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Acqua che rinnova

7 Novembre 2022 - Città del vaticano - Ha terminato il suo lungo viaggio verso Gerusalemme, viaggio che abbiamo seguito di domenica in domenica, attraverso il racconto di Luca. Gesù ha raggiunto, dunque, la sua meta, il luogo di quell’esodo del quale aveva parlato con Mosè e Elia sul monte della Trasfigurazione. Viaggio fatto anche di incomprensioni, incredulità, sconfitte. Le sue parole hanno colpito, convinto, cambiato; ma hanno anche messo in difficoltà le coscienze. Nel suo cammino ha guarito anche di sabato, ha mangiato nelle case dei peccatori. In questa domenica Gesù si trova coinvolto in una polemica tra farisei e sadducei – il partito dei sacerdoti, negano la risurrezione – e condivide le domande dell’uomo sulla vita, la morte. Anche Papa Francesco è al termine del suo viaggio in Bahrain, la prima volta di un Papa in questo arcipelago nel Golfo Persico, tra l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, Iran e l’Iraq. Paese a maggioranza musulmana, ma aperto alle altre religioni, come ha detto Abdulla Atiya Sayed nell’incontro con i giovani: nella scuola del Sacro Cuore “ho avuto l’opportunità di celebrare non solo l’Eid (la festa della rottura del digiuno che, nel mondo musulmano, segna la fine del Ramadan); ho celebrato il Natale, il Diwali (la festa delle luci nel mondo indiano) e molte altre feste che scaldano il cuore … non c’era discriminazione se uno partecipava alla festa dell’altro”. Proprio l’unità nella diversità è il primo grande messaggio che Papa Francesco ha voluto consegnare in Bahrain, omelia allo stadio nazionale, chiedendo di “non avere nemici, non vedere nell’altro un ostacolo da superare, ma un fratello e una sorella da amare”. Nelle parole pronunciate in questi giorni del suo 39mo viaggio apostolico, Francesco ha utilizzato diverse immagini da lasciare come momento di riflessione in questo paese dove “imponenti grattacieli affiancano i tradizionali mercati orientali, antichità e modernità convergono, storia e progresso si fondano; genti di varie provenienze formano un originale mosaico di vita”. Ecco l’albero della vita – “emblema di vitalità che caratterizza il paese” – una maestosa acacia che si trova in un’area desertica, dove le piogge sono scarso. Il messaggio è nelle radici e in questa pianta; dice il Papa: “pensiamo all’albero della vita e negli aridi deserti della convivenza umana distribuiamo l’acqua della fraternità: non lasciamo evaporare la possibilità dell’incontro tra civiltà, religioni e culture, non permettiamo che si secchino le radici dell’umano”. Così nell’incontro di preghiera svoltosi domenica prima della partenza, Papa Francesco, ricordando il Vangelo di Giovanni, ha parlato “dell’acqua viva che sgorga dal Cristo e dai credenti”, e ha riproposto l’immagine del deserto: “in superficie emerge la nostra umanità, inaridita da tante fragilità, paure, sfide che deve affrontare, mali personali e sociali di vario genere; ma nel sottofondo dell’anima, proprio dentro, nell’intimo del cuore, scorre calma e silenziosa l’acqua dolce dello Spirito, che irriga i nostri deserti, ridona vigore a quanto rischia di seccare, lava ciò che ci abbruttisce, disseta la nostra sete di felicità. E sempre rinnova la vita. È di questa acqua viva che parla Gesù”. La gioia è uno dei doni dello Spirito Santo assieme alla profezia e all’unità, ricorda Francesco. Per questo non può esserci spazio “”per le opere della carne, cioè dell’egoismo: per le divisioni, le liti, le maldicenze, le chiacchiere” che distruggono l’unità. Ancora, “le divisioni del mondo, e anche le differenze etniche, culturali e rituali, non possono ferire o compromettere l’unità dello Spirito”; e quando, a Pentecoste, lo Spirito del risorto “discende sui discepoli, diventa sorgente di unità e di fratellanza contro ogni egoismo”. Da qui scaturisce il messaggio del Papa, e, soprattutto, la preghiera per la fine dei conflitti che insanguinano il mondo. Francesco parla di Etiopia – “si continuino a percorrere le vie del dialogo” – di Libano, della “martoriata Ucraina”, preghiera “perché la guerra finisca”. Il Dio della pace, ha detto parlando ai membri del Muslim Council, “mai conduce alla guerra, mai incita all’odio, mai asseconda la violenza”; l’incontro, le trattative pazienti e il dialogo sono “l’ossigeno della convivenza comune”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Questione di sguardo

31 Ottobre 2022 -

Città del Vaticano - Due sguardi che si cercano: da una parte Zaccheo che cerca il rabbi di Galilea; dall’altra Gesù che cerca il volto di quell’uomo su un albero di sicomoro. Non uno stinco di santo, il pubblicano Zaccheo di Gerico, capo dei pubblicani, degli esattori dei tributi che i giudei dovevano pagare ai romani; non godeva di buona fama nella sua città, tutti lo conoscevano e tutti ne avevano timore. I pubblicani spesso approfittavano della loro posizione per estorcere denaro alla gente e per questo erano considerati pubblici peccatori. Zaccheo si faceva vedere raramente in giro, ma quel giorno non poteva non uscire. La gente di Gerico – città antichissima con i suoi 8 o forse 9 mila anni di storia – si accalcava sulle strade per vedere Gesù, e lui voleva essere tra i primi a incontrarlo. Lui che con i soldi aveva sempre comperato tutto, quel giorno non riesce a conquistare la prima fila. Allora sale su un albero. Si sistema bene tra i rami e guarda, cerca il rabbi di Galilea che tutti vogliono toccare. Ha un posto privilegiato, ancora una volta. Lui vuole vedere, cercare quel volto, ma è Cristo che lo cerca, lo vede e gli dice: “Zaccheo scendi subito perché oggi devo fermarmi a casa tua”.

