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Migrantes-Transiti: benessere psichico degli italiani nel mondo in pandemia

12 Maggio 2022 - Roma - La salute mentale è un tema centrale che riverbera in tutti gli aspetti fondamentali dell’esistenza. Promuovere, per tutti e tutte, la possibilità di un benessere psichico significa incidere positivamente nella vita delle persone, nelle organizzazioni, nelle comunità e nelle nazioni. Per tale motivo, vorremmo riprendere le parole del documento pubblicato dall’OMS nel 2014, intitolato “Social determinants of mental health”:  «Un principio chiave è l’universalismo proporzionale. Concentrarsi solamente sulle persone più vulnerabili e svantaggiate non produrrà la diminuzione delle disuguaglianze di salute necessaria per ridurre la pendenza del gradiente sociale di salute. Perciò, è importante che le azioni e gli interventi per promuovere il benessere psichico siano universali ma anche modulati in maniera proporzionale rispetto al livello di svantaggio [...]. In tutti i Paesi del mondo è necessario che la salute mentale venga definita come prioritaria [...]. L’aumento della consapevolezza e delle conoscenze relative alla salute mentale dovrebbe coincidere inoltre con una maggior allocazione di risorse economiche, mediche, ed umane al fine di contrastare le malattie mentali e ridurre le disuguaglianze. È necessario un investimento adeguato nelle politiche volte al miglioramento del benessere psichico, a partire dalla conoscenza dei costi sia economici che sociali delle malattie mentali per la comunità e le nazioni». A partire dalla nostra ricerca preliminare e in continuità con gli appelli dell’OMS, diviene importante pensare di costruire un osservatorio permanente sulla salute psicologica degli italiani all’estero che coniughi le tematiche generali di salute con i costrutti specifici della psicologia d’espatrio. Solo un dialogo costante e attento, senza facili riduzionismi, può aiutare le persone ad acquisire consapevolezza sulla psicologia come scienza e sul proprio stato psichico, superando i pregiudizi e le paure che si possono provare confrontandosi, da un lato, con il presunto mistero del funzionamento della mente umana e, dall’altro, con chi se ne occupa. Un elemento cruciale, che è emerso più volte nelle risposte degli intervistati, è la grande difficoltà nel reperire un’informazione attendibile e affidabile al fine di avere un supporto ed un aiuto qualificato per il proprio benessere psichico. L’importanza di questa tematica è fondamentale. Viviamo nella società dell'iper-informazione, ovvero dell’informazione ridondante, e dell’iper-connessione: questo rende più complessa e confusa una ricerca approfondita. La rete, con la propria interfaccia user-friendly, e lo smartphone, oggetto che alimenta la fantasia di avere il mondo in una mano, amplificano l’illusione di poter trovare in autonomia tutte le risposte. Internet è un oracolo che consultiamo con la speranza di una via facile e immediata. Esso, però, ci restituisce con forza tutta la complessità e la conoscenza necessaria a decodificare i risultati che troviamo. Questo risulta ancora più difficile quando ci si trova in una situazione di bisogno e fragilità. Creare momenti di consapevolezza, spazi e luoghi per ascoltare i bisogni in contesti più o meno formali e, successivamente, progettare azioni mirate ed efficaci di supporto, è un obiettivo comunitario urgente. Il fine ultimo è che ciascuno possa trovare o ritrovare il proprio senso nel mondo, nella continuità delle proprie radici e verso la propria evoluzione, ovunque si trovi. La psicoterapia, in questo senso, è uno strumento fondamentale per raggiungere quelli che, in ultimo, sono obiettivi di salute e benessere. Di seguito, riportiamo alcuni stralci delle esperienze dei racconti legati all’esperienza di psicoterapia:
