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Il posto dell’umile

29 Agosto 2022 - Citta del Vaticano - Diciannove giorni prima, nella notte del 9 aprile 2009, un terremoto di magnitudo 5,8 aveva praticamente raso al suolo la città e ucciso 309 persone. Il 28 aprile a L’Aquila arriva Papa Benedetto XVI e, superando le resistenze degli addetti alla sicurezza, entra nella basilica di Santa Maria di Collemaggio ferita dalla violenza del sisma e avvolta dalle impalcature. Pochi passi per raggiungere la teca con i resti di Papa Celestino V, e poi quel gesto che ancora oggi, dopo la rinuncia del 2013, fa riflettere: si toglie il pallio, e lo pone sul cristallo. Domenica Papa Francesco entra nella basilica di Collemaggio, ancora sotto restauro, e si ferma a pregare davanti la teca di Pietro del Morrone monaco eremita benedettino, eletto Papa nel 1294 con il nome di Celestino V. Per la prima volta un Papa compie il rito dell’apertura della Porta santa della basilica, battendo tre volte sull’anta di sinistra con un ramo d’ulivo del Getsemani: è la 728ma Perdonanza celestiniana. Un tempo di perdono, dice Francesco, che non deve limitarsi a una sola volta l’anno, “ma sempre. È così, infatti, che si costruisce la pace, attraverso il perdono ricevuto e donato”. È il Papa del “gran rifiuto”, come si legge nel terzo canto dell’Inferno della Divina Commedia di Dante. Ma “Celestino V non è stato l’uomo dei ‘no’, è stato l’uomo dei ‘si’” dice Francesco nell’omelia della messa celebrata sul piazzale della basilica. Questo perché, ricorda, “non esiste altro modo di realizzare la volontà di Dio che assumendo la forza degli umili. Proprio perché sono tali, gli umili appaiono agli occhi degli uomini deboli e perdenti, ma in realtà sono i veri vincitori, perché sono gli unici che confidano completamente nel Signore e conoscono la sua volontà”. È ai miti che Dio rivela i suoi segreti: “nello spirito del mondo, che è dominato dall’orgoglio, la Parola di Dio di oggi ci invita a farci umili e miti. L’umiltà non consiste nella svalutazione di sé stessi, bensì in quel sano realismo che ci fa riconoscere le nostre potenzialità e anche le nostre miserie”. Celestino è stato “testimone coraggioso del Vangelo” e in lui “noi ammiriamo una Chiesa libera dalle logiche mondane e pienamente testimone di quel nome di Dio che è la Misericordia”. Ci ha lasciato “il privilegio di ricordare a tutti che con la misericordia, e solo con essa, la vita di ogni uomo e di ogni donna può essere vissuta con gioia. Misericordia è l’esperienza di sentirci accolti, rimessi in piedi, rafforzati, guariti, incoraggiati”. Omelia nel giorno in cui il Vangelo pone in primo piano la parabola del banchetto nuziale e della scelta del posto da occupare: “quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto”. Ovviamente non è una lezione di galateo, né tantomeno una forma di protocollo da rispettare; ciò che Cristo mette in evidenza, nel brano lucano, è l’umiltà: è il messaggio delle beatitudini, della capacità di scegliere una strada diversa da quella che il mondo propone; di non seguire le mode, spesso passeggere, del tempo. Il valore di ognuno non dipende dal posto che occupa in questo mondo. “L’uomo non è il posto che detiene, ma è la libertà di cui è capace e che manifesta pienamente quando occupa l’ultimo posto, o quando gli è riservato un posto sulla Croce”. E il cristiano sa che la sua vita è “una carriera alla maniera di Cristo … Finché non comprenderemo che la rivoluzione del Vangelo sta tutta in questo tipo di libertà, continueremo ad assistere a guerre, violenze e ingiustizie, che altro non sono che il sintomo esterno di una mancanza di libertà interiore. Lì dove non c’è libertà interiore, si fanno strada l’egoismo, l’individualismo, l’interesse, la sopraffazione”. L’Aquila sia davvero “capitale di perdono, di pace e di riconciliazione”; e per l’intercessione di Maria auspica “per il mondo intero il perdono e la pace” Il Papa ha voluto presenti in prima fila i familiari delle vittime del terremoto che hanno realizzato una Cappella della Memoria: “la memoria è la forza di un popolo, e quando questa memoria è illuminata dalla fede, quel popolo non rimane prigioniero del passato, ma cammina e cammina nel presente rivolto al futuro, sempre rimanendo attaccato alle radici e facendo tesoro delle esperienze passate, buone e cattive. E con questo tesoro e queste esperienze va avanti”: Jemo ’nnanzi! (Fabio Zavattaro - Sir)