Che sorpresa: lui, un pubblicano, scelto tra tanti, forse, avrà pensato, proprio per il suo ruolo nella comunità. Anche per la gente di Gerico è una sorpresa: Cristo che predica bene ma razzola male, va a casa di un peccatore; parla di povertà e va a mangiare a casa del ricco ladro. Ma Cristo rompe il cerchio e va al di là gli schemi ovvi: d’altra parte, non ha detto che è venuto proprio per i peccatori? “Il figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”, leggiamo in Luca. Nei Vangeli, nella Bibbia si incontrano peccatori: Giacobbe, ad esempio, era un traditore, Pietro un pescatore irascibile; David un adultero, Giona un ateo, Paolo un persecutore dei cristiani. Zaccheo, il pubblicano, sente il bisogno di “cercare un altro sguardo”, dice Papa Francesco all’Angelus, e “aspetta qualcuno che lo liberi della sua condizione, moralmente bassa, che lo faccia uscire dalla palude in cui si trova”. Zaccheo, “piccolo di statura”, è sul sicomoro e Gesù lo cerca, gli dice di scendere, di aprire la sua casa; per vederlo deve alzare lo sguardo. Afferma Francesco: “Dio non ci ha guardato dall’alto per umiliarci e giudicarci; al contrario si è abbassato fino a lavarci i piedi, guardandoci dal basso e restituendoci dignità”. Questo incrocio di sguardi per il vescovo di Roma, riassume “l’intera storia della salvezza: l’umanità con le sue miserie cerca la redenzione, ma anzitutto Dio con misericordia cerca la creatura per salvarla”. Lo sguardo di Dio, afferma il Papa, “non si ferma mai al nostro passato pieno di errori, ma guarda con infinita fiducia a ciò che possiamo diventare. E se a volte ci sentiamo persone di bassa statura, non all’altezza delle sfide della vita e tanto meno del Vangelo, impantanati nei problemi e nei peccati, Gesù ci guarda sempre con amore; come con Zaccheo ci viene incontro, ci chiama per nome e, se lo accogliamo, viene a casa nostra”. L’invito di Francesco è duplice: da un lato chiede di guardare noi stessi e di cercare l’incontro con Gesù quando ci sentiamo inadeguati e ci rassegniamo; dall’altro, ci chiede quale “sguardo abbiamo verso coloro che hanno sbagliato e faticano a rialzarsi dalla polvere dei loro errori? È uno sguardo dall’alto, che giudica, disprezza, che esclude?”. Per il Papa “è lecito guardare una persona dall’alto in basso soltanto per aiutarla a sollevarsi. Ma noi cristiani dobbiamo avere lo sguardo di Cristo, che abbraccia dal basso, che cerca chi è perduto, con compassione”. Questo è lo sguardo della Chiesa. Angelus nel quale Francesco, dopo la recita della preghiera mariana, ha parole per condannare l’attentato terroristico che a Mogadiscio ha ucciso più di cento persone, tra cui molti bambini: “Dio converta i cuori dei violenti”. Prega ancora, per le centinaia di vittime, soprattutto giovani, mentre, nella notte di Seul, festeggiavano lungo le strade della città. E prega sempre per la “martoriata Ucraina. Preghiamo per la pace, non ci stanchiamo di farlo”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Superbia spirituale