  • “A causa della mole di lavoro immensa che ho dovuto sostenere nel lockdown, ero arrivata al limite dell’ esaurimento nervoso. La psicologa mi ha aiutato a mettere dei limiti a questo e impostare delle regole per evitare il burnout.” (F, Lussemburgo);
  • “Ai tempi del liceo per problemi di ” (F, Cuba);
  • “Avevo 18 anni, non ne sentivo il bisogno, i miei genitori mi hanno obbligato ed è stata ” (F, Emirati Arabi Uniti);
  • “Colloqui di sostegno soprattutto relativi alla mia decisione di separarmi.” (F, Stati Uniti);
  • “Dolorosa ma ha risolto i miei ” (F, Israele);
  • “Dopo un evento personale traumatico i miei cari mi hanno consigliato di chiedere supporto psico Sono stata 9 mesi in psicoterapia e mi è servito moltissimo per affrontare il dolore e ricostruire il mio equilibrio, ma anche crescere personalmente.” (F, Regno Unito);
  • “Dopo una relazione abusiva, ho fatto un percorso di terapia per ritrovare ” (F, Belgio);
  • “Durante gli anni universitari ho fatto un percorso di psicoterapia per imparare a gestire l'ansia e lo stress da competizione.” (M, Svizzera);
  • “È in corso da un anno. Mi dà tranquillità, mi allevia il senso di vuoto e mancanza di significato nelle cose. Mi conforta.” (M, Canada);
  • “È via zoom col fuso italiano, e questo alle volte diventa un problema per farlo conciliare con gli orari giapponesi.” (F, Giappone);
  • “Mi dà la forza e la carica per migliorare e sentirmi appieno con me stessa. Ci vuole tanta pazienza e voglia di ‘amarsi’” (F, Stati Uniti);
  • “Era un periodo della mia vita dove mi sentivo persa. Ho finalmente deciso di cercare aiuto, e mi ha portato a scoprire molte cose di me di cui non avevo idea, tipo blocchi psicologici dovuti al mio passato. È stato un percorso di scoperta ed un lavoro su me stessa abbastanza faticoso, che è ancora in divenire.” (F, Stati Uniti);
  • “Era uno spazio in cui poter esprimermi liberamente su ciò che provavo e che mi ha permesso di comprendere meglio il mio funzionamento e le mie difficoltà.” (F, Svizzera);
  • “Erano anni che pensavo di volerlo fare ma non ho mai avuto soldi a sufficienza per pagarlo, l'ho fatto non appena ho potuto.” (F, Spagna);
  • “Ero appena diventata mamma e avevo appena traslocato in Germania, mi sentivo impaurita e impotente.” (F, Germania);
  • “Ero ragazzina e dovevo accettare la perdita di mia madre. Il mio psicoterapeuta mi aiutò a prenderne coscienza.” (F, Stati Uniti);
  • “Esperienze positive e negative, alti e bassi, ho trovato aiuto ma spesso anche sensazione di perdere tempo, non arrivare mai al punto.” (F, Belgio);
  • “Facevo un lavoro molto stancante emotivamente (call center) e la compagnia per cui lavoravo offriva la possibilità di essere seguiti da uno psicologo per un breve periodo di tempo. Feci tre sedute (il massimo) e poi dovetti smettere. Non me lo potevo permettere. Mi è piaciuto molto però, mi sentivo molto meglio dopo le sedute.” (F, Regno Unito);
  • “Funzionale a ripristinare una situazione stabile dopo una serie di crisi di panico.” (M, Singapore). -  (Anna Pisterzi -  Presidente di Transiti Psicologia d'Espatrio Coop Soc.)
  Trovate questo articolo pubblicato anche nella sezione Articoli del sito di Transiti - Psicologia d’espatrio.    

