Tag: La domenica del Papa

La bellezza luminosa dell’amore

6 Marzo 2023 - Città del Vaticano - Dio chiama un nomade e lo invita a lasciare la propria terra e il proprio gruppo per intraprendere un cammino verso un luogo che il Signore stesso gli indicherà. Abramo obbedisce e Dio, è la prima lettura tratta dal libro della Genesi, gli dice: “farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome”. Matteo scrive che Pietro, Giacomo e Giovanni seguirono Gesù sul monte della Trasfigurazione, forse il Tabor, e lì, avvolti in una nube, videro conversare Mosè e Elia – ovvero la legge e i profeti, come dire l’Antico Testamento – e ascoltarono la voce del Padre che li invita a seguire il Figlio “l’amato” in cui ha posto “il suo compiacimento”. Come Abramo, anche i tre discepoli non sanno ancora quale strada li attende, ma conoscono la meta che li porterà là dove vedranno il Figlio dell’uomo risorgere dai morti. Antico e Nuovo Testamento che quasi si fondano per farci capire il mistero di Gesù. Queste pagine ci dicono che alla base c’è un cammino da percorrere – e la Quaresima è un cammino, di conversione, di speranza – c’è un volto e c’è una parola, una voce che chiama. Il volto e la voce sono l’espressione di una vera comunicazione: senza l’incontro con il volto dell’altro, senza l’ascolto della parola facciamo fatica a accogliere il messaggio; e il racconto della trasfigurazione è forse l’immagine perfetta del comunicare. E quel volto, che i tre discepoli vedono, diventa sorpresa: “avevano avuto sotto gli occhi per tanto tempo il volto dell’amore, e non si erano mai accorti di quanto fosse bello. Solo adesso se ne rendono conto, con immensa gioia”. Ma ci sono altri volti che Papa Francesco vuole ricordare all’Angelus, i volti di chi ha perso la vita, soprattutto giovani, nell’incidente ferroviario in Grecia; quelli delle numerose vittime del naufragio nelle acque di Cutro sulla costa di Crotone, i volti dei loro familiari, dei sopravvissuti per i quali chiede preghiere; e poi i volti della popolazione locale, delle istituzioni che ringrazia per la solidarietà e l’accoglienza verso questi fratelli e sorelle. Preghiera ma anche appello perché “non si ripetano simili tragedie”; perché “siano fermati” i trafficanti di esseri umani; perché “i viaggi della speranza non si trasformino mai più in viaggi della morte”, e le acque del Mediterraneo “non siano più insanguinate da tali drammatici incidenti. Che il Signore ci dia la forza di capire e di piangere”. Parole che ricordano quelle pronunciate dieci anni fa a Lampedusa, primo viaggio del Pontificato, quando disse che “la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere”. Sul monte della Trasfigurazione i tre discepoli hanno conosciuto la bellezza di un volto. Francesco dice: “impariamo a riconoscere, sul suo volto, la bellezza luminosa dell’amore, che si dona anche quando porta i segni della croce”. Ancora impariamo a cogliere la stessa bellezza nei volti di familiari, amici, colleghi, di quanti camminano accanto a noi ogni giorno: “quanti volti luminosi, quanti sorrisi, quante rughe, quante lacrime e cicatrici parlano d’amore attorno a noi. Impariamo a riconoscerli e a riempircene il cuore”. Pietro, dopo aver vissuto il momento della Trasfigurazione “vorrebbe fermare il tempo e mettere la scena in ‘pausa’”; vorrebbe, in sostanza, prolungare l’esperienza meravigliosa, “ma Gesù non lo permette. La sua luce, infatti, non si può ridurre a un momento magico. Così diventerebbe una cosa finta, artificiale, che si dissolve nella nebbia dei sentimenti passeggeri”. Francesco allora chiede, all’Angelus, di non restare con le mani in mano, ma di “portare anche agli altri la luce che abbiamo ricevuto, con le opere concrete dell’amore, tuffandoci con più generosità nelle occupazioni quotidiane, amando, servendo e perdonando con più slancio e disponibilità”. In questo cammino della Quaresima, il vescovo di Roma ci lascia un messaggio legato alla nostra vita quotidiana: “è importante stare con Gesù, anche quando non è facile capire tutto quello che dice e che fa per noi. È stando con lui, infatti, che impariamo a riconoscere, sul suo volto, la bellezza luminosa dell’amore che si dona, anche quando porta i segni della croce”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Lo sbilanciamento dell’amore