La porta stretta

22 Agosto 2022 - Città del Vaticano  - “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” Ancora una volta una domanda lungo il cammino che lo porterà a vivere la sua Pasqua a Gerusalemme. Ma ciò che salta subito agli occhi, nel brano di Luca di questa domenica, è l’immagine che diventa risposta: la porta stretta attraverso cui passare. La domanda è posta nello stile tipico delle dispute tra scuole di rabbini di diverso orientamento, e viene posta in termini volutamente astratti. Chiedere quanti saranno coloro che si salveranno, nasconde la convinzione di poter stabilire criteri, confini riguardo alla salvezza e al giusto rapporto con Dio. La risposta di Gesù va contro chi pensa in questo modo per poter decidere chi sta dentro e chi è fuori, chi ha torto e chi ha ragione. Gesù non risponde offrendo cifre né elencando regole cui attenersi, ma spiazza l’interlocutore con la logica della misericordia: vi sono ultimi che saranno primi e primi che saranno ultimi. È il messaggio che torna più volte nei racconti degli evangelisti, è quell’andare contro corrente, non cedere alle mode del tempo; messaggio che sintetizza la predicazione delle beatitudini e invita a scoprirsi fratelli nonostante le differenze. La sua risposta è soprattutto in quella porta stretta: “molti cercheranno di entrare ma non ci riusciranno”. La porta è sì stretta, ma non si tratta di “un’immagine che potrebbe spaventarci come se la salvezza fosse destinata solo a pochi eletti o ai perfetti” dice Papa Francesco all’Angelus. Infatti, Luca chiarisce bene il concetto: “verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi”. Cosa significa, allora, la porta stretta. Chi è stato al monastero di Santa Caterina sul Sinai – o a Gerusalemme è entrato nel sepolcro di Gesù nella basilica – ha ben presente quella piccola porta attraverso la quale si accede. Voluta così per impedire, ad esempio, che si entrasse a cavallo, con le armi. In sostanza bisognava spogliarsi di tutto ciò che connotava l’identità del cavaliere e del guerriero. La porta stretta è, dunque, invito a spogliarsi delle “armi” dell’orgoglio, è fatica e lotta personale. Ma è porta aperta a tutti. Così Francesco ricorda il Vangelo di Giovanni – Gesù che dice “io sono la porta: se uno entra attraverso di me sarà salvato” – per affermare che “per entrare nella vita di Dio, nella salvezza, bisogna passare attraverso di lui, non di un altro; accogliere lui e la sua Parola”. Quella del cristiano, afferma ancora Francesco, è una vita “a misura di Cristo, fondata e modellata su di lui”, sul suo Vangelo, “non quello che pensiamo noi, ma quello che ci dice lui. Si tratta di una porta stretta non perché sia destinata a pochi, ma perché essere di Gesù significa seguirlo, impegnare la vita nell’amore, nel servizio e nel dono di sé come ha fatto lui, che è passato per la porta stretta della croce. Entrare nel progetto di vita che Dio ci propone, chiede di restringere lo spazio dell’egoismo, di ridurre la presunzione dell’autosufficienza, di abbassare le alture della superbia e dell’orgoglio e di superare la pigrizia per attraversare il rischio dell’amore, anche quando comporta la croce”. Una vita fatta di gesti concreti, gesti d’amore: “pensiamo ai genitori che si dedicano ai figli facendo sacrifici e rinunciando al tempo per sé stessi; a coloro che si occupano degli altri e non solo dei propri interessi” dice Papa Francesco. “Pensiamo a chi si spende al servizio degli anziani, dei più poveri e dei più fragili; pensiamo a chi va avanti a lavorare con impegno, sopportando disagi e magari incomprensioni; pensiamo a chi soffre a motivo della fede, ma continua a pregare e ad amare”, a coloro che “rispondono al male con il bene, e trovano la forza di perdonare e il coraggio di ricominciare”. Qui il pensiero, nel dopo Angelus, va alla chiesa del Nicaragua dove sono stati arrestati il vescovo di Matagalpa insieme a sacerdoti, seminaristi e laici. Il Papa esprime “preoccupazione e dolore” e auspica “un dialogo aperto e sincero”, attraversi il quale “si possano ancora trovare le basi per una convivenza rispettosa e pacifica”. Senza dimenticare il popolo ucraino che “sta vivendo un’immane crudeltà”. (Fabio Zavattaro - SIR)

La parte migliore

18 Luglio 2022 - Città del Vaticano - Agire, ascoltare. Sono i due verbi che accompagnano la riflessione di queste due domeniche di luglio: agire, l’agire misericordioso, è il Vangelo di domenica scorsa, appartiene al buon samaritano che si china per aiutare la vittima della violenza abbandonata sul ciglio della strada. Ascoltare – ascolto della parola di Dio – è l’atto che Maria, la sorella di Marta, compie una volta ospitato Gesù nella loro casa di Betania. Potremmo quasi dire che in questa pagina del Vangelo Luca pone in primo piano il tema dell’ospitalità, che significa, certo, condividere la casa e il cibo, ma ancor di più trovare il tempo per ascoltare l’altro, per essere accanto all’ospite accolto. Marta, come il buon samaritano, si spende per l’altro, nel caso per il Signore che è entrato nella sua casa e si ribella all’immobilità della sorella che “seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola”. Luca, in questa pagina del Vangelo, ripropone, in modo diverso, quanto è tramandato dal Talmud, dove si legge che il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torah, il culto e le opere di misericordia. Per l’evangelista l’ascolto della Parola – “nella capacità dell’ascolto c’è la radice della pace”, dice il Papa – è in mezzo e unisce il fare misericordia e pregare. Perché è proprio nell’ascolto della Parola che troviamo la guida per i nostri gesti verso i fratelli e per comprendere meglio il senso e il valore della preghiera. Marta si lamenta e si rivolge a Gesù chiedendogli di dire a Maria di aiutarla. La risposta ancora una volta sorprende, “ribalta il nostro modo di pensare”, afferma Francesco all’Angelus: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”. La risposta di Gesù è da un lato impegno a riconoscere “la generosa premura di Marta”; dall’altro sottolinearle che “c’è un ordine di priorità nuovo, diverso da quello che fino a allora aveva seguito”, c’è una “parte migliore cui va dato il primo posto”, ovvero l’ascolto della parola di Gesù, e tutto il resto, afferma il Papa, “viene dopo, come un corso d’acqua che scaturisce dalla sorgente”. Altra sottolineatura del vescovo di Roma, Maria è seduta ai piedi di Gesù, perché “ha capito che lui non è un ospite come gli altri. A prima vista sembra che sia venuto a ricevere, perché ha bisogno di cibo e di un alloggio, ma in realtà il Maestro è venuto per donarci sé stesso mediante la sua parola”. La “parte migliore” perché la sua, afferma Francesco, non è una parola astratta, “è un insegnamento che tocca e plasma la vita, la cambia, la libera dalle opacità del male, appaga e infonde una gioia che non passa”. Ecco perché Maria si ferma e ascolta: il resto verrà dopo. E quell’ascolto, dice il Papa, “non toglie nulla al valore dell’impegno pratico, però esso non deve precedere, ma sgorgare dall’ascolto della parola di Gesù, dev’essere animato dal suo Spirito. Altrimenti si riduce a un affannarsi e agitarsi per molte cose, si riduce a un attivismo sterile”. Il tempo delle vacanze, per Francesco, può essere anche il tempo dell’ascolto, perché oggi “si fa sempre più fatica a trovare momenti liberi per meditare. Per tante persone i ritmi di lavoro sono frenetici, logoranti. Il periodo estivo può essere prezioso anche per aprire il Vangelo e leggerlo lentamente, senza fretta, un passo ogni giorno, un piccolo passo del Vangelo”. E “lasciamoci interrogare da quelle pagine, domandiamoci come sta andando la nostra vita, se è in linea con ciò che dice Gesù o non tanto”. Domenica nella quale Francesco ricorda il suo prossimo viaggio in Canada, partirà domenica prossima; “pellegrinaggio penitenziale” lo definisce, per contribuire al “cammino di guarigione e riconciliazione” e ricorda che “molti cristiani, compresi alcuni membri di istituti religiosi, hanno contribuito alle politiche di assimilazione culturale che, in passato, hanno gravemente danneggiato, in diversi modi, le comunità native”. Infine, esprime vicinanza e chiede la fine delle violenze e un dialogo per il bene comune in Sri Lanka. Quindi nuovo appello per la martoriata Ucraina: “la guerra crea solo distruzione e morte, allontanando i popoli, uccidendo la verità e il dialogo”. Per questo chiede che riprendano i negoziati, per non “alimentare l’insensatezza della guerra”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Vedere. E avere compassione