24 Ottobre 2022 - Città del Vaticano - Ci sono tre giovani che si affacciano dalla finestra dello studio accanto a Papa Francesco, dopo la recita della preghiera dell’Angelus. A Lisbona, nel mese di agosto del prossimo anno, ci sarà la Giornata mondiale della gioventù e il Papa e quei ragazzi sono i primi a iscriversi all’evento: “dopo un lungo periodo di lontananza, ritroveremo la gioia dell’abbraccio fraterno tra i popoli e tra le generazioni, di cui abbiamo tanto bisogno”. È la domenica dedicata alla Giornata missionaria; il Papa chiede di “sostenere i missionari con la preghiera e con la solidarietà concreta” affinché possano “proseguire nel mondo intero l’opera di evangelizzazione e di promozione umana”. Missionari che pagano con la vita la loro testimonianza, come la religiosa Suor Marie-Sylvie Kavuke Vakatsuraki uccisa, assieme a altre sei persone tre giorni fa nel villaggio di Maboya nella regione Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Ancora, è la domenica in cui Francesco prega “per l’unità e la pace dell’Italia” nel giorno in cui ha inizio il lavoro del nuovo Governo. E pace chiede per l’Etiopia – “la violenza non risolve le discordie, ma soltanto ne accresce le tragiche conseguenze” – per l’Ucraina “così martoriata”; e lo farà andando al Colosseo, martedì 25, assieme ai leader religiosi nell’incontro dal titolo “Il grido della pace”: “la preghiera è la forza della pace”. La preghiera è anche il tema centrale del brano del Vangelo di Luca, il pubblicano e il fariseo che salgono al tempio per pregare, un religioso e un peccatore ricorda il Papa. Salgono a pregare, ma sono due modi diversi di rivolgersi al Signore, tanto che, afferma Francesco, “soltanto il pubblicano si eleva veramente a Dio, perché con umiltà scende nella verità di sé stesso e si presenta così com’è, senza maschere, con le sue povertà”. Il fariseo, invece, prega come se Dio non ci fosse, è una preghiera incentrata sulla sua persona, si rivolge al Signore dicendo “ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”. Diceva Madre Teresa di Calcutta: chi giudica non ha il tempo per amare. Il Papa evidenzia i due verbi contenuti nella parabola riportata da Luca: salire e scendere. Il primo movimento, salire, richiama episodi della Bibbia, dice Francesco, “dove per incontrare il Signore si sale verso il monte della sua presenza: Abramo sale sul monte per offrire il sacrificio; Mosè sale sul Sinai per ricevere i comandamenti; Gesù sale sul monte, dove viene trasfigurato”. Salire “esprime il bisogno del cuore di staccarsi da una vita piatta per andare incontro al Signore”. Ma per “elevarci a Dio”, afferma ancora il vescovo di Roma, “c’è bisogno del secondo movimento: scendere”, perché per salire “dobbiamo scendere dentro di noi: coltivare la sincerità e l’umiltà del cuore”. Nell’umiltà “diventiamo capaci di portare a Dio, senza finzioni, ciò che realmente siamo, i limiti e le ferite, i peccati, le miserie che ci appesantiscono il cuore, e di invocare la sua misericordia perché ci risani, ci guarisca, ci rialzi. Sarà lui a rialzarci, non noi. Più noi scendiamo con umiltà, più Dio ci fa salire in alto”. Ecco la diversità della preghiera narrata nella parabola: il pubblicano “si ferma a distanza, non si avvicina, ha vergogna, chiede perdono, e il Signore lo rialza”. Invece il fariseo “si esalta, sicuro di sé”. La sua, afferma ancora il Papa, è “superbia spirituale”. Un rischio nel quale tutti possiamo cadere: così, “senza accorgerti, adori il tuo io e cancelli il tuo Dio. È un ruotare intorno a sé stessi. Questa è la preghiera senza umiltà”. L’invito di Francesco è di guardarci dentro, per capire se siamo come il pubblicano o il fariseo, se c’è “l’intima presunzione di essere giusti”, se ci “preoccupiamo dell’apparire anziché dell’essere, quando ci lasciamo intrappolare dal narcisismo e dall’esibizionismo”. Abbiamo bisogno di umiltà, per riconoscere i nostri limiti, i nostri errori ed omissioni, per poter veramente formare un cuore solo e un’anima sola”, diceva Benedetto XVI. Vigiliamo su narcisismo e esibizionismo, “fondati sulla vanagloria, che portano anche noi cristiani, noi preti, noi vescovi ad avere sempre una parola sulle labbra: io”. Così Papa Francesco ci dice che “dove c’è troppo io, c’è poco Dio”. Questa è la superbia spirituale. (Fabio Zavattaro - Sir)

La domenica del Papa: la preghiera rende forti

17 Ottobre 2022 - Nella pagina del Vangelo di ieri, Luca mette in primo piano un giudice, che non teme Dio e non ha rispetto per nessuno, e una vedova, cioè una persona che, assieme agli orfani e ai poveri, si trova, nella Bibbia, nella condizione di chi è senza difesa, è oppresso, esposto al sopruso, e, dunque, ha maggior bisogno di trovare chi possa prendere le sue difese. Con insistenza prega il giudice di darle giustizia, e questi alla fine cede: “anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”. L’evangelista chiude il racconto con una domanda: “il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” È una domanda seria, afferma all’Angelus Papa Francesco. Se il Signore venisse oggi sulla terra “vedrebbe, purtroppo, tante guerre, tanta povertà, tante disuguaglianze, e al tempo stesso grandi conquiste della tecnica, mezzi moderni e gente che va sempre di corsa, senza fermarsi mai; ma troverebbe chi gli dedica tempo e affetto, chi lo mette al primo posto? E soprattutto chiediamoci: che cosa troverebbe in me, se il Signore oggi venisse, che cosa troverebbe in me, nella mia vita, nel mio cuore?” C’è un fil rouge che lega la parabola riportata da Luca e la domanda che conclude la pagina del Vangelo: la preghiera nel tempo dell’attesa. Preghiera e fede stanno in un rapporto inscindibile: credere significa pregare. E se noi possiamo pregare solo grazie a una fede viva, è anche vero che la nostra fede resta viva grazie alla preghiera. Il contesto del racconto lucano è sempre il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che ormai è meta vicina. Ma vicino è anche il tempo della prova per lui e per i suoi discepoli. Allora assume un carattere del tutto particolare l’invito alla preghiera. Spesso ci concentriamo su cose urgenti ma non necessarie, dice Francesco ai fedeli in piazza San Pietro, “ci occupiamo e ci preoccupiamo di molte realtà secondarie; e magari, senza accorgerci, trascuriamo quello che più conta e lasciamo che il nostro amore per Dio si raffreddi poco a poco. Oggi Gesù ci offre il rimedio per riscaldare una fede intiepidita: la preghiera”. È “la medicina della fede, il ricostituente dell’anima”, afferma il Papa, ma deve essere costante: “se dobbiamo seguire una cura per stare meglio, è importante osservarla bene, assumere i farmaci nei modi e nei tempi dovuti, con costanza e regolarità”. Pregare per il vescovo di Roma è far entrare Dio “nel nostro tempo, nella nostra storia”. Preghiera che chiede per il “martoriato popolo ucraino e le altre popolazioni che soffrono per la guerra e ogni altra forma di violenza e di miseria”. Così ricorda l’iniziativa, il 18 ottobre, della Fondazione Aiuto alla chiesa che soffre: un milione di bambini che recitano il Rosario per la pace nel mondo. Dalla parabola, inoltre, emerge in modo chiaro che la preghiera rende forte una persona debole. Una vedova, che sembra non avere nemmeno figli, o quantomeno non se ne fa menzione, è in una posizione sociale ed economica non solo irrilevante, ma anche esposta a soprusi, abusi ed egoismi da parte di persone prepotenti. Continua a chiedere giustizia con ostinatezza a un giudice iniquo che non ha alcuna intenzione di perdere tempo con lei finché ottiene ciò che vuole e che è nel suo diritto. Se perfino il giudice disonesto ha fatto giustizia alla donna per la sua insistenza, “Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?” leggiamo in Luca. Anche nella prima lettura tratta dall’Esodo, la battaglia contro Amalek e Mosè che alza le sue braccia al cielo, la forza debole della preghiera vince non per la guerra, ma la battaglia per la pace. E ci dice anche che l’impegno della preghiera richiede di sostenerci l’un l’altro, come fecero Aronne e Cur con Mosè. Per questo Gesù parla “ai suoi discepoli – a tutti, non solo ad alcuni – della necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”. Per questo ricorda “una pratica spirituale sapiente, che si è oggi un po’ dimenticata, e che i nostri anziani, soprattutto le nonne, conoscono bene”, le giaculatorie: piccoli “messaggini” per restare “sintonizzati con il Signore”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La guarigione, anche dal peccato, è un cammino