Migrantes-Transiti: la condizione psicologica degli italiani nel mondo durante il Covid-19.

5 Maggio 2022 - Roma - La percezione acquisita attraverso la ricerca condotta da Transiti per il Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes  è che la pandemia da Covid-19 abbia contribuito a peggiorare la condizione psicologica del 61,6% degli expat italiani intervistati. Dei 925 rispondenti, il 40% è stato o è attualmente in psicoterapia. Si tratta di una percentuale molto alta rispetto alla media nazionale, che oscilla tra il 7 e il 15%. È interessante prendere in considerazione come le persone coinvolte nell’indagine abbiano maturato la scelta di intraprendere un percorso psicoterapeutico. Il 69,5% ha realizzato di avere bisogno di un supporto psicologico compiendo una scelta personale e autonoma, mentre il 17,7% lo ha fatto in seguito al consiglio di amici e parenti. Nel 74% dei casi chi ha affrontato un percorso psicologico ha giudicato la cura come efficace e significativamente migliorativa per la propria esistenza. Il 17% ha, invece, espresso un giudizio negativo. Approfondendo le ragioni che hanno portato a questa conclusione, emerge come essa appaia legata a una mancanza di necessità (“i miei genitori mi hanno obbligata”) o alla percezione di non aver incontrato il professionista adeguato (“bisogna incontrare il professionista giusto”) o, ancora, alla percezione di fare qualcosa di inutile (“solo chiacchere”). Coloro che non hanno mai iniziato un percorso di psicoterapia, corrispondente al 46% dei rispondenti, adducono motivazioni quali il sentirsi psicologicamente equilibrato, il non sentirne la necessità e la presenza di ostacoli di natura economica, ma anche sfiducia, paura e difficoltà nel trovare un terapeuta qualificato. La replica negativa, motivata dalla sfiducia nella capacità di cura ed efficacia della psicoterapia, rappresenta il 33,7% delle risposte raccolte. È un tema molto interessante e ampio che andrebbe approfondito anche alla luce delle premesse dell’OMS. Parallelamente, dovrebbe interrogare la comunità professionale degli psicologi rispetto alla possibilità di rendere sempre più trasparenti i modelli di trattamento e le evidenze di efficacia della cura. Il 21% delle persone ha dichiarato di non aver mai iniziato un percorso per timore (“Ho paura di cosa potrei scoprire”; “Ho paura di diventare dipendente dal terapeuta”; “Non riuscirei a parlare con uno sconosciuto”). È un elemento significativo, che dà una (grossolana) misura di quanto ancora possano circolare il pregiudizio e lo stigma nei confronti della scienza psicologica e di quanto sia scarsa e confusa l’informazione a riguardo. A supporto di questa considerazione, abbiamo rilevato che il 12% degli intervistati ha dichiarato di pensare da tempo di entrare in terapia, ma di non sapere come trovare un professionista affidabile. Per il 20% del campione la difficoltà ad intraprendere un percorso terapeutico è di natura prevalentemente economica, limite che non viene riscontrato unicamente dagli italiani residenti in Nord America. Questo aspetto spinge a riflettere sulla molteplicità delle esperienze di espatrio che abbiamo incontrato attraverso Transiti e sulla necessità di pensare a dispositivi di accoglienza e cura sulla base del principio dell’universalismo proporzionale. Un altro dato rilevante è che, durante la pandemia, il 25% delle persone ha incrementato l’uso di sostanze – tabacco, alcol, stupefacenti – per mitigare la sofferenza psicologica, con una percentuale più alta tra i residenti in Europa (28%). Questo è un dato in linea con la tendenza poc’anzi evidenziata: una parte di popolazione sperimenta difficoltà nel poter chiedere un aiuto qualificato e nel ricercare in autonomia soluzioni palliative di sollievo al malessere.