11 Luglio 2022 - Città del Vaticano - Su una strada che scende da Gerusalemme due uomini si incontrano occasionalmente: uno è ferito, anzi mezzo morto, come leggiamo in Luca. L’altro è uno straniero, proveniente dalla regione della Samaria, che non conosce la legge, come il sacerdote e il levita – quel sistema di cinquecento e più comandamenti e divieti che andavano ad aggiungersi ai dieci comandamenti, per gli ebrei dell’antica Alleanza – ma sa vedere la sofferenza di una persona e si ferma a soccorrere. Il brano è molto noto, il buon Samaritano, e giunge dopo due domande che un dottore della legge ha rivolto a Gesù; un dialogo tra lo scriba, l’esperto della Torà, e Gesù in cammino verso Gerusalemme: Cosa devo fare per ereditare la vita eterna? Chi è il mio prossimo? Domande che hanno una risposta fatta non di parole, ma di azioni, di gesti. “Che cosa sta scritto nella legge? Come leggi?” gli chiede Gesù; e il dottore della legge cita a memoria il Deuteronomio – Sh’ma Israel… Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima… - e il Levitico – “amerai il tuo prossimo come te stesso”. La risposta, gli ricorda Gesù, è nell’ascolto della Parola: “fa questo e vivrai”. Il racconto del Samaritano, che “ebbe compassione” dell’uomo malmenato dai briganti e lasciato sul bordo della strada, e lo ha soccorso, chiede un comportamento da imitare; l’altro, con le sue povertà, le sue difficoltà, è il prossimo che incontriamo sul nostro cammino e che ci interpella con la sua presenza. Ricorda Papa Francesco, che i primi cristiani erano chiamati “discepoli della via, cioè del cammino”. Il credente somiglia molto al Samaritano, dice all’Angelus: “come lui è in viaggio, è un viandante. Sa di non essere una persona ‘arrivata’, ma vuole imparare ogni giorno, mettendosi al seguito del Signore Gesù”. Il Signore “non è un sedentario, ma sempre in cammino”, così il cristiano: “camminando sulle orme di Cristo, diventa un viandante, e impara – come il Samaritano – a vedere e ad avere compassione”. Lo scriba e il levita “vedono il malcapitato ma è come se non lo vedessero, passano oltre, guardano da un’altra parte”. Francesco ricorda che il Vangelo “ci educa a vedere, guida ognuno di noi a comprendere rettamente la realtà, superando ogni giorno preconcetti e dogmatismi”; ci insegna a seguire Gesù, a “avere compassione, a accorgerci degli altri, soprattutto di chi soffre, di chi ha bisogno”. La parabola evangelica non chiede di “colpevolizzare o colpevolizzarsi”, ma di non andare oltre e fermarsi; “dobbiamo riconoscere quando siamo stati indifferenti e ci siamo giustificati, ma non fermiamoci lì. Lo dobbiamo riconoscere, è uno sbaglio, ma chiediamo al Signore di farci uscire dalla nostra indifferenza egoistica e di metterci sulla Via. Chiediamogli di vedere e avere compassione” di quanti incontriamo “lungo il cammino, soprattutto di chi soffre ed è nel bisogno, per avvicinarci e fare quello che possiamo per dare una mano”, afferma Francesco. Vedere e non andare oltre. Come nel gesto dell’elemosina, già ricordato dal Papa. Compiuto il gesto “tu tocchi la mano della persona alla quale dai la moneta […] guardi gli occhi di quella persona?”. Vedere, dunque, e avere compassione: “se tu dai l’elemosina senza toccare la realtà, senza guardare gli occhi della persona bisognosa, quella elemosina è per te, non per lei. Pensa a questo: io tocco le miserie, anche quelle miserie che aiuto? Io guardo gli occhi delle persone che soffrono, delle persone che aiuto?” Nelle parole pronunciate dopo la preghiera mariana dell’Angelus, Francesco torna a guardare alla guerra in Ucraina – “prego per tutte le famiglie, specialmente per le vittime, i feriti, i malati; prego per gli anziani e per i bambini. Che Dio mostri la strada per porre fine a questa folle guerra” – e rivolge un appello per la pace nello Sri Lanka: “imploro coloro che hanno autorità di non ignorare il grido dei poveri e le necessità della gente”. Infine, rivolge un pensiero speciale al popolo della Libia, che soffre per i gravi problemi sociali e economici, e chiede soluzioni nel dialogo costruttivo e nella riconciliazione nazionale. (Fabio Zavattaro - Sir)