20 Febbraio 2023 -
Città del Vaticano - L’evangelista Matteo ci porta ancora a riflettere sul Discorso della montagna, o meglio ci pone di fronte a quelle ‘antitesi’ che caratterizzano la novità del messaggio cristiano: “avete inteso che fu detto […] ma io vi dico”. Apparente contraddizione tra il Primo e il Nuovo Testamento. Non si tratta, però, di una semplice continuazione di quanto abbiamo ascoltato nella pagina di domenica scorsa, quando il richiamo che ci veniva dalle parole di Gesù era quello di non impoverire il grande dono di Dio che ci ha chiamati beati, ma di essere sale e luce del mondo. Così siamo chiamati a fare un altro passo in avanti e lo capiamo già dall’accostamento tra la prima lettura, tratta dal Levitico, il libro dei sacerdoti – dove leggiamo: “siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro tuo fratello” – e il brano del primo Vangelo “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. Ecco l’obiettivo cui tendere e che ha come presupposto quell’”amare i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” che si contrappone all’”amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico” iscritto nella legge del taglione, che però voleva essere un freno imposto alla vendetta indiscriminata. Gesù ci provoca, dice il Papa all’Angelus, ci chiede di andare oltre la legge e accettare di amare il proprio nemico, di fare senza attendere di ricevere qualcosa in cambio del nostro gesto; noi cerchiamo di compiere gesti che corrispondano alle nostre aspettative, dice il vescovo di Roma, “preferiamo amare soltanto chi ci ama per evitare le delusioni, fare del bene solo a chi è buono con noi, essere generosi solo con chi può restituirci un favore; e a chi ci tratta male rispondiamo con la stessa moneta, così siamo in equilibrio”. Ma questo non basta, non è cristiano; bisogna strappare dal cuore la radice stessa della vendetta e dunque riuscire ad amare anche il nemico. Anche nella lettera di Paolo ai Corinti troviamo una ricetta per essere discepoli: mai montarsi la testa. Gesù ci provoca, dice Francesco, e ci chiede di fare qualcosa di straordinario, “che va oltre i limiti del consueto, che supera le prassi abituali e i calcoli normali dettati dalla prudenza”. Noi tentiamo di “restare nell’ordinario dei ragionamenti utilitari”, Cristo invece “ci stimola a vivere lo sbilanciamento dell’amore. Gesù non è un bravo ragioniere: no! Sempre conduce allo sbilanciamento dell’amore. Non meravigliamoci di questo. Se Dio non si fosse sbilanciato, noi non saremmo mai stati salvati: è stato lo sbilanciamento della croce che ci ha salvati!”. Uno “sbilanciamento” che nella storia della Chiesa ha avuto molti testimoni che si sono opposti al male con il bene, come il cardinale Francois Xavier Van Thuan che ha trascorso 13 anni nelle carceri vietnamite, nove dei quali in isolamento, senza un processo, un giudizio e una condanna. Ma la sua “ribellione” era nei messaggi che scriveva di nascosto e che faceva uscire dalla prigione, messaggi di speranza, racconti di come celebrava messa con una goccia di vino e frammenti di ostia. Le autorità lo temevano perché parlava di amore e perdono, aprendo così una breccia anche nel cuore dei suoi carcerieri”. La lezione che ci viene dalla pagina del Vangelo di Matteo è che Dio “ci ama mentre siamo peccatori, non perché siamo buoni o in grado di restituirgli qualcosa”. Questa è la mentalità che dobbiamo cercare di assumere “perché solo così lo testimonieremo davvero”. Il Signore, afferma Francesco, “ci propone di uscire dalla logica del tornaconto e di non misurare l’amore sulla bilancia dei calcoli e delle convenienze. Ci invita a non rispondere al male con il male, a osare nel bene, a rischiare nel dono, anche se riceveremo poco o nulla in cambio. Perché è questo amore che lentamente trasforma i conflitti, accorcia le distanze, supera le inimicizie e guarisce le ferite dell’odio”. E non può mancare, anche questa domenica, il pensiero per la martoriata Ucraina, per i drammi di “tanti popoli che soffrono a causa della guerra o a motivo della povertà, della mancanza di libertà o delle devastazioni ambientali”. Ancora, il terremoto in Siria e Turchia: “l’amore di Gesù ci chiede di lasciarci toccare dalle situazioni di chi è provato”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La fede: storia d’amore con Dio

13 Febbraio 2023 - Città del Vaticano - Nella mente, e nel cuore, le immagini di devastazioni che giungono dalla Turchia e dalla Siria, immagini di una catastrofe, dice Papa Francesco all’Angelus. Parla di “dolore” per questi popoli e chiede di pregare e di pensare a “cosa possiamo fare per loro”. Non manca il pensiero all’Ucraina, una guerra iniziata quasi un anno fa: “il Signore apra vie di pace e dia ai responsabili il coraggio di percorrerle”. E nemmeno per il Nicaragua, un vescovo arrestato e condannato a 26 anni di carcere, persone deportate negli Stati Uniti: “prego per loro e per tutti quelli che soffrono in quella cara Nazione, e chiedo la vostra preghiera”. Invita poi i responsabili a cercare la pace “che nasce dalla verità, dalla giustizia, dalla libertà e dall’amore e si raggiunge attraverso l’esercizio paziente del dialogo”. Forse non è azzardato dire che monsignor Rolando Àlvarez, vescovo di Matagalpa, con il suo rifiuto di salire sull’aereo che lo avrebbe portato in esilio negli Usa assieme a 222 oppositori del regime di Daniel Ortega, con il suo impegno in difesa dei diritti umani, vive concretamente il messaggio del discorso della montagna, che ritroviamo in questa sesta domenica del tempo ordinario. Abbiamo ascoltato l’annuncio sconvolgente delle beatitudini che, se vissute, portano a essere sale della terra e luce del mondo. Questa è la domenica del discorso delle antitesi, quel “ma io vi dico” che risuona sei volte nel testo di Matteo e che è un programma, “la chiave per comprendere parole antiche ma sempre nuove”. Gesù, leggiamo, poteva essere visto come colui che non rispettava la legge, i profeti: d’altra parte non era entrato nella casa del pubblicano? Non aveva compiuto azioni il sabato? Matteo ci fa capire bene cosa sia la giustizia proclamata da Gesù; non una giustizia diversa, ma superiore che va oltre quella proclamata de scribi e farisei e, in un certo senso, la completa, la porta a “compimento”. Papa Francesco, nelle parole che pronuncia prima della preghiera mariana, invita a interrogarsi sul significato di questo compimento. “La Scrittura dice di ‘non uccidere’ – afferma il vescovo di Roma – ma questo per Gesù non basta se poi si feriscono i fratelli con le parole”; ancora, non commettere adulterio, “ma ciò non basta se poi si vive un amore sporcato da doppiezze e falsità”; “non giurare il falso”, ma, dice il Papa, “non basta fare un solenne giuramento se poi si agisce con ipocrisia”. Anche chi si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto a giudizio, leggiamo in Matteo, così chi dice pazzo “sarà destinato al fuoco della Gaenna”. Come dire, siamo messi male un po’ tutti e quel “ma io vi dico” ci tocca davvero da vicino. Francesco si sofferma sull’esempio che troviamo in Matteo, dell’offerta all’altare e del riconciliarsi con il fratello: “facendo un’offerta a Dio si ricambiava la gratuità dei suoi doni”. Era un rito molto importante, ricorda, “tanto importante che era vietato interromperlo se non per motivi gravi. Ma Gesù afferma che si deve interromperlo se un fratello ha qualcosa contro di noi, per andare prima a riconciliarsi con lui: solo così il rito è compiuto”. Il messaggio è chiaro, afferma il Papa: “le norme religiose servono, sono buone, ma sono solo l’inizio: per dare loro compimento è necessario andare oltre la lettera e viverne il senso”. I comandamenti poi “non vanno rinchiusi nelle casseforti asfittiche dell’osservanza formale, se no rimaniamo in una religiosità esteriore e distaccata, servi di un ‘dio padrone’ piuttosto che figli di Dio Padre”. L’obbedienza alla legge che chiede Gesù è quella di chi è pronto ad accogliere l’amore che viene dal padre. La giustizia o l’ingiustizia non riguardano soltanto la sfera delle azioni, ma anche quella più profonda delle intenzioni e dei desideri del cuore. La fede afferma il vescovo di Roma “è una questione di calcoli, di formalismi, oppure una storia d’amore con Dio? Mi accontento di non fare del male, di tenere a posto ‘la facciata’, o cerco di crescere nell’amore a Dio e agli altri? E ogni tanto mi verifico sul grande comando di Gesù, mi chiedo se amo il prossimo come lui ama me? Perché magari siamo inflessibili nel giudicare gli altri e ci scordiamo di essere misericordiosi, com’è Dio con noi”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Sale e luce