10 Ottobre 2022 - “Gesù, maestro, abbi pietà di noi”. Dieci lebbrosi, dieci morti viventi. Uomini colpiti da una malattia che per la Bibbia e la cultura dell’epoca equivaleva alla morte. Lo chiamano per nome chiedendo il suo aiuto. Solo in due altre occasioni viene invocato con il suo nome nel Vangelo di Luca: dal cieco di Gerico e dal buon ladrone sulla croce. Tutto avviene ai margini del villaggio, “lungo il cammino verso Gerusalemme”. È la terza volta che l’evangelista ci ricorda che Gesù è in cammino verso la città santa, la sua, e la nostra, meta ultima. La strada lo porta a attraversare la Galilea e la Samaria. Nei pressi del villaggio i dieci uomini con le ferite della lebbra, cioè segnati dal peccato e per questo allontanati, emarginati, si avvicinano e lo chiamano “Gesù, maestro” e chiedono misericordia. Lui, non avvicinandosi, ordina loro di fare ciò che la legge comandava di fare ai lebbrosi, cioè di recarsi dai sacerdoti perché giudicassero lo stato della loro malattia. Non li guarisce subito, come ha fatto in altri casi, non li tocca nemmeno, ma li invia da coloro che devono attestarne la guarigione. I dieci, obbedendo, entrano nel villaggio e si rendono conto, camminando, di essere guariti: “e mentre essi andavano, furono purificati”. La guarigione, anche dal peccato, è un cammino. Proprio la dimensione del camminare insieme e del ringraziare, sono il cuore della riflessione di Papa Francesco, nell’omelia per la canonizzazione del vescovo Giovanni Battista Scalabrini e di Artemide Zatti. All’inizio del brano, Luca ci dice che “non c’è nessuna distinzione tra il samaritano e gli altri nove. Semplicemente si parla di dieci lebbrosi, che fanno gruppo tra di loro e, senza divisione, vanno incontro a Gesù”. Sottolinea il Papa: “il samaritano, anche se ritenuto eretico, straniero, fa gruppo con gli altri. Fratelli e sorelle, la malattia e la fragilità comuni fanno cadere le barriere e superare ogni esclusione”. Il numero dieci sta a significare l’intera umanità. Questo vuol dire che siamo tutti malati, peccatori, bisognosi di misericordia, dice Francesco, allora “smettiamo di dividerci in base ai meriti, ai ruoli che ricopriamo o a qualche altro aspetto esteriore della vita, e cadono così i muri interiori, cadono i pregiudizi. Così, finalmente, ci riscopriamo fratelli”. Dobbiamo essere capaci di camminare insieme agli altri, “di ascoltare, di superare la tentazione di barricarci nella nostra autoreferenzialità e di pensare solo ai nostri bisogni. Ma camminare insieme – cioè essere 'sinodali' - è anche la vocazione della Chiesa”. L’invito di Francesco è di essere comunità “aperte e inclusive verso tutti”. Di più, dice di avere paura “quando vedo comunità cristiane che dividono il mondo in buoni e cattivi, in santi e peccatori: così si finisce per sentirsi migliori degli altri e tenere fuori tanti che Dio vuole abbracciare”. Di qui la richiesta di “includere sempre, nella Chiesa come nella società, ancora segnata da tante disuguaglianze ed emarginazioni”. Ricordando la figura e l’opera di Scalabrini, Francesco parla di “scandalosa esclusione dei migranti”; parla del Mediterraneo come “cimitero più grande del mondo. L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale”. L’altro aspetto toccato dal Papa, la capacità di ringraziare: dei lebbrosi guariti, ci dice Luca, nove vanno per la loro strada, torna solo il samaritano, cioè l’eretico per il giudaismo del tempo. È una brutta “malattia spirituale dare tutto per scontato, anche la fede”. Dice “no” il Papa a “cristiani che non si sanno più stupire, che non sanno più dire grazie”: sono “cristiani all’acqua di rose”. L’altro santo, Artemide Zatti, guarito dalla tubercolosi “dedicò tutta la vita a gratificare gli altri, a curare gli infermi con amore e tenerezza”. È una “grande lezione anche per noi che beneficiamo ogni giorno dei doni di Dio, ma spesso ce ne andiamo per la nostra strada dimenticandoci di coltivare una relazione viva, reale con lui”. Nel dopo Angelus, Papa Francesco ricorda i 60 anni dall’apertura del Concilio: anche allora, dice pensando al conflitto nel cuore dell’Europa, vi era il pericolo di una guerra nucleare che minacciava il mondo, “c’erano conflitti e grandi tensioni, ma si scelse la via pacifica”: perché non imparare dalla storia? (Fabio Zavattaro - SIR)