Mangiare, saziare

20 Giugno 2022 - Città del Vaticano - Mangiare, saziare. Sono i due verbi con i quali Papa Francesco ci parla, all’Angelus, della festa del Corpo e Sangue di Cristo – Corpus Domini – e del Vangelo che narra la famosissima pagina della moltiplicazione dei cinque pani e dei due pesci, evento che tutti gli evangelisti propongono, anzi Matteo e Marco lo ricordano due volte. Luca non scrive, come fa Giovanni, che in quei giorni era vicina la Pasqua, non parla nemmeno del ragazzo al quale si rivolge Andrea perché in possesso di cinque pani – pane d’orzo, il pane dei poveri – e due pesci. Ciò che conta in Luca è il dialogo tra Gesù e i suoi apostoli: la folla ha seguito il Maestro fin nel bel mezzo del deserto, ha ascoltato la sua parola e ora è affamata; impossibile dare a tutta la gente cibo a sufficienza, impossibilità acquistarlo per tutti con i soli duecento denari. La soluzione è semplice per gli apostoli: “congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”. Ancora una volta Gesù mette alla prova i suoi: fa una richiesta che sa non essere praticabile: date voi stessi da mangiare. Conosce già la risposta, ma vuole che siano i discepoli a trovare la soluzione, così li chiama all’impegno personale. Anche Papa Francesco, all’Angelus chiama tutti a un impegno personale per non dimenticare “il martoriato popolo ucraino in questo momento, popolo che sta soffrendo”. Ecco allora la domanda che rivolge a coloro che lo ascoltano: “vorrei che rimanga in tutti voi una domanda: cosa faccio io oggi per il popolo ucraino? Prego? Mi do da fare? Cerco di capire? Cosa faccio oggi per il popolo ucraino? Ognuno risponda nel proprio cuore”. Torniamo alla pagina di Luca. Per gli apostoli, che ragionano ancora con la logica del mondo, la soluzione è semplice: che le persone si arrangino, vadano a cercare altrove il cibo. In Gesù c’è la certezza che tutto è possibile a Dio, per questo dice ai suoi: “voi stessi date loro da mangiare” come scrive Luca. Ordina di far sedere la gente, a gruppi di cinquanta, sull’erba. Come dice il Salmo “il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare”. Poi benedice quel poco che gli viene portato, e che diventa il tanto con il quale sfama la folla, e ciò che resta del pasto viene messo in dodici canestri. Allora, ecco i due verbi che Francesco propone nella sua riflessione domenicale: mangiare e saziare, “due fondamentali necessità che nell’eucaristia vengono appagate” Mangiare. Il pane “aumenta passando di mano in mano. E mentre mangia, la folla si rende conto che Gesù si prende cura di tutto”. Il Signore è “presente nell’Eucaristia: ci chiama ad essere cittadini del Cielo, ma, intanto, tiene conto del cammino che dobbiamo affrontare qui in terra”. Non va confinata l’eucaristia “in una dimensione vaga, lontana, magari luminosa e profumata di incenso, ma lontana dalle strettoie del quotidiano”. Il Signore ha a cuore tutti i nostri bisogni, sottolinea Francesco, che aggiunge: “la nostra adorazione eucaristica trova la sua verifica quando ci prendiamo cura del prossimo, come fa Gesù: attorno a noi c’è fame di cibo, ma anche di compagnia, c’è fame di consolazione, di amicizia, di buonumore, c’è fame di attenzione, c’è fame di essere evangelizzati”. Nel pane eucaristico c’è “l’attenzione di Cristo alle nostre necessità, e l’invito a fare altrettanto verso chi ci è accanto”. Con quelle parole Gesù invita i discepoli a fare una conversione: dalla logica del “ciascuno per sé” a quella della condivisione. Secondo verbo, saziare, anzi essere saziati. “La folla si saziò per l’abbondanza di cibo, e anche per la gioia e lo stupore di averlo ricevuto da Gesù”. Abbiamo bisogno di alimentarci, ma anche “di essere saziati”, cioè di sapere che “il nutrimento ci venga dato per amore”. Nell’eucaristia troviamo la presenza di Cristo, “la sua vita donata per ognuno di noi. Non ci dà solo l’aiuto per andare avanti, ma ci dà sé stesso: si fa nostro compagno di viaggio, entra nelle nostre vicende, visita le nostre solitudini, ridando senso ed entusiasmo”. È proprio questo, afferma Papa Francesco, che “ci sazia”, perché il Signore “dà senso alla nostra vita, alle nostre oscurità, ai nostri dubbi”. È questo “senso” che ci dà il Signore che “ci sazia, ci dà quel di più che tutti cerchiamo: cioè la presenza del Signore”. (Fabio Zavattaro - sir)