6 Febbraio 2023 -
Roma - Deponete le armi dell’odio e della vendetta, superate antipatie e avversioni che contrappongono tribù e etnie; “impariamo a mettere sulle ferite il sale del perdono, che brucia ma guarisce”. È l’appello di papa Francesco al termine del pellegrinaggio ecumenico di pace in Sud Sudan, viaggio intrapreso “dopo aver ascoltato il grido di un intero popolo”. Questa giovane nazione ha bisogno “di padri e non di padroni, di passi stabili di sviluppo e non di continue cadute”, aveva detto nel suo primo discorso, rivolto alle autorità del paese; e lasciando Juba Francesco invita a essere sale e luce per portare speranza e pace, “una pace che integra le diversità e promuove l’unità nella pluralità”. Il Vangelo di ieri ci proponeva, con Matteo, proprio l’invito di Gesù di essere sale e luce del mondo. Siamo ancora su quella collina che degrada verso il mare di Galilea e Gesù fa questo invito a persone semplici, umili pescatori che avevano appena ascoltato il discorso delle beatitudini. Significativo il fatto che proprio coloro la cui vita è umile, povera, mite, piccola, quasi insignificante rispetto alle grandi cose del mondo, sono i destinati a portare sapore e luce. Il sale da sapore condisce, si scioglie: è diffuso e presente ma non lo vediamo. In molte culture è simbolo di sapienza, di amicizia, di condivisione. La legge ebraica prescriveva di mettere del sale sopra ogni offerta come segno di alleanza con Dio. La luce, poi, ci permette di vedere tutto ciò che ci circonda. Messa celebrata presso il mausoleo di John Garang, simbolo dell’indipendenza di questa giovane nazione. “Dinanzi a tante ferite, alle violenze che alimentano il veleno dell’odio, all’iniquità che provoca miseria e povertà – dice il Papa – potrebbe sembrarvi di essere piccoli e impotenti”. Ecco l’immagine del sale e dei suoi piccoli granelli che si sciolgono e danno sapore. “Così, noi cristiani, pur essendo fragili e piccoli, anche quando le nostre forze ci paiono poca cosa di fronte alla grandezza dei problemi e alla furia cieca della violenza, possiamo offrire un contributo decisivo per cambiare la storia”. Ecco l’appello a deporre le armi dell’odio e della vendetta. Le beatitudini, dice il vescovo di Roma, “rivoluzionano i criteri del mondo e del modo comune di pensare”, e ci dicono che per essere beati, felici “non dobbiamo cercare di essere forti, ricchi e potenti, bensì umili, miti, misericordiosi; non fare del male a nessuno, ma essere operatori di pace per tutti […] se mettiamo in pratica le Beatitudini, se incarniamo la sapienza di Cristo, non diamo un buon sapore solo alla nostra vita, ma anche alla società, al Paese dove viviamo”. Sulle ferite mettiamo “il sale del perdono, che brucia ma guarisce. E, anche se il cuore sanguina per i torti ricevuti, rinunciamo una volta per tutte a rispondere al male con il male”. Sale, ma anche luce. “Prima di preoccuparci delle tenebre che ci circondano, prima di sperare che qualcosa attorno si rischiari, siamo tenuti a brillare, a illuminare con la nostra vita e con le nostre opere le città, i villaggi e i luoghi che abitiamo, le persone che frequentiamo, le attività che portiamo avanti”. Così Francesco aggiunge: “non accada che la nostra luce si spenga, che dalla nostra vita scompaia l’ossigeno della carità, che le opere del male tolgano aria pura alla nostra testimonianza”. Al termine della celebrazione a Juba il vescovo di Roma ricorda santa Giuseppina Bakhita, originaria del Sudan e canonizzata, nel duemila, da Giovanni Paolo II “una grande donna, che con la grazia di Dio ha trasformato in speranza la sofferenza patita”. Speranza è la prima parola che il Papa lascia al Paese, “dono da condividere, seme che porti frutto”. Speranza nel segno della donna, di “tutte le donne del Paese”. Poi pace; più volte ha ripetuto, nella Repubblica del Congo, in Sud Sudan questa parola. Assieme all’arcivescovo anglicano Justin Welby e al pastore della chiesa di Scozia Iain Greenshields “continueremo – afferma – a accompagnare i vostri passi, tutti e tre insieme, facendo tutto quello che possiamo perché siano passi di pace, passi verso la pace”. A Maria affida “la pace nel mondo, in particolare i numerosi Paesi che si trovano in guerra, come la martoriata Ucraina”. (Fabio Zavattaro)