Abbiamo raccolto alcune voci degli expat che hanno voluto raccontare la loro esperienza di psicoterapia. Dalle 320 risposte aperte - circa il 35% del campione - sono emerse parole ricorrenti quali: Terapia, Ansia, Panico, Farmaci. Lavoro, Aiuto, Relazione, Famiglia, Depressione, Sedute, Problemi, Stress, Figli, Autostima, Terapeuta, Disturbi, Inutile, etc. Di seguito, riportiamo alcuni stralci delle esperienze dei racconti legati all’esperienza di psicoterapia:
  • “A causa della mole di lavoro immensa che ho dovuto sostenere nel lockdown, ero arrivata al limite dell’ esaurimento nervoso. La psicologa mi ha aiutato a mettere dei limiti a questo e impostare delle regole per evitare il burn-out.” (F, Lussemburgo);
  • “Ai tempi del liceo per problemi di ” (F, Cuba);
  • “Avevo 18 anni, non ne sentivo il bisogno, i miei genitori mi hanno obbligato ed è stata ” (F, Emirati Arabi Uniti);
  • “Colloqui di sostegno soprattutto relativi alla mia decisione di separarmi.” (F, Stati Uniti);
  • “Dolorosa ma ha risolto i miei ” (F, Israele);
  • “Dopo un evento personale traumatico i miei cari mi hanno consigliato di chiedere supporto psico Sono stata 9 mesi in psicoterapia e mi è servito moltissimo per affrontare il dolore e ricostruire il mio equilibrio, ma anche crescere personalmente.” (F, Regno Unito);
  • “Dopo una relazione abusiva, ho fatto un percorso di terapia per ritrovare (F, Belgio);
  • “Durante gli anni universitari ho fatto un percorso di psicoterapia per imparare a gestire l'ansia e lo stress da competizione.” (M, Svizzera);
  • “È in corso da un anno. Mi dà tranquillità, mi allevia il senso di vuoto e mancanza di significato nelle cose. Mi conforta.” (M, Canada);
  • “È via zoom col fuso italiano, e questo alle volte diventa un problema per farlo conciliare con gli orari giapponesi.” (F, Giappone);
  • “Mi dà la forza e la carica per migliorare e sentirmi appieno con me stessa. Ci vuole tanta pazienza e voglia di ‘amarsi’” (F, Stati Uniti);
  • “Era un periodo della mia vita dove mi sentivo persa. Ho finalmente deciso di cercare aiuto, e mi ha portato a scoprire molte cose di me di cui non avevo idea, tipo blocchi psicologici dovuti al mio passato. È stato un percorso di scoperta ed un lavoro su me stessa abbastanza faticoso, che è ancora in divenire.” (F, Stati Uniti);
  • “Era uno spazio in cui poter esprimermi liberamente su ciò che provavo e che mi ha permesso di comprendere meglio il mio funzionamento e le mie difficoltà.” (F, Svizzera);
  • “Erano anni che pensavo di volerlo fare ma non ho mai avuto soldi a sufficienza per pagarlo, l'ho fatto non appena ho potuto.” (F, Spagna);
  • “Ero appena diventata mamma e avevo appena traslocato in Germania, mi sentivo impaurita e impotente.” (F, Germania);
  • “Ero ragazzina e dovevo accettare la perdita di mia madre. Il mio psicoterapeuta mi aiutò a prenderne coscienza.” (F, Stati Uniti);
  • “Esperienze positive e negative, alti e bassi, ho trovato aiuto ma spesso anche sensazione di perdere tempo, non arrivare mai al punto.” (F, Belgio);
  • “Facevo un lavoro molto stancante emotivamente (call center) e la compagnia per cui lavoravo offriva la possibilità di essere seguiti da uno psicologo per un breve periodo di tempo. Feci tre sedute (il massimo) e poi dovetti smettere. Non me lo potevo permettere. Mi è piaciuto molto però, mi sentivo molto meglio dopo le sedute.” (F, Regno Unito);
  • “Funzionale a ripristinare una situazione stabile dopo una serie di crisi di panico.” (M, Singapore). - Anna Pisterzi, Presidente di Transiti Psicologia d'Espatrio.
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Migrantes-Transiti: la sicurezza sanitaria e la fiducia  durante il Covid-19