Con i fatti, prima che con le parole

13 Giugno 2022 - Città del Vaticano - Il conflitto in Ucraina, il mancato viaggio nella Repubblica del Congo e in Sud Sudan, la piaga del lavoro minorile, nelle parole di Papa Francesco, in questa domenica in cui si celebra la festa della Santissima Trinità, che conclude il tempo pasquale. Per Papa Francesco questa domenica è l’occasione per ricordare la guerra in corso nel cuore dell’Europa, un conflitto che non deve vedere, nonostante il tempo che passa, un raffreddamento “del nostro dolore e della nostra preoccupazione per quella gente martoriata”. Preghiamo e lottiamo per la pace, e “non abituiamoci a questa tragica realtà, abbiamola sempre nel cuore”. Anche il Sud Sudan ha vissuto una guerra civile durata sette anni dopo l’indipendenza ottenuta non senza spargimento di sangue in un lungo conflitto durano cinquant’anni. Era la tappa, insieme alla Repubblica del Congo, del viaggio programmato per i primi di luglio, rimandato per problemi alla gamba: “vi chiedo scusa per questo”, dice il Papa ai popoli dei due paesi. “Preghiamo insieme perché, con l’aiuto di Dio e delle cure mediche, io possa venire tra voi al più presto. Siamo fiduciosi”. Insieme al “no” alla guerra, il vescovo di Roma dice il suo “no” al lavoro minorile: “impegniamoci tutti per eliminare questa piaga, perché nessun bambino o bambina sia privato dei suoi diritti fondamentali e costretto o costretta a lavorare. Quella dei minori sfruttati per il lavoro è una realtà drammatica che ci interpella tutti”. Con questa domenica la liturgia torna al tempo ordinario; abbiamo celebrato la Pentecoste, ci prepariamo a vivere il Corpus Domini, e ci troviamo a mettere in primo piano la festa che celebra la vita di Dio che è comunione nelle tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Una festa per cogliere, nella loro totalità, i fatti accaduti a partire dall’ingresso a Gerusalemme, dalla Pasqua fino appunto alla Pentecoste. Una festa “strana”, perché non fa memoria di un evento della vita di Cristo, ma si richiama a una definizione dei concili di Nicea, del 325, e di Costantinopoli, sessanta anni più avanti: la Trinità appunto, o, come fa qualche teologo, la Tri-unità. È festa che rinnoviamo ogni volta che facciamo il segno della croce: siamo “figli di un Padre che si è donato gratuitamente e da cui siamo creati e a cui apparteniamo; fratelli del figlio di Dio, Gesù, mandato dal Padre per salvarci e talmente vicino a noi da essere pane di vita, abitati dall’amore stesso di Dio, lo Spirito Santo, ricevuto nel battesimo, effuso su di noi nella cresima, che assiste e da forza nella difficile nostra vita”, ricordava monsignor Antonio Riboldi. Festeggiare la Santissima Trinità, dice all’Angelus Papa Francesco, “non è tanto un esercizio teologico, ma una rivoluzione del nostro modo di vivere. Dio, nel quale ogni Persona vive per l’altra in continua relazione, in continuo rapporto, non per sé stessa, ci provoca a vivere con gli altri e per gli altri. Aperti” Festa che chiama a riflettere sul “Dio in cui crediamo”. Il Papa chiede: “credo davvero che per vivere ho bisogno degli altri, ho bisogno di donarmi agli altri, ho bisogno di servire gli altri? Lo affermo a parole o lo affermo con la vita?” Ecco la sfida di questa festa, mostrare il Dio uno e trino “con i fatti prima che con le parole. Dio, che è autore della vita, si trasmette meno attraverso i libri e più attraverso la testimonianza di vita”. Non è un Dio spray, diceva Francesco nel 2013, ma è concreto: Dio è amore. Amare vuol dire “non solo volere bene e fare del bene, ma prima ancora, alla radice, accogliere, essere aperto agli altri, fare posto agli altri, dare spazio agli altri. Questo significa amare, alla radice”. Pensiamo alle persone buone, generose e miti che abbiamo incontrato. Pensiamo alle parole che pronunciamo con il segno della croce: “in ciascun nome c’è la presenza dell’altro. Il Padre, ad esempio, non sarebbe tale senza il Figlio, così pure il Figlio non può essere pensato da solo, ma sempre come Figlio del Padre. E lo Spirito Santo, a sua volta, è Spirito del Padre e del Figlio”. La Trinità, ricorda Francesco, “ci insegna che non si può mai stare senza l’altro. Non siamo isole, siamo al mondo per vivere a immagine di Dio: aperti, bisognosi degli altri e bisognosi di aiutare gli altri”. Fabio Zavattaro - Sir)