Sapersi fare da parte

16 Gennaio 2023 - Città del Vaticano - Ancora Giovanni Battista in primo piano nella pagina del Vangelo. Lo abbiamo incontrato domenica scorsa nell’atto di battezzare, nell’acqua del Giordano, Gesù che si era unito alla schiera di quanti erano in attesa di immergersi. Lo incontriamo di nuovo, dunque, non più e non solo il Battista, ma il testimone, colui che riconosce Gesù: “vede venire verso di lui” un uomo “che mi è passato avanti perché era prima di me” e dice è “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato dal mondo”, come leggiamo nel quarto Vangelo. Lasciata Nazareth è il primo atto pubblico di Gesù scendere al Giordano. Giovanni per due volte confessa di non conoscerlo eppure lo riconosce e lo chiama agnello di Dio. Facile il riferimento alla realtà agricola del tempo, mentre per i nostri giorni difficile pensare a un riferirsi al mondo contadino o più ancora alla tradizione biblica dove l’agnello era l’alimento centrale del pasto pasquale che ricordava, nella tradizione ebraica, l’uscita del popolo dalla schiavitù dell’Egitto, l’arrivo nella terra promessa e, dunque, la fine della migrazione. Giovanni ci presenta Gesù come il figlio di Dio, come colui che avrà un ruolo determinante nel cammino di liberazione di tutti gli uomini, come colui che alimenta e indica la speranza in un futuro migliore. La scena ci dice anche che Gesù ha scelto di essere il più possibile vicino a ogni uomo nonostante le nostre contraddizioni, i nostri peccati; vicino a chi soffre a causa della povertà, chi è ferito dalla violenza e dalla guerra, come nella “martoriata ucraina” verso la quale ancora una volta rivolge il suo pensiero e la preghiera perché finisca quanto prima il conflitto. Giovanni Battista ci dice anche l’importanza di sapersi mettere da parte, di lasciare il posto ad altri. Lui era stato inviato a preparare la strada al Signore e “umanamente – afferma Papa Francesco all’Angelus – si potrebbe pensare che gli venga riconosciuto un premio, un posto di rilievo nella vita pubblica di Gesù. Invece no. Giovanni, compiuta la sua missione, sa farsi da parte, si ritira dalla scena per fare posto a Gesù”. Ecco il grande messaggio che ci viene da Giovanni Battista: ha riconosciuto il Signore e ora “si mette a sua volta in umile ascolto; da profeta diventa discepolo”. Resta il primo testimone di Gesù, ricordava Benedetto XVI nel suo libro su Gesù di Nazareth, e “da autentico profeta, Giovanni rese testimonianza alla verità senza compromessi. Denunciò le trasgressioni dei comandamenti di Dio, anche quando protagonisti ne erano i potenti” e questo gli costò la vita. “Ha predicato al popolo, ha raccolto dei discepoli e li ha formati per molto tempo. Eppure – afferma Papa Francesco nelle parole che pronuncia prima della preghiera mariana – non lega nessuno a sé. E questo è difficile ma è il segno del vero educatore”. Giovanni “mette i suoi discepoli sulle orme di Gesù. Non è interessato ad avere un seguito per sé, a ottenere prestigio e successo, ma dà testimonianza e poi fa un passo indietro, perché molti abbiano la gioia di incontrare Gesù. Possiamo dire: apre la porta e se ne va”. La lezione di Giovanni Battista è proprio nel gesto di umiltà di farsi da parte, insegnando “la libertà dagli attaccamenti”. È facile, dice il vescovo di Roma, “attaccarsi a ruoli e posizioni, al bisogno di essere stimati, riconosciuti e premiati”. È naturale ma non è una cosa buona perché “il servizio comporta la gratuità, il prendersi cura degli altri senza vantaggi per sé, senza secondi fini, senza aspettare il contraccambio”. Questo è importante per il sacerdote “chiamato a predicare e celebrare non per protagonismo o per interesse, ma per accompagnare gli altri a Gesù”. È importante per i genitori “che crescono i figli con tanti sacrifici, ma poi li devono lasciare liberi di prendere la loro strada nel lavoro, nel matrimonio, nella vita”; non li lasciano soli ma la loro sarà una presenza “con discrezione, senza invadenza”. Vale anche per altri ambiti, ricorda Francesco, “come l’amicizia, la vita di coppia, la vita comunitaria. Liberarsi dagli attaccamenti del proprio io e saper farsi da parte costa, ma è molto importante: è il passo decisivo per crescere nello spirito di servizio, senza cercare il contraccambio”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Misericordia, vera giustizia