La domenica del Papa: in nome di Dio, tacciano le armi

3 Ottobre 2022 - Città del Vaticano - 221 giorno del conflitto in Ucraina, per la prima volta Papa Francesco si rivolge direttamente ai presidenti Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. L’andamento della guerra, dice, “è diventato talmente grave, devastante e minaccioso, da suscitare grande preoccupazione”, e rischia di trascinare il mondo in un conflitto atomico dalle conseguenze devastanti. Angelus diverso, atipico in piazza San Pietro; non commenta il Vangelo di Luca – dialogo con gli apostoli sul tema della fede – ma guarda direttamente al conflitto nel cuore dell’Europa, e manifesta tutta la sua preoccupazione per una crisi che rischia di allargarsi sempre più, per le conseguenze della guerra iniziata da Mosca. Tra un paio di settimane sono 60 anni dalla crisi dei missili di Cuba e, forse, è questo anniversario a spingere il Papa a rivolgersi direttamente ai due leader, come fece Giovanni XXIII con John Kennedy e Nikita Kruscev. Già il primo settembre 2013 Francesco scelse di dedicare alla guerra in Siria la riflessione che precede la preghiera dell’Angelus, per farsi interprete “del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace”. Così domenica parla di una ferita “terribile e inconcepibile” che “continua a sanguinare sempre più”; di “fiumi di sangue e di lacrime versati in questi mesi”; di migliaia di vittime, di bambini, di distruzioni, di famiglie senza casa minacciate da freddo e fame, di “luoghi di sofferenze e paure indescrivibili”, di assurda minaccia atomica: “certe azioni non possono mai essere giustificate”. Cos’altro deve succedere, si chiede Francesco, “quanto sangue deve ancora scorrere perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione? In nome di Dio, e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate-il-fuoco. Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”. Soluzioni nel rispetto del valore della vita umana, “della sovranità e integrità di ogni paese”, dei diritti delle minoranze. Preoccupa la situazione, le azioni contrarie ai principi del diritto internazionale, e il “rischio di una escalation nucleare, fino a far temere conseguenze incontrollabili e catastrofiche a livello mondiale”. Nel giorno in cui Luca, nel suo Vangelo, scrive di una fede intensa, forte, che sa sperare contro ogni speranza – è la fede incrollabile di Abramo; è l’audacia di Giorgio La Pira che anima i colloqui di pace nel nord Africa, in Medio Oriente, ma anche nell’Est europeo e in Unione Sovietica, dove ai delegati del Soviet Supremo si rivolge dicendo che centinaia di suore di clausura stanno pregando per questa visita e per voi – Papa Francesco supplica il presidente della Federazione Russa “di fermare, anche per amore del suo popolo, questa spirale di violenza e di morte”; e rivolge “un altrettanto fiducioso appello” al presidente ucraino, “addolorato per l’immane sofferenza della popolazione ucraina a seguito dell’aggressione subita”, al quale chiede di “essere aperto a serie proposte di pace”. La sua sembra la voce di uno che grida nel deserto; voce inascoltata. Da Francesco, appello anche ai responsabili delle Nazioni ai quali chiede “con insistenza di fare tutto quello che è nelle loro possibilità per porre fine alla guerra in corso, senza lasciarsi coinvolgere in pericolose escalation, e per promuovere e sostenere iniziative di dialogo”. Facciamo respirare ai giovani dice il Papa “l’aria sana della pace, non quella inquinata della guerra, che è una pazzia”. In questi sette mesi del conflitto, il vescovo di Roma non ha mai fatto mancare la sua voce per chiede la pace, e mettere fine a violenze e morti. Così questa domenica chiede che si faccia ricorso “a tutti gli strumenti diplomatici” per far finire “questa immane tragedia: la guerra in sé stessa è un errore e un orrore”. Preghiera, dunque, confidando “nella misericordia di Dio, che può cambiare i cuori”, e nell’intercessione di Maria Regina della pace, nel giorno in cui, ricorda Francesco, nel Santuario di Pompei si recita la supplica alla Madonna del Rosario. (Fabio Zavattaro - Sir)