Le due azioni dello Spirito

6 Giugno 2022 - Città del Vaticano - Si compiono i cinquanta giorni dalla Pasqua: Pentecoste, la fiamma che arde, lo Spirito Santo che si manifesta come fuoco, vento. Dalla Pasqua gli apostoli si erano sempre ritrovati assieme nel Cenacolo per ascoltare le scritture e pregare. Le porte chiuse per paura. Improvvisamente “un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso e riempì tutta la casa dove stavano”. Negli Atti degli Apostoli leggiamo cosa accadde, mentre calava la sera. Un terremoto il cui fragore è avvertito anche fuori, tanto da richiamare molta gente davanti la porta di quella casa. Potremmo dire che si è trattato di una grande scossa, ma interiore, un processo di cambiamento di coloro che per cinquanta giorni sono rimasti chiusi dentro le mura della casa: la paura lascia spazio al coraggio, l’egoismo all’amore. E quella porta chiusa si apre al mondo, rappresentato, negli Atti, da quell’elenco di popoli che abitavano la città. Il “crollo” avviene dunque dentro le persone. Un vento impetuoso, questo l’auspicio, dovrebbe scuotere le coscienze per cercare di fermare il conflitto nell’Ucraina, giunto ormai a 102 giorni; invece, sull’umanità “è calato nuovamente l’incubo della guerra, che è la negazione del sogno di Dio”. Mai un appello così drammatico. Al Regina caeli si rivolge, il Papa, ai responsabili delle nazioni: “non portate l’umanità alla rovina, per favore, non portate l’umanità alla rovina”. Voce di uno che grida nel deserto: “popoli che si scontrano, popoli che si uccidono, gente che, anziché avvicinarsi, viene allontanata dalle proprie case. E mentre la furia della distruzione e della morte imperversa e le contrapposizioni divampano, alimentando una escalation sempre più pericolosa per tutti”, Francesco ripete con forza il suo appello alla pace: “si mettano in atto veri negoziati, concrete trattative per un cessate il fuoco e per una soluzione sostenibile, Si ascolti il grido disperato della gente che soffre, si abbia rispetto della vita umana e si fermi la macabra distruzione di città e villaggi”. Così rinnova l’invito a pregare e a impegnarsi per la pace “senza stancarci”. In questa domenica Francesco assiste, in sedia a rotelle, alla messa di Pentecoste celebrata dal cardinale Giovanni Battista Re, decano del Sacro collegio. Nell’omelia ricorda che “lo Spirito ci fa vedere tutto in modo nuovo, secondo lo sguardo di Gesù”; nel grande cammino della vita, “egli ci insegna da dove partire, quali vie prendere e come camminare”. Lo Spirito, infatti, in ogni epoca “ribalta i nostri schemi e ci apre alla sua novità, sempre insegna alla Chiesa la necessità vitale di uscire, il bisogno fisiologico di annunciare, di non restare chiusa in sé stessa”. Al Regina caeli il vescovo di Roma indica le due azioni dello Spirito: insegnare e ricordare. Dapprima insegnare. Lo Spirito ci aiuta a “superare un ostacolo che si presenta nell’esperienza della fede: quello della distanza”. Non c’è distanza tra Vangelo e vita di tutti i giorni, non è “superato” il Vangelo, né “inadeguato a parlare al nostro oggi con le sue esigenze e con i suoi problemi”, in questo tempo di internet e della globalizzazione. Lo Spirito Santo “è specialista nel colmare le distanze, ci insegna a superarle” afferma Francesco; è lui “che collega l’insegnamento di Gesù con ogni tempo e ogni persona”. Noi rischiamo di fare della fede “una cosa da museo”; lo Spirito Santo l’attualizza, la mantiene “sempre giovane” e la mette “al passo con i tempi”. Poi l’altra azione: ricordare, che vuol dire “riportare al cuore”. Ecco Pentecoste: con lo Spirito Santo gli apostoli “ricordano e comprendono. Accolgono le sue parole come fatte apposta per loro e passano da una conoscenza esteriore a una conoscenza di memoria, a un rapporto vivo, un rapporto convinto, gioioso nel Signore”; è lo Spirito Santo che ci aiuta “a far passare dal ‘sentito dire’ alla conoscenza personale di Gesù che entra nel cuore”. Senza lo Spirito, il rischio è una “fede smemorata”, un “ricordo senza memoria”. È sempre lo Spirito, ha detto nell’omelia, che “ci libera dall’ossessione delle urgenze e ci invita a camminare su vie antiche e sempre nuove, quelle della testimonianza, della povertà, della missione, per liberarci da noi stessi e inviarci al mondo”. (Fabio Zavattaro - SIR)