9 Gennaio 2023 - Città del Vaticano - Abbiamo ancora negli occhi le immagini delle esequie del Papa emerito, in questa domenica che chiude il tempo del Natale, e alla mente tornano le parole di Benedetto XVI nel primo libro su Gesù di Nazaret, quando scrive che “il significato pieno del battesimo di Gesù, il suo portare ‘ogni giustizia’ si rivela solo nella croce: il battesimo è l’accettazione della morte per i peccati dell’umanità, e la voce dal cielo ‘questi il figlio mio prediletto’ è il rimando anticipato alla risurrezione”. L’evangelista Matteo ci porta sulle rive del Giordano e ci mostra Gesù confuso tra la folla dei peccatori e Giovanni Battista che vorrebbe impedire a Gesù di immergersi nelle acque per il battesimo: “sono io che ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?” Quello amministrato da Giovanni era un atto penitenziale, un gesto che invitava all’umiltà verso Dio, e qui si capisce il perché del tentativo di rifiuto del Battista. In quell’andare al Giordano vi è un doppio movimento: Gesù scende nelle acque del fiume che scorre 400 metri sotto il livello del mare; scende dalla Galilea; scende per immergersi con gli altri peccatori per poi risalire verso il Padre, compiendo un cammino che lo porterà nel deserto e quindi a compiere la missione per la quale è stato inviato, cioè la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del peccato e del male. Quanta similitudine con il cammino del popolo di Israele che liberato dalla schiavitù, vaga nel deserto prima di raggiungere la terra promessa e bagnarsi nelle acque del fiume Giordano. Nella Cappella Sistina, dove Francesco, prima dell’Angelus, ha battezzato a 13 bambini, ai lati del Giudizio due opere del Perugino narrano questa similitudine attraverso il Battesimo di Gesù, a destra e, di fronte, Il viaggio di Mosè in Egitto: due diversi inizi di una storia che si intreccia. Francesco, nelle parole prima della preghiera mariana, afferma che facendosi battezzare “Gesù ci svela la giustizia di Dio, quella giustizia che lui è venuto a portare nel mondo”; una giustizia che “non ha come fine la condanna del colpevole, ma la sua salvezza, la sua rinascita, il renderlo giusto: da ingiusto a giusto. È una giustizia che viene dall’amore, da quelle viscere di compassione e di misericordia che sono il cuore stesso di Dio”. La giustizia di Dio “non vuole distribuire pene e castighi” ma “consiste nel rendere giusti noi suoi figli, liberandoci dai lacci del male, risanandoci, rialzandoci”. Gesù sulle rive del Giordano, ci dice che “la vera giustizia di Dio è la misericordia che salva”; abbiamo paura a pensarlo, dice Francesco, “ma Dio è misericordia, perché la sua giustizia è proprio la misericordia che salva, è l’amore che condivide la nostra condizione umana, si fa vicino, solidale con il nostro dolore, entrando nelle nostre oscurità per riportare la luce”. Tornano anche qui le parole di Benedetto XVI che a Erfurt, parlando nel settembre 2011 al Consiglio della chiesa evangelica in Germania, ricordava la domanda che inquietava Martin Lutero: come posso avere un Dio misericordioso. La giustizia di Dio è misericordiosa, afferma Francesco, e come Chiesa “siamo chiamati a esercitare in questo modo la giustizia, nei rapporti con gli altri, nella Chiesa, nella società: non con la durezza di chi giudica e condanna dividendo le persone in buone e cattive, ma con la misericordia di chi accoglie condividendo le ferite e le fragilità delle sorelle e dei fratelli, per rialzarli”. Così dice no il Papa al “chiacchiericcio che divide”, forse pensando alle dichiarazioni e voci non solo di questi giorni, tentativi di contrapporre il Papa emerito e il regnante con l’obiettivo di rompere la continuità e, soprattutto, quell’unità della chiesa che si proclama nel Credo. “Portiamo i pesi gli uni degli altri invece di chiacchierare e distruggere”, dice Francesco perché il chiacchiericcio “è un’arma letale: uccide, uccide l’amore, uccide la società, uccide la fratellanza”. Angelus nel quale Francesco torna a pregare per l’Ucraina, un Natale in guerra, e il suo pensiero va alle madri “dei soldati che sono caduti in questa guerra in Ucraina. Le mamme ucraine e le mamme russe”. Questo è il prezzo della guerra”. Chiede preghiere per le mamme che “hanno perso i figli soldati, siano ucraine siano russe”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Giuseppe, uomo del sì