28 Aprile 2022 - Roma - In questi anni, un tema ricorrente nei colloqui clinici con i pazienti di Transiti ha riguardato la dissonanza cognitiva derivante dalle differenze tra le regole sanitarie del paese in cui l’expat vive e le regole adottate in Italia per fronteggiare la pandemia. Laddove vi è stata una grande discrepanza, soprattutto nel corso della prima ondata pandemica, le persone sono state attraversate da un forte disorientamento rispetto a quali, tra le istituzioni sanitarie del paese d’origine e quelle del paese di residenza, nutrire fiducia. Abbiamo approfondito questi aspetti nel corso dell’indagine sulla salute psicologica in pandemia degli italiani nel mondo per il Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, in cui è stato esplorato anche il tema della sicurezza sanitaria. Abbiamo chiesto al nostro campione di expat italiani di esprimere quanto percepissero sicuro, nell'affrontare la pandemia, il paese di residenza, e quanta fiducia avessero nel sistema sanitario locale. Gli intervistati complessivamente sono adeguatamente sicuri di come i paesi ospitanti hanno affrontato la pandemia. Ritengono, comunque, di vivere in un paese più sicuro dell’Italia, in termini di gestione della pandemia, per il 45% del campione. Questa sicurezza è distribuita in maniera fortemente differenziata rispetto alle aree del mondo in cui vivono. Spiccano i dati dell’Oceania (97%), dell’Oriente (75%) e del Medio Oriente (63%), dove la maggioranza degli expat italiani ritiene che il sistema sanitario, nell’affrontare il Covid-19, sia “più sicuro” dell’Italia. Il 21% del campione ritiene di essere in un luogo meno attento e quindi insicuro, in cui il sistema-paese ha affrontato male la pandemia. Questa mancanza di sicurezza è fortemente percepita in America del Sud (58%), dove supera la media, attestandosi invece in Africa al (28%). I dati raccolti hanno permesso di inferire il grado di fiducia nei confronti del sistema sanitario del paese estero di residenza. E’ stata registrata, in generale, una buona fiducia nella sanità del paese ospitante (56%), con percentuali molto al di sopra della media in Oceania (79%), in Oriente (70%) e in America del Nord (63%). Una grande diffidenza rispetto ai sistemi sanitari, invece, si è registrata in America del Sud (78%), in Africa (56%) e nel Medio Oriente (53%). Un dato interessante riguarda il Medio Oriente: a fronte di un sistema sanitario che generalmente non rassicura, sembra che le modalità di gestione della crisi pandemica abbiano suscitato la fiducia degli italiani residenti in quest’area. Attingendo dalla clinica, possiamo avanzare qualche ipotesi per spiegare queste tendenze. Dai racconti dei pazienti residenti in paesi con una governance più autoritaria, emerge che le persone si sono sentite più protette: le regole, anche se stringenti, erano chiare. Inoltre, il monitoraggio e l’ordine hanno contenuto maggiormente, almeno in una prima fase, la paura e la rabbia, emozioni primarie che si sperimentano in situazioni di grande incertezza e pericolo. Queste emozioni potenti e filogeneticamente “salvavita” esigono un sollievo immediato per ripristinare il senso di sicurezza. Questo aspetto sembra essere meglio assolto dalle strutture più gerarchicamente organizzate, con una comunicazione up-bottom a una via, in cui le regole vengono comunicate dall’alto. Tra le numerose questioni che si trova ad affrontare un expat figura anche quella della lingua in cui sono erogati i servizi di cura e, di riflesso, della lingua in cui si desidera riceverli. La malattia fa sentire fragili, insicuri, impotenti. Poter parlare di questioni complesse nella propria lingua madre con il personale sanitario è per molte persone rassicurante, tanto da programmare visite, interventi e cure durante i periodi di rientro per le vacanze nel paese d’origine. La pandemia ha spezzato la routine di questo “rientro sanitario” generando un’altra area di insicurezza negli expat italiani. ( Anna Pisterzi, Presidente di Transiti Psicologia d'Espatrio)   Trovate questo articolo pubblicato anche nella sezione Articoli del sito di Transiti - Psicologia d’espatrio.