Il Pane eucaristico

26 Settembre 2022 - Città del Vaticano - Una porta, quasi semplice velo li separa. Fuori, sulla strada, c’è un uomo che tende la mano per fame, per miseria; che si accontenta di raccogliere le briciole che cadono dal tavolo dell’altro uomo “vestito di porpora e di bisso”. Fuori c’è Lazzaro è un mendicante “coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi … perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe”, leggiamo il Luca. Nella casa abita un ricco mercante che l’evangelista indica solo con un aggettivo – “ricco” – perché, afferma il Papa, “ha perduto il suo nome e la sua identità è data solo dai beni che possiede. Com’è triste anche oggi questa realtà, quando confondiamo quello che siamo con quello che abbiamo, quando giudichiamo le persone dalla ricchezza che hanno, dai titoli che esibiscono, dai ruoli che ricoprono o dalla marca del vestito che indossano. È la religione dell’avere e dell’apparire, che spesso domina la scena di questo mondo, ma alla fine ci lascia a mani vuote”. È a Matera, la città del pane, Papa Francesco, chiude il 27° Congresso eucaristico nazionale, e la sua riflessione sul brano di Luca, prende spunto dal Pane eucaristico, che “crea condivisione, rafforza i legami, ha gusto di comunione”. Il ricco della parabola pensa solo al proprio benessere, a soddisfare i suoi bisogni e godersi la vita: “soddisfatto di sé, ubriacato dal denaro, stordito dalla fiera delle vanità, nella sua vita non c’è posto per Dio perché egli adora solo sé stesso”. Non così Lazzaro, il nome significa “Dio aiuta”, il quale “pur nella sua condizione di povertà e di emarginazione, egli può conservare integra la sua dignità perché vive nella relazione con Dio” che è “la speranza incrollabile della sua vita”. Francesco mette in guardia dall’adorare noi stessi, moriremmo “nell’asfissia del nostro piccolo io; se adoriamo le ricchezze di questo mondo, esse si impossessano di noi e ci rendono schiavi; se adoriamo il dio dell’apparenza e ci inebriamo nello spreco, prima o dopo la vita stessa ci chiederà il conto”. Mentre quando adoriamo il Signore Gesù “riceviamo uno sguardo nuovo anche sulla nostra vita”. Il ricco del Vangelo non ascolta il grido silenzioso del povero alla sua porta. Solo alla fine della vita, all’inferno, leggiamo in Luca, vede Lazzaro accanto a Abramo al quale chiede di mandarlo “a intingere nell’acqua la punta del dito per bagnarmi la lingua”. Una goccia d’acqua come le briciole della ricca mensa. Abramo risponde: “tra noi e voi è stato fissato un grande abisso”, un muro invalicabile come la porta che li divideva nella vita. Viene alla mente la notissima poesia di Totò – “a livella” – in cui il nobile marchese di Belluno e Treviso si lamenta perché vicino a lui è stato sepolto l’umile e povero netturbino; Totò fa rispondere il netturbino che dice: le pagliacciate delle differenze, delle distanze le fanno solo i vivi “nuje simmo serie… appartenimmo à morte”. Una parabola – Lazzaro e il ricco epulone – che è ancora storia dei nostri giorni, afferma il vescovo di Roma: “le ingiustizie, le disparità, le risorse della terra distribuite in modo iniquo, i soprusi dei potenti nei confronti dei deboli, l’indifferenza verso il grido dei poveri, l’abisso che ogni giorno scaviamo generando emarginazione, non possono lasciarci indifferenti”. L’Eucaristia “è profezia di un mondo nuovo”, e la presenza di Gesù impegno “perché accada un’effettiva conversione”: dall’indifferenza alla compassione; dallo spreco alla condivisione, dall’egoismo all’amore, dall’individualismo alla fraternità”. Il sogno di Francesco: “una Chiesa eucaristica” capace di essere accanto ai tanti Lazzaro che troviamo lungo le nostre strade, “asciugando le lacrime di chi soffre”. Una chiesa comunità che chiede pace in Ucraina, in Myanmar, da dove è giunto il grido di dolore dei bambini morti in una scuola bombardata – “si vede che è di moda bombardare le scuole oggi”. La guerra, dice il cardinale Matteo Zuppi salutando il Papa, “brucia i campi di grano, toglie il pane e fa morire di fame, trasforma i fratelli in nemici. Quelli che hanno la tavola imbandita e mandano a fare la guerra i poveri”. Una chiesa, afferma ancora Papa Francesco, capace di guardare ai migranti che “vanno accolti, accompagnati, promossi e integrati”. Una chiesa, quella in Italia, alla quale osa chiede “più nascite, più figli”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La domenica del Papa: la scaltrezza del bene