La grazia dell’intercessione

30 Maggio 2022 - Città del Vaticano - Le mani di Cristo sono già oltre la cornice che racchiude l’affresco dell’Ascensione nella Cappella degli Scrovegni a Padova, dipinto attribuito a Giotto e alla sua scuola. L’artista ha voluto rappresentare così quel salire al Padre che celebriamo nella liturgia dell'Ascensione di questa domenica: una nuvola ai suoi piedi, due angeli sotto che indicano il cielo guardando Maria in preghiera il viso rivolto al figlio, e gli apostoli inginocchiati. “Quando avete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi o vi offenderanno, intrattenetevi con il cielo, allora la vostra anima troverà la quiete”. Difficile dire se sono più le parole a definire meglio l’immagine dipinta, o se invece è l’immagine che meglio commenta le parole del grande matematico, filosofo, teologo e sacerdote ortodosso russo Pavel Florenskij. Il volto di Maria – per alcuni studiosi forse è l’unica parte eseguita interamente da Giotto – sembra quasi dirci che è passato tanto tempo, quaranta giorni dalla sofferenza vissuta sotto la croce; quaranta giorni dalla gioia della domenica di Pasqua. Ora è lì assieme ai discepoli perché si conclude la presenza umana e terrena di Gesù. Poi sarà il dono promesso dal Padre, lo Spirito Santo, il dono “del Consolatore, di colui che li accompagnerà, li guiderà, li sosterrà nella missione, li difenderà nelle battaglie spirituali”. Gesù, afferma Papa Francesco al Regina caeli, “non sta abbandonando i discepoli. Ascende al Cielo, ma non ci lascia soli”. Domenica nella quale il Papa annuncia un concistoro per la creazione, a fine agosto, di 21 nuovi cardinali, portando così a 133 il numero dei porporati; di questi ben 21 provengono dall’Asia, un chiaro segnale su come la chiesa guarda sempre più al grande continente. Ma è anche la domenica dedicata alla Giornata delle Comunicazioni sociali dal titolo: Ascoltare con l’orecchio del cuore. “Saper ascoltare, oltre che il primo gesto di carità – afferma Francesco – è anche il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione”. Non manca, infine, un pensiero al conflitto in Ucraina giunto al 95mo giorno: domani sarà a Santa Maria Maggiore, rosario in collegamento con i santuari mariani, per chiedere il dono della pace “che il mondo attende”. Torniamo alle parole pronunciate prima del Regina caeli. Francesco sottolinea due azioni di Gesù narrate nel brano di Luca: l’annuncio del dono dello Spirito Santo e la benedizione dei discepoli. È attraverso il dono dello Spirito Santo, afferma il vescovo di Roma, che “si vede l’amore di Gesù per noi: la sua è una presenza che non vuole limitare la nostra libertà. Al contrario, fa spazio a noi, perché il vero amore genera sempre una vicinanza che non schiaccia, ma rende protagonisti”. Salendo al cielo, dice ancora Francesco, “Gesù, anziché rimanere accanto a pochi con il corpo, si fa vicino a tutti con il suo Spirito. Lo Spirito Santo rende presente Gesù in noi, oltre le barriere del tempo e dello spazio, per farci suoi testimoni nel mondo”. La seconda azione, la benedizione degli apostoli, è gesto sacerdotale; Luca nel Vangelo ci dice che Gesù “è il grande sacerdote della nostra vita”; sale al Padre “per intercedere a nostro favore, per presentargli la nostra umanità. Così, davanti agli occhi del Padre, ci sono e ci saranno sempre, con l’umanità di Gesù, le nostre vite, le nostre speranze, le nostre ferite”. Con il suo “esodo” verso il Cielo, “Cristo ci fa strada, va a prepararci un posto e, fin da ora, intercede per noi, perché possiamo essere sempre accompagnati e benedetti dal Padre”. Un dono per “essere testimoni del Vangelo”. Ma lo siamo davvero, chiede il Papa, “siamo capaci di amare gli altri lasciandoli liberi e facendo loro spazio”. Ancora, “sappiamo farci intercessori per gli altri, cioè sappiamo pregare per loro e benedire le loro vite? Oppure ci serviamo degli altri per i nostri interessi?” Ricorda quindi Papa Francesco il valore della preghiera di intercessione: intercedere, cioè, “per le speranze e per le sofferenze del mondo, intercedere per la pace. E benediciamo con lo sguardo e con le parole chi incontriamo ogni giorno”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Vi lascio la Pace

23 Maggio 2022 - Città del Vaticano - In questa domenica le letture ci portano già un anticipo della Pentecoste, ovvero del dono dello Spirito. Gesù è ancora con i suoi nella sala dell’ultima cena e Giovanni, nel suo Vangelo, ricorda le parole con le quali il Signore annuncia un tempo futuro in cui “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremmo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Ai dodici dice che non rimarranno soli – “vado e tornerò da voi” – ma anche perché con loro ci sarà sempre lo Spirito Santo, il Paraclito, che li sosterrà: Paraclito, ovvero colui che si pone accanto. La meta cui tendere è Gerusalemme, la città celeste, descritta con grande cura nell’Apocalisse. Un pellegrinare fatto di essenzialità: la parola da osservare e custodire, il dono dello Spirito Santo e la pace donata dal Signore che vince ogni paura. Città con le sue dodici porte aperte a coloro che accoglieranno la parola del Signore, e si lasceranno cambiare dallo Spirito. Proprio la pace – “vi lascio la pace, vi do la mia pace” – è il tema che Francesco pone in evidenza nelle parole che precedono la recita del Regina caeli. Tema centrale insieme a quell’amare “gli uni gli altri come io ho amato voi”; un Dio che si fa mendicante, diceva padre Davide Maria Turoldo, mendicante d’amore. Una pace che è negata in tanti luoghi come in Ucraina, nello Yemen; abbiamo bisogno della pace che non è quella del mondo, ma dono di Dio, sorretta dalla speranza, perché nel nostro pellegrinare non mancano rischi, pericoli, ostilità e scelte coraggiose da assumere. Gesù si rivolge e saluta i suoi discepoli – siamo ancora nei discorsi dell’addio – con parole “di affetto e serenità”, dice Papa Francesco, “in un momento tutt’altro che sereno. Giuda è uscito per tradirlo, Pietro sta per rinnegarlo, e quasi tutti per abbandonarlo: il Signore lo sa, eppure non rimprovera, non usa parole severe, non fa discorsi duri”. “Vi lascio la pace”. Una pace “che viene dal suo cuore mite, abitato dalla fiducia”; una pace che “ha in sé” perché “non si può dare pace se non si è in pace”. Per Gesù la mitezza è possibile anche nel momento più difficile, così il Papa, ai presenti in piazza San Pietro, ma anche a tutti noi, chiede “se, nei luoghi dove viviamo, noi discepoli di Gesù ci comportiamo così: allentiamo le tensioni, spegniamo i conflitti? Siamo anche noi in attrito con qualcuno, sempre pronti a reagire, a esplodere, o sappiamo rispondere con la non violenza, sappiamo rispondere con gesti e parole di pace?”. “Vi do la mia pace”. Non è facile questa mitezza; difficile, faticoso poi disinnescare i conflitti, rispondere “con la non violenza” con “gesti e parole di pace”. Per questo ci serve un aiuto: “la pace, che è impegno nostro, è prima di tutto dono di Dio”, La sua pace “è lo Spirito Santo, lo stesso Spirito di Gesù”, afferma Papa Francesco; “è la presenza di Dio in noi, è la forza di pace di Dio”, che “disarma il cuore e lo riempie di serenità”, che “scioglie le rigidità e spegne le tentazioni di aggredire gli altri”, e ci ricorda che accanto a noi “ci sono fratelli e sorelle, non ostacoli e avversari”. E è sempre lui che “ci dà la forza di perdonare, di ricominciare, di ripartire, perché con le nostre forze non possiamo. È con lui, con lo Spirito Santo, che si diventa uomini e donne di pace”. Non cita il Papa la guerra in Ucraina come ha fatto dall’inizio del conflitto, lo scorso 24 febbraio; ma il suo messaggio è molto più di un appello alla fine del conflitto, è invito a ritrovare la strada del dialogo, del rispetto dell’altro, della pacifica convivenza tra popoli; messaggio che è anche risposta a quanti hanno giustificato l’invasione russa. Così nelle parole conclusive prima della preghiera mariana chiede Francesco di pregare: “Signore dammi la tua pace, dammi lo Spirito Santo”. Chiediamolo, dice, “per chi vive accanto a noi, per chi incontriamo ogni giorno, e per i responsabili delle nazioni”. Nel dopo Regina caeli un pensiero alla Cina “seguo con attenzione e partecipazione la vita e le vicende di fedeli e pastori”; chiede che la chiesa possa vivere “in libertà e tranquillità”, per offrire “un positivo contributo al progresso spirituale e materiale della società. E un saluto ai partecipanti alla manifestazione “Scegliamo la vita”, che è dono di Dio. (Fabio Zavattaro - Sir)