19 Dicembre 2022 - Città del Vaticano - È la domenica di Giuseppe “uomo giusto”, come scrive Matteo nel suo Vangelo. Ieri, domenica, quarta di Avvento, che precede il Natale e ci fa capire che l’attesa si è conclusa e il Messia, promesso e atteso, non è più solo annuncio ma diventa evento, e si inserisce nella storia del popolo di Israele, ma anche nella storia dell’umanità. “Gesù Cristo, il Dio divenuto essere umano – scrive nelle meditazioni sul Natale Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano – significa che Dio ha assunto in carne e ossa tutta l’essenza umana; che d’ora in poi l’essenza divina può essere trovata solo in forma umana; che in Gesù Cristo ognuno è stato liberato per essere realmente persona davanti a Dio. Divenendo umano, Dio si manifesta come colui che non vuole esistere per sé, bensì per noi”. È un Dio che sceglie di nascere in un piccolo, sconosciuto villaggio della Palestina, Betlemme; che sceglie di nascere in una mangiatoria da una povera ragazza di Nazareth; che sceglie, infine, di vivere in mezzo al suo popolo. Sarà Maria a dare corpo e volto all’Emanuele, Dio con noi. Giuseppe, quando scopre la maternità della sua promessa sposa, deve sciogliere il vincolo nuziale: è la legge. Il mondo gli crolla addosso, dice Papa Francesco all’Angelus, svaniti i progetti di “una bella famiglia, con una sposa affettuosa e tanti bravi figli, e un lavoro dignitoso: sogni semplici e buoni, sogni della gente semplice e buona”. Di fronte alla notizia di questo bambino non suo, si chiede il Papa, “cosa avrà provato Giuseppe? Sconcerto, dolore, smarrimento, forse anche irritazione e delusione”. Nel diritto giudaico il fidanzamento, benché non ci fosse ancora convivenza, è come un anticipo del matrimonio, e crea un legame giuridico, in attesa dell’accoglimento in casa. Ma Giuseppe uomo giusto non vuole accusarla pubblicamente, e pensa di ripudiarla in segreto: “sceglie la via della misericordia”. Così, nel “pieno della crisi”, mentre riflette sulla scelta da prendere, “Dio accende nel suo cuore una luce nuova: in sogno gli annuncia che la maternità di Maria non viene da un tradimento, ma è opera dello Spirito Santo, e il bambino che nascerà è il Salvatore”. Quando si sveglia capisce che “il sogno più grande di ogni pio Israelita”, l’essere padre del Messia, si realizza “in modo assolutamente inaspettato”, afferma Francesco. L’irruzione di Dio nella storia dell’umanità ha sempre qualcosa di inatteso e stravolge i criteri e le attese dell’uomo. La “misteriosa” gravidanza di Maria sconvolge il mondo religioso e umano di Giuseppe. Ma egli compie un atto che va oltre la sua volontà, è l’obbedienza radicale alla volontà di Dio che gli permette di agire nel rispetto della legge e nel rispetto della sua futura sposa. Il suo “si” è paragonabile al “si” di Maria che si è lasciata guidare dalla mano del Signore. “Ecco che un semplice falegname si fida e affida a Dio “al di là di tutto” e accoglie Maria e suo figlio “in modo completamente diverso da come si aspettava”. Afferma il Papa: “Giuseppe dovrà rinunciare alle sue certezze rassicuranti, ai suoi piani perfetti, alle sue legittime aspettative e aprirsi a un futuro tutto da scoprire”. Davanti a Dio che gli scombina i piani egli ha il coraggio “eroico” di rispondere sì: “il suo coraggio è fidarsi, si fida, accoglie, è disponibile e non domanda ulteriori garanzie”. Giuseppe, dice il vescovo di Roma, “indica la via: non bisogna cedere a sentimenti negativi, come la rabbia e la chiusura”. Bisogna invece “accogliere le sorprese della vita, anche le crisi, con un’attenzione: quando si è in crisi non bisogna scegliere di fretta secondo l’istinto”, ma “fondarsi sul criterio di fondo: la misericordia di Dio”. E il Signore “è esperto nel trasformare le crisi in sogni: sì, Dio apre le crisi a prospettive nuove, che noi prima non immaginavamo, magari non come noi ci aspettiamo”. In questa vigilia di Natale, Papa Francesco guarda con preoccupazione alle crisi in atto. In primo luogo alla situazione nel Corridoio di Lachin, il punto di maggior vicinanza tra l'Armenia e l'enclave armena del Nagorno Karabakh in territorio dell’Azerbaigian, e chiede alle parti coinvolte soluzioni pacifiche, così come in Perù, auspicando la via del dialogo per il bene della popolazione. E non può mancare la preghiera per l’Ucraina; si rivolge a Madonna affinché tocchi “i cuori di quanti possono fermare la guerra”. (Fabio Zavattaro)

Quale volto ha il Messia che Giovanni si attende? Quale volto ha per l’uomo?

12 Dicembre 2022 - Città del Vaticano - Aveva pianto l’8 dicembre scorso davanti la statua della Madonna in piazza di Spagna, pensando ai bambini, agli anziani, ai padri e alle madri, ai giovani della martoriata terra dell’Ucraina. A Maria avrebbe voluto portare il ringraziamento “per la pace che da tempo chiediamo al Signore”. In questa domenica, la terza di Avvento caratterizzata dall’invito alla gioia, i bambini portano in piazza San Pietro le statuine di Gesù Bambino e Papa Francesco chiede loro di pregare affinché il Natale “porti un raggio di pace ai bambini del mondo intero, specialmente a quelli costretti a vivere i giorni terribili e bui della guerra, questa guerra in Ucraina che distrugge tante vite, e tanti bambini”. E pace chiede anche per il Sudan, dove sono riesplosi violenti scontri; paese che visiterà il prossimo febbraio insieme all’arcivescovo di Canterbury e al moderatore della chiesa di Scozia. Domenica nella quale troviamo Giovanni Battista in catene nell’oscurità del carcere, che manda i suoi discepoli a chiedere a Gesù: “sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” Che domanda drammatica, complessa ci offre il Vangelo di Matteo. Giovanni si trova al termine della sua missione e dubita, si interroga; come dire, non riconosce nel Cristo il Messia che lui ha predicato. Domanda che nasconde un altro interrogativo: quale volto ha il Messia che Giovanni si attende? Quale volto ha per l’uomo? Forse “un Messia severo che, arrivando, avrebbe fatto giustizia con potenza castigando i peccatori. Ora, invece, Gesù ha parole e gesti di compassione verso tutti, al centro del suo agire c’è la misericordia che perdona”. Certo sconvolge questo Gesù che sta a mensa con i peccatori, entra nella casa del pubblicano, che perdona e chiama alla conversione. Giovanni, dunque, è assalito dal dubbio, eppure aveva battezzato Gesù, indicandolo ai discepoli come l’Agnello di Dio. “Anche il più grande credente – afferma il Papa all’Angelus – attraversa il tunnel del dubbio. E questo non è un male, anzi, talvolta è essenziale per la crescita spirituale: ci aiuta a capire che Dio è sempre più grande di come lo immaginiamo; le opere che compie sono sorprendenti rispetto ai nostri calcoli; il suo agire è diverso, sempre, supera i nostri bisogni e le nostre attese; e perciò non dobbiamo mai smettere di cercarlo e di convertirci al suo vero volto”. Con le parole del grande teologo Henri de Lubac, Francesco ricorda che Dio “occorre riscoprirlo a tappe… talvolta credendo di perderlo”. Come fa Giovanni Battista, il quale, “nel dubbio, lo cerca ancora, lo interroga, ‘discute’ con lui e finalmente lo riscopre”. Anche noi, afferma il vescovo di Roma, possiamo trovarci “nella sua situazione, in un carcere interiore, incapaci di riconoscere la novità del Signore, che forse teniamo prigioniero della presunzione di sapere già tanto su di lui”. Giovanni ci insegna a non chiudere Dio nei nostri schemi: “abbiamo le nostre idee, i nostri pregiudizi e affibbiamo agli altri delle rigide etichette”; abbiamo nella testa l’immagine di un “Dio potente che fa ciò che vuole, anziché il Dio dell’umile mitezza, il Dio della misericordia e dell’amore, che interviene sempre rispettando la nostra libertà e le nostre scelte”. Ricordava Benedetto XVI: “non è la violenta rivoluzione del mondo, non sono le grandi promesse che cambiano il mondo, ma è la silenziosa luce della verità, della bontà di Dio che è il segno della sua presenza e ci dà la certezza che siamo amati fino in fondo e che non siamo dimenticati, non siamo un prodotto del caso, ma di una volontà di amore”. L’Avvento, dunque, è un tempo in cui, ricorda il Papa, “anziché pensare ai regali per noi, possiamo donare parole e gesti di consolazione a chi è ferito, come ha fatto Gesù con i ciechi, i sordi e gli zoppi”. E trovare il volto di Dio nei volti dei bambini anche di quelli che in piazza San Pietro sono venuti tenendo in mano il bambinello; nei volti dei tanti bambini feriti dalla guerra, in viaggio sulle rotte dei migranti, stremati dalla fame e dalla miseria. Lo troviamo in coloro che hanno offerto la propria vita per gli altri, in tanti testimoni della fede. L’Avvento, allora, “è un tempo di ribaltamento di prospettive, dove lasciarci stupire dalla grandezza della misericordia di Dio”. (Fabio Zavattaro - SIR)