19 Settembre 2022 - Città del Vaticano - Il tema del rapporto con la ricchezza, con il denaro, attraversa questa pagina di Luca. Da leggere bene perché sembra un controsenso rispetto a quanto Gesù va dicendo, nel suo cammino verso la città di Gerusalemme, la meta cui tendere. Una pagina che si inserisce tra il racconto del padre misericordioso che accoglie il figlio tornato dopo aver sperperato la sua parte di eredità, il Vangelo di domenica scorsa, e la parabola del ricco, di cui non conosciamo il nome, e di Lazzaro, la prossima domenica. Anche le letture sono in sintonia con il tema delle ricchezze: il profeta Amos pone in primo piano la giustizia sociale, e in modo particolare nei confronti dei più deboli, e condanna le ingiustizie operate: “voi che calpestate il povero e sterminate gli ultimi”. Nella sua lettera a Timoteo, Paolo invita a pregare per coloro che hanno responsabilità di governo “perché possano condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”. Brani che, possiamo dire, sottintendono una domanda: ciò che conta e dà sicurezza è il denaro? Eccoci alla pagina dell’amministratore scaltro, e anche un po’ imbroglione, che il padrone licenzia. Leggiamo in Luca, che “per farsi degli amici” condona una parte di quanto i debitori devono al suo datore di lavoro. Compie una frode, in sostanza, ma il padrone, saputo il fatto, si congratula con lui. E qui cominciano i nostri problemi: si può lodare un imbroglione, che “agisce con furbizia, cerca una soluzione, è intraprendente”? Papa Francesco, all’Angelus, spiega che Gesù “prende spunto da questa storia per lanciarci una prima provocazione: i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Capita cioè che, chi si muove nelle tenebre, secondo certi criteri mondani, sa cavarsela anche in mezzo ai guai, sa essere più furbo degli altri; invece, i discepoli di Gesù, cioè noi, a volte siamo addormentati, oppure siamo ingenui “. Come dire, c’è un’astuzia mondana e c’è, contrapposta, l’astuzia cristiana, o almeno dovrebbe. Nei momenti “di crisi personale, sociale, ma anche ecclesiale” dice il Papa, “a volte ci lasciamo vincere dallo scoraggiamento, o cadiamo nella lamentela e nel vittimismo. Invece – dice Gesù – si potrebbe anche essere scaltri secondo il Vangelo, essere svegli e attenti per discernere la realtà, essere creativi per cercare soluzioni buone, per noi e per gli altri”. Ecco l’insegnamento sull’utilizzo dei beni che Francesco sottolinea: “fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Le congratulazioni, se così possiamo dire, non sono per l’azione ingiusta, ma per l’atto dell’amministratore di farsi degli amici. Per ereditare la vita eterna, afferma il Papa, “non serve accumulare i beni di questo mondo, ma ciò che conta è la carità che avremo vissuto nelle nostre relazioni fraterne”. Cristo ci chiede di non usare i beni di questo mondo solo per il nostro “egoismo”, ma “servitevene per generare amicizie, per creare relazioni buone, per agire nella carità, per promuovere la fraternità ed esercitare la cura verso i più deboli”. Anche nel mondo di oggi, sottolinea Papa Francesco, vi sono “storie di corruzione come quella che il Vangelo ci racconta; condotte disoneste, politiche inique, egoismi che dominano le scelte dei singoli e delle istituzioni, e tante altre situazioni oscure”. Tuttavia, i cristiani non possono scoraggiarsi o “lasciar correre, restare indifferenti. Al contrario, siamo chiamati – afferma il vescovo di Roma – a essere creativi nel fare il bene, con la prudenza e la scaltrezza del Vangelo, usando i beni di questo mondo - non solo quelli materiali, ma tutti i doni che abbiamo ricevuto dal Signore - non per arricchire noi stessi, ma per generare amore fraterno e amicizia sociale”. Nelle parole che pronuncia dopo la preghiera mariana, esprime vicinanza alle famiglie delle vittime dei combattimenti tra l’Azerbaigian e l’Armenia: “la pace è possibile quando tacciono le armi e incomincia il dialogo”. Prega per il “martoriato popolo ucraino e per la pace in ogni terra insanguinata dalla guerra”. E ha un pensiero per le popolazioni delle Marche colpite da una violenta inondazione: “il Signore dia forza a quelle comunità”. (Fabio Zavattaro -Sir)

La Domenica del Papa: alla ricerca di ciò che manca

12 Settembre 2022 - Città del vaticano - La pecora smarrita, il soldo perduto, il figlio prodigo, sono le tre parabole che troviamo nel Vangelo di ieri, domenica 11 settembre, e che hanno degli elementi chiave comuni: la debolezza del cristiano, la misericordia del Padre, e la gioia di un Dio che agisce nella storia dell’uomo: “vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti, i quali non hanno bisogno di conversione”, leggiamo in Luca. Peccato e perdono: Mosè, la prima lettura, chiede perdono per il popolo che ha costruito il vitello d’oro; Paolo scrive a Timoteo, seconda lettura, per ricordare che Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori; ma è nel Vangelo che Gesù mostra il volto di un Dio che “non esclude nessuno, tutti desidera al suo banchetto, perché tutti ama come figli, nessuno escluso”, afferma il Papa all’Angelus, per il quale le tre parabole “riassumono il cuore del Vangelo: Dio è Padre e ci viene a cercare ogni volta che siamo perduti”. Interessante notare che queste tre parabole Gesù le pronuncia parlando con pubblicani e peccatori, mentre, nello stesso tempo, è oggetto delle “mormorazioni” di scribi e farisei, cioè i maestri della legge, che disapprovano, scandalizzati, la prassi di incontrare persone di cattiva reputazione; “costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Anche scribi e farisei non negano l’accoglienza a chi si è pentito, ma la diversità di Gesù sta proprio nel fatto che egli esprime amicizia, affetto ancora prima del loro pentimento: il primo sentimento non è il giudizio, ma l’accoglienza. Le tre parabole hanno un aspetto comune, dice il Papa, ovvero “l’inquietudine per la mancanza”: della pecora, ma ne ha altre novantanove; della moneta, ma ne ha altre; del figlio partito, ma a casa c’è il fratello maggiore. Invece nel cuore del pastore, della donna, del padre “c’è l’inquietudine per quello che manca: la pecora, la moneta, il figlio che è andato via. Chi ama si preoccupa di chi manca, ha nostalgia di chi è assente, cerca chi è smarrito, attende chi si è allontanato”. Questa è l’inquietudine di Dio, la misericordia di Dio, che arriva là dove non arrivano gli uomini con il loro perdono; arriva ancora prima, perché sa cosa c’è nel cuore di ogni uomo. Forse siamo un po’ come quel figlio maggiore che si sente messo da parte nel momento in cui ritorna il fratello e non siamo capaci di gioire. Come scribi e farisei giudichiamo ingiusto “sederci a tavola con il peccatore”. Dio invece gioisce quando ritrova ciò che era perduto: il pastore riporta nell’ovile la pecora tenendola sulle spalle; la donna spazza tutta la casa per ritrovare la moneta e vuole far festa con le vicine; il padre stravolge la vita della casa per quel figlio che torna. Dio, dice il Papa, “non è tranquillo se ci allontaniamo da lui, è addolorato, freme nell’intimo e si mette in movimento per venirci a cercare […] non calcola le perdite e i rischi, ha un cuore di padre e di madre, e soffre per la mancanza dei figli amati”. Questa stessa inquietudine Francesco chiede anche di farla nostra, quando guardiamo chi si è allontanato dalla vita cristiana. “Chi manca nelle nostre comunità - ha domandato il papa - ci manca davvero? Oppure stiamo bene tra di noi, tranquilli e beati nei nostri gruppi, senza nutrire compassione per chi è lontano?”. Ecco, allora, l’invito a riflettere sulle nostre relazioni: “prego per chi non crede, per chi è lontano? Attiriamo i distanti attraverso lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza? Pensiamo a qualche persona che conosciamo, che sta accanto a noi e che magari non ha mai sentito nessuno che le dica: ‘Sai? Tu sei importante per Dio’”. Angelus alla vigilia del viaggio in Kazakistan, 13 al 15 settembre, per prendere parte al Congresso dei leaders delle religioni mondiali e tradizionali. “Occasione per incontrare tanti rappresentanti religiosi e dialogare da fratelli, animati dal comune desiderio di pace, di cui il nostro mondo è assetato”. Non ci sarà, però, il Patriarca di Mosca Kirill, incontro prima annunciato e poi da lui cancellato a causa del conflitto in Ucraina. Il Papa chiede di pregare, e ricorda la presenza del cardinale Konrad Krajewski, prefetto del dicastero per la carità, visita per “testimoniare concretamente la vicinanza del Papa e della Chiesa”. (Fabio Zavattaro - Sir)