E’ l’amore che salva

16 Maggio 2022 - Città del Vaticano - “Vidi un cielo nuovo e una terra nuova”. L’Apocalisse ci aiuta, anzi ci introduce e ci fa comprendere meglio il Vangelo di questa domenica, incentrato sul tema dell’amore, su quel “comandamento nuovo” che Gesù dice ai suoi discepoli nel Cenacolo. È un passo indietro rispetto alle pagine che abbiamo letto nelle domeniche precedenti, e il momento in cui il Signore sta consegnando il suo testamento – “come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”, leggiamo in Giovanni – “il criterio fondamentale per discernere se siamo veramente suoi discepoli oppure no”, commenta Papa Francesco nell’omelia pronunciata durante la celebrazione per la canonizzazione di dieci beati, tra i quali Titus Brandsma e Charles de Foucauld, alla quale ha partecipato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Papa Francesco lo saluta al Regina caeli, prima di rinnovare il suo appello per la pace in Ucraina: “mentre tristemente nel mondo crescono le distanze e aumentano le tensioni e le guerre, i nuovi Santi ispirino soluzioni di insieme, vie di dialogo, specialmente nei cuori e nelle menti di quanti ricoprono incarichi di grande responsabilità e sono chiamati a essere protagonisti di pace e non di guerra”. Ma torniamo alla celebrazione per i nuovi santi. Il Vangelo, nella parte omessa, ci dice che Giuda, presente con gli altri discepoli, dopo aver ricevuto il cibo dalle mani di Gesù lascia la sala – “era notte” scrive Giovanni – per “inoltrarsi nella notte del tradimento. Notte di “emozione e preoccupazione”, afferma il Papa, perché il Maestro sta lasciando i suoi, sa che lo aspetta il tradimento da parte di uno di loro, e la morte sul Calvario. “Proprio nell’ora del tradimento – afferma il vescovo di Roma – Gesù conferma l’amore per i suoi, perché nelle tenebre e nelle tempeste della vita questo è l’essenziale: Dio ci ama”. La notte del rifiuto è scesa su Giuda che, lasciando la sala, esce anche dallo spazio di quell’amore che tutto avvolge e tutto illumina. Proprio l’amore traccia il “profilo della santità cui ogni cristiano è chiamato. Al centro – afferma Francesco – non ci sono la nostra bravura, i nostri meriti, ma l’amore incondizionato e gratuito di Dio, che non abbiamo meritato”. Il mondo, afferma ancora, “vuole spesso convincerci che abbiamo valore solo se produciamo dei risultati, il Vangelo ci ricorda la verità della vita: siamo amati. E questo è il nostro valore: siamo amati”. Di più, il Signore ci ha amati per primo e continua a amarci; una verità, afferma Francesco, che cambia l’idea che spesso abbiamo della santità: “insistendo troppo sul nostro sforzo di compiere opere buone, abbiamo generato un ideale di santità troppo fondato su di noi, sull’eroismo personale, sulla capacità di rinuncia, sul sacrificarsi per conquistare un premio. È una visione a volte troppo pelagiana della vita, della santità. Così abbiamo fatto della santità una meta impervia, l’abbiamo separata dalla vita di tutti i giorni invece che cercarla e abbracciarla nella quotidianità, nella polvere della strada, nei travagli della vita concreta, e, come diceva Teresa d’Avila alle consorelle, tra le pentole della cucina”. Ha parlato di amore dopo aver lavato i piedi ai discepoli e, quindi, si è consegnato per la crocifissione. Amare, afferma il vescovo di Roma, significa “servire e dare la vita”, significa “non anteporre i propri interessi; disintossicarsi dai veleni dell’avidità e della competizione; combattere il cancro dell’indifferenza e il tarlo dell’autoreferenzialità, condividere i carismi e i doni che Dio ci ha donato”. Concretamente significa chiedersi “cosa faccio per gli altri?”. Questo è amare: “vivere le cose di ogni giorno in spirito di servizio, con amore e senza clamore, senza rivendicare niente”. Il segreto, per il Papa, è proprio questo, dare la vita, offrirla “senza tornaconto, senza ricercare alcuna gloria mondana”, perché la santità “non è fatta di pochi gesti eroici, ma di tanto amore quotidiano”. Ognuno di noi è chiamato alla santità, afferma ancora; la santità è “unica e irripetibile […] non c’è una santità in fotocopia” e il Signore “ha un progetto di amore per ciascuno, ha un sogno per la tua vita, per la mia vita, per la vita di ognuno di noi”. (Fabio Zavattaro - Sir)