponde: non ti ho lasciato, quelli sono stati i giorni in cui ti ho tenuto in braccio. Tornando all’Angelus, Francesco ci ricorda che proprio nei momenti difficili il Signore “si fa più che mai vicino per ridarci la vita” e “piange con noi, come ha pianto per Lazzaro”. Gesù “ci invita a non smettere di credere e di sperare, a non lasciarci schiacciare dai sentimenti negativi, che ti tolgono il pianto. Si avvicina ai nostri sepolcri e dice a noi, come allora: togliete la pietra”. Il Vangelo di questa domenica “è un inno alla vita, e lo si proclama quando la Pasqua è vicina”. Così il Papa dice: il dolore, gli errori, anche i fallimenti, non nascondeteli dentro di voi, in una stanza buia e solitaria, chiusa. Togliete la pietra”. Ancora, “non cedere al pessimismo che deprime, non cedere al timore che isola, non cedere allo scoraggiamento per il ricordo di brutte esperienze, non cedere alla paura che paralizza”, ma togliete la pietra. Un invito, infine, ai confessori: “siete nel confessionale non per torturare, per perdonare, e perdonare tutto, come il Signore perdona tutto”. (Fabio Zavattaro - Sir)