Tempo di vegliare

28 Novembre 2022 - Città del Vaticano - Vegliare è il verbo che Matteo ci consegna in questa domenica, la prima del tempo di Avvento, tempo di attesa e di speranza: “la porta oscura del tempo, del futuro è stata spalancata – scrive Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi – chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”. Nella pagina del Vangelo Matteo ci chiede di essere sempre pronti ad accogliere il Signore, di ‘custodire’, per usare un verbo caro a Francesco, la speranza. Gesù è sul monte degli Ulivi, aveva detto ai suoi discepoli che il tempio sarebbe diventato un mucchio di rovine, senza indicare né il giorno, né l’ora. Ecco allora l’invito a vegliare, e a custodire la propria fede. “Tempo del concepimento di un Dio che ha sempre da nascere”, definisce l’Avvento padre David Maria Turoldo, che chiede al Signore di venire a vincere la notte, i silenzi, le solitudini. Tempo del ‘già e non ancora’, di un Dio che è presente nel nostro cammino, che ci accompagna e ci parla. Il Signore viene, ci fa visita, “si fa vicino e ritornerà alla fine dei tempi per accoglierci nel suo abbraccio”, afferma Papa Francesco nelle parole che precedono la preghiera mariana dell’Angelus. Il Signore “è presente nel nostro cammino, ci accompagna e ci parla”, ma forse siamo distratti da tante cose e “questa verità rimane per noi solo teorica; sì, sappiamo che il Signore viene ma non la viviamo questa verità, oppure immaginiamo che il Signore venga in modo eclatante, magari attraverso qualche segno prodigioso. Invece è quotidianamente con noi, “si nasconde nelle situazioni più comuni e ordinarie della nostra vita. Non viene in eventi straordinari, ma nelle cose di ogni giorno. E lì, nel nostro lavoro quotidiano, in un incontro casuale, nel volto di una persona che ha bisogno, anche quando affrontiamo giornate che appaiono grigie e monotone, proprio lì c’è il Signore, che ci chiama, ci parla e ispira le nostre azioni". Ecco allora il vigilare per non correre il rischio di non accorgerci della sua venuta, come accadde al tempo di Noè; "mangiavano e bevevano […] e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti”. Di qui l'invito di Papa Francesco, all’Angelus, per questo tempo di attesa: "lasciamoci scuotere dal torpore e svegliamoci dal sonno”; cerchiamo di “riconoscere la presenza di Dio nelle situazioni quotidiane”. Vegliare, dunque, come le cinque donne che, avendo messo da parte l’olio per le loro lampade, hanno accolto lo sposo al suo arrivo e partecipato al banchetto nuziale. Restiamo vigilanti, afferma il vescovo di Roma, perché “se non ci accorgiamo oggi della sua venuta, saremo impreparati anche quando verrà alla fine dei tempi”. L’attesa è fatta di pazienza e di liberazione; è una dimensione che attraversa tutta la nostra esistenza personale, familiare e sociale. L’attesa è presente in mille situazioni, da quelle più piccole e banali fino alle più importanti, che ci coinvolgono totalmente e nel profondo: “si potrebbe dire – affermava Benedetto XVI – che “l’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore è viva la speranza”. Angelus nel quale Francesco torna a condannare la violenza che è tornata a insanguinare la Terra Santa: “la violenza uccide il futuro, spezzando la vita dei più giovani e indebolendo le speranze di pace", ha affermato dopo la recita della preghiera mariana. Non solo, ha voluto ricordare la morte, a Gerusalemme, di uno studente ebreo di 16 anni e di un ragazzo palestinese di 14 anni ucciso nello stesso giorno dall'esercito israeliano negli scontri a Nablus, per dire: "spero che le autorità israeliane e palestinesi tengano maggiormente a cuore la ricerca del dialogo per costruire la fiducia reciproca senza la quale non ci sarà mai una soluzione di pace per la Terra Santa. Ancora, ha parole contro la violenza sessuale sulle donne, affermando come sia, purtroppo, "una realtà generale e diffusa dappertutto e utilizzata anche come arma di guerra. Non stanchiamoci di dire no alla guerra, no alla violenza, sì al dialogo, sì alla pace; in particolare per il martoriato popolo ucraino". E per il clochard, Burkhard Scheffler, morto a causa del freddo, venerdì 25 novembre, sotto il colonnato di piazza San Pietro. (Fabio Zavattaro - Sir)