La domenica del Papa: Beato il Papa del sorriso

5 Settembre 2022 - Città del Vaticano - Un pontificato durato 33 giorni, il tempo di un sorriso, come titolò il quotidiano parigino Le Monde. Ieri, domemica 4 settembre, papa Francesco ha proclamato beato Giovanni Paolo I, il Papa che “con il suo sorriso è riuscito a trasmettere la bontà del Signore”. Cerimonia in una piazza San Pietro bagnata dalla pioggia, e gremita di fedeli venuti in gran parte da Belluno, l’Agordino, Vittorio Veneto e Venezia. Sulla facciata della basilica vaticana il ritratto ufficiale del nuovo beato, opera di un artista cinese, Yan Zhang, originario della provincia di Sichuan. L’artista, che ha vissuto in Tibet, spiritualità buddhista, nel ritratto ha voluto mettere in primo piano proprio il tema del sorriso, trasmesso da tutto il corpo di Luciani, omaggio al Papa che, con il suo sorriso, ha mostrato “una Chiesa con il volto lieto, il volto sereno, il volto sorridente, una Chiesa che non chiude mai le porte, che non inasprisce i cuori, che non si lamenta e non cova risentimento, non è arrabbiata, non è insofferente, non si presenta in modo arcigno, non soffre di nostalgie del passato cadendo nell’indietrismo”. La misura dell’amore, per Luciani, è un “amore intramontabile” perché il Signore “ha sempre gli occhi aperti su di noi – diceva Giovanni Paolo I il 10 settembre 1978 – anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre”. Humilitas il motto di Luciani, che si lega bene con la pagina evangelica di questa domenica, dove Luca ci ricorda che lo stile di Dio “non è quello di chi cerca il potere, ma quello di chi ama anche se questo “costa la croce del sacrificio, del silenzio, dell’incomprensione, della solitudine, dell’essere ostacolati e perseguitati”. Un Dio che “non ha il culto dei numeri, non cerca il consenso, non è un idolatra del successo personale. Al contrario, sembra preoccuparsi quando la gente lo segue con euforia e facili entusiasmi. Così, invece di lasciarsi attrarre dal fascino della popolarità – perché la popolarità affascina –, chiede a ciascuno di discernere con attenzione le motivazioni per cui lo segue e le conseguenze che ciò comporta”. Ecco quell’umiltà che Luciani ha praticato lungo tutto il suo servizio. Amare, dunque, “anche se costa la croce del sacrificio, del silenzio, dell’incomprensione, della solitudine, dell’essere ostacolati e perseguitati”. Se vuoi baciare Gesù crocifisso, diceva Luciani il 27 settembre, ultima udienza del suo Pontificato, “non puoi fare a meno di piegarti sulla croce e lasciarti pungere da qualche spina della corona, che è sul capo del Signore”. Seguirlo, per Francesco, “non significa entrare in una corte o partecipare a un corteo trionfale, e nemmeno ricevere un’assicurazione sulla vita. Al contrario, significa anche “portare la croce: come lui, farsi carico dei pesi propri e dei pesi degli altri, fare della vita un dono, non un possesso, spenderla imitando l’amore generoso e misericordioso che egli ha per noi”. In Luca leggiamo che per essere discepoli di Gesù bisogna essere pronti a lasciare la propria casa, amarlo più del proprio padre, della propria madre, moglie e figli. Andare dietro al Signore, ricorda nell’omelia Papa Francesco, significa non fare scelte “mondane”, non cercare “la mera soddisfazione dei propri bisogni, la ricerca del prestigio personale, il desiderio di avere un ruolo, di tenere le cose sotto controllo, la brama di occupare spazi e di ottenere privilegi, l’aspirazione a ricevere riconoscimenti”. Questo non è lo stile di Gesù, che invece chiede “scelte che impegnano la totalità dell’esistenza”; per questo desidera che il discepolo non anteponga nulla “neanche gli affetti più cari e i beni più grandi”. Umiltà, dunque. Luciani, nella sua prima udienza generale, 6 settembre, ha voluto parlare proprio della grande virtù dell’umiltà, affermando – “a rischio di dire uno sproposito”, dirà – che il Signore “tanto ama l'umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli, quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi”. (Fabio Zavattaro - Sir)