Perseveranti, severi e decisi

14 Novembre 2022 - Città del Vaticano - In questa penultima domenica del tempo ordinario Paolo e Luca ci aiutano a riflettere sulla condizione umana; il primo, l’apostolo delle genti, affronta con la comunità di Tessalonica il tema della speranza e dell’operosità e chiede loro di allontanarsi da chi conduce una vita disordinata e oziosa. Luca, con le parole di Gesù, invita a vivere il tempo presente con sapienza, discernimento e perseveranza. Il Signore dice che ci saranno distruzioni e persecuzioni, ma, scrive l’evangelista, “non lasciatevi ingannare”, “non andate dietro” ai falsi profeti, “non vi terrorizzate”. L’invito è chiaro: non perdere la fiducia nella parola di Dio. Non è un caso che Luca termini il brano dicendo: nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Sorprendente questa frase: Gesù annuncia distruzioni, persecuzioni, sofferenze, eppure invita a non disperare, a perseverare anche nei giorni bui. È il tempo della contraddizione della speranza. Gesù parla dalla città di Gerusalemme che lo vedrà morire sulla croce, città che cadrà nel 70 dopo Cristo, il cui tempio sarà distrutto. Ma è proprio qui che avviene il fatto che pone in secondo piano tutte le altre cose, aprendo il cuore alla speranza: la resurrezione di Gesù. Nella domenica, Giornata mondiale dei poveri, l’invito che ci viene dalle letture, dice in San Pietro il Papa è di non lasciarsi ingannare, di non leggere “i fatti più drammatici in modo superstizioso o catastrofico, come se fossimo ormai vicini alla fine del mondo e non valesse la pena di impegnarci più in nulla di buono”; ancora, di non lasciarci guidare dalla paura magari affidandoci alle “fandonie di maghi o oroscopi, che non mancano mai” o a “qualche messia dell’ultim’ora, in genere sempre disfattisti e complottisti”. Ecco allora la parola perseveranza. Essere “severi, ligi, persistenti”, dice Francesco, in ciò che sta a cuore al Signore, concentrandoci “su ciò che resta, per evitare di dedicare la vita a costruire qualcosa che poi sarà distrutto, come quel tempio, e dimenticarsi di edificare ciò che non crolla, di edificare sulla sua parola, sull’amore, sul bene; perseveranti, severi e decisi “nell’edificare su ciò che non passa”, ovvero “costruire ogni giorno il bene”. La Giornata mondiale dei poveri è l’occasione, attraverso le parole di Gesù, di “rompere quella sordità interiore che tutti noi abbiamo e che ci impedisce di ascoltare il grido di dolore soffocato dei più deboli”, di “piangere con loro e per loro” nel vedere “quanta solitudine e angoscia si nascondono anche negli angoli dimenticati delle nostre città”. Lì si vede “tanta miseria e tanto dolore e tanta povertà scartata”. Nell’omelia in San Pietro Papa Francesco dice: “anche oggi viviamo in società ferite e assistiamo, proprio come ci ha detto il Vangelo, a scenari di violenza – basta pensare alle crudeltà che sta soffrendo il popolo ucraino –, di ingiustizia e di persecuzione”. Sull’Ucraina il vescovo di Roma tornerà anche nel discorso dopo la recita dell’Angelus parlando di terra martoriata: “la pace è possibile. Non rassegniamoci alla guerra”; alla “sciagura della guerra che provoca la morte di tanti innocenti e moltiplica il veleno dell’odio”. Oggi molto più di ieri, afferma il Papa nella basilica vaticana, “tanti fratelli e sorelle, provati e sconfortati, migrano in cerca di speranza, e tante persone vivono nella precarietà per la mancanza di occupazione o per condizioni lavorative ingiuste e indegne”. Di qui l’invito “forte e chiaro” che viene dalle parole del Vangelo a non lasciarci ingannare: “non diamo ascolto ai profeti di sventura; non facciamoci incantare dalle sirene del populismo, che strumentalizza i bisogni del popolo proponendo soluzioni troppo facili e sbrigative. Non seguiamo i falsi messia che, in nome del guadagno, proclamano ricette utili solo ad accrescere la ricchezza di pochi, condannando i poveri all'emarginazione", ha affermato il Papa. In mezzo all’scurità “accendiamo luci di speranza”, e nelle situazioni drammatiche cogliamo “occasioni per testimoniare il Vangelo della gioia e costruire un mondo più fraterno, almeno un po' più fraterno; impegniamoci con coraggio per la giustizia, la legalità e la pace, stando a fianco dei più deboli. Non scappiamo per difenderci dalla storia, ma lottiamo per dare a questa storia, che noi stiamo vivendo, un volto diverso". (Fabio Zavattaro - Sir)