Migrantes-Transiti: la condizione psicologica degli expat, voci degli expat

7 Aprile 2022 - Roma - Il campione di italiani intervistati da Transiti per la ricerca sulla condizione psicologica nel Rapporto Italiani nel Mondo 2021 vive attualmente all’estero (95%) e solo il 5% è rientrato stabilmente in Italia. Di questi, l’80% è da considerarsi di fatto “expat”, con più di tre anni di vita all’estero. Pochi (5%) sono i neoemigrati negli ultimi 12 mesi. Un dato a cui ha certamente contribuito la pandemia. Il tema della salute psicologica è percepito più facilmente dalla popolazione femminile. Questo spiega il fatto che il 73,4% del campione sia costituito da donne. È un dato assolutamente discordante rispetto alla distribuzione per sesso degli expat italiani. Così come è discordante il dato del profilo formativo: il 65% del campione ha almeno la laurea magistrale. Un campione prevalentemente giovane (il 61,4% è under 40), colto, emancipato, con un progetto di espatrio ben costruito e riuscito sia sul piano personale (il 75,5% ha una relazione stabile) che sul piano professionale: si tratta di persone soddisfatte del proprio lavoro (71%). Un universo fortemente diverso da quello caratteristico della popolazione italiana ma che rispecchia bene l’esodo dei cervelli, l’uscita dall'Italia della popolazione giovane, colta e femminile che non riesce a trovare nel nostro paese la giusta collocazione sociale ed economica. È una popolazione molto più attenta della media dei connazionali al tema dei disagi psicologici (il 40% è attualmente in terapia o lo è stato, contro il 15% della media italiana), capace di aprirsi e rispondere su temi delicati, desiderosa di esporsi per trovare delle soluzioni per sé, la propria famiglia e le persone che hanno lasciato l’Italia negli ultimi 10-15 anni. Una popolazione, questa, che ha vissuto il primo anno di pandemia con un certo livello di benessere grazie a spazi adeguati e confortevoli in casa (68,3%), ma che ha visto insorgere, per sé e per la propria famiglia, nuove difficoltà. La rilevazione ha fatto emergere che questa popolazione di expat italiani, prima del Covid-19, sentiva di avere una “buona” (38,5%) se non addirittura “molto buona” (48,2%) salute psicologica (per un totale di 86,7%). Dopo dodici mesi di restrizioni e disagi causati dalla pandemia, il 71,5% ha osservato un peggioramento della propria condizione psicologica, che imputa “principalmente al Covid-19” (31,8%) o “fortemente al Covid-19” (39,8%). Approfondendo la sintomatologia del disagio provato, emergono elementi evidenti quali ansia e insonnia (20%) e tristezza/depressione (35%). Si tratta di sintomi che si evidenziano anche nella perdita di prospettiva e nel senso di oppressione (entrambe al 30%). Da questi primi dati e dalle parole che abbiamo raccolto per gli italiani nel mondo, risulta evidente come il Covid-19 abbia implicato lo stravolgimento della vita costruita attorno all’espatrio, imponendo alle persone di “osservarsi” e fare un bilancio della propria esistenza rimettendo in discussione le priorità, senza però ancora essere in grado di riprogettare il futuro nel tempo e nello spazio. Abbiamo raccolto alcune voci degli expat che hanno visto peggiorata la propria situazione psicologica a causa del Covid-19, frasi in cui  ritornano molto frequentemente le parole Famiglia, Lavoro, Incertezza, Solitudine, Ansia, Viaggiare, Isolamento, Lontanza e Depressione. Di seguito, le loro parole: I rapporti sociali al di fuori della Famiglia  sono diminuiti notevolmente, mio marito pauroso del Covid ha stressato tutta la Famiglia". (Germania) "Isolamente, mancanza di opportunità, servizio sanitario locale non adeguato, paura per la mia Famiglia, reperibilità costante in smart working". (Albania) "Ho sempre paura di ammalarmi o che si ammali uno dei miei cari e di non poterlo rivedere. Ora che sono iniziate le riaperture mi sento a disagio in mezzo alla gente". (Francia) "Sono infermiera. Il mio Lavoro è diventato la mia vita. Ho avuto un burn out e sono caduta in Depressione. Non ho più potuto svolgere le attività ricreative e sociali che svolgevo precedentemente per cui il peso psicologico del mio Lavoro è diventato quasi insopportabile". (Germania) "Mi sento prigioniero". (Canada) "Il mio compagno ha perso il Lavoro a causa della crisi e non sono riuscita a Lavorare  come avrei voluto, inoltre ho sentito molta nostalgia dei miei genitori". (Uk) "Sono lontana da casa, in un paese straniero che per quasi un anno ha gestito la pandemia in modo pessimo, senza sapere quando riuscirò a tornare a vedere la mia Famiglia". (Uk) "Le restrizioni in Irlanda sono state particolarmente severe e il fatto di essere vicini ma con pochissimi voli e la quarantena in hotel per un periodo mi ha veramente messo delle preoccupazioni assurde". (Irlanda) "Perché qui è come stare in carcere e senza diritti". (Cuba) -  Anna Pisterzi, Presidente di Transiti Psicologia d'Espatrio Coop Soc.   (Trovate questo articolo pubblicato anche nella sezione Articoli del sito di Transiti - Psicologia d’espatrio).    

Fondazione Migrantes-Transiti: la condizione psicologica degli expat italiani nel 2018: come, questa comunità, viveva la complessità della distanza?

31 Marzo 2022 - Roma - Prima del Covid-19 si evidenziavano due differenti “strategie d’espatrio”. La prima, decisamente maggioritaria tra i soggetti intervistati, vedeva l’espatrio come una scelta personale derivata dal desiderio di coltivare un proprio progetto di vita. Questa scelta risultava orientata da due motivazioni principali. La prima riguarda il desiderio di esercitare la professione desiderata, ritenendo l’Italia un contesto poco vantaggioso rispetto al paese ospitante per esaudire tale aspettativa. Guardando all’estero, si intravedeva la possibilità di ricevere un reddito più alto rispetto a quello presunto nel paese di origine.

Il secondo gruppo di soggetti dichiarava di essere emigrato per una proposta lavorativa ricevuta da terzi. Il ruolo “passivo” ricoperto dalla scelta della destinazione è un aspetto importante, come evidenziano i risultati dello studio che esporremo in maggior dettaglio in un secondo momento.

In questo senso, le maggiori cause di sofferenza emotiva sperimentata da coloro che sceglievano di partire inseguendo un proprio progetto, erano rappresentate dalla mancanza dei familiari e degli amici, dal senso di solitudine esperito in determinati momenti del proprio percorso d’espatrio e da tutta una serie di sintomi che venivano indicati come “uno stato di malessere generalizzato”. A cui però risultava difficile dare una forma e un nome precisi.

L’aggiunta di questa sensazione risultava essere la più importante causa di sofferenza nel gruppo di chi emigrava per una proposta lavorativa non cercata. La difficoltà a nominare e dare una forma al malessere si accompagnava ad un sentimento di insoddisfazione verso le relazioni sociali instaurate e da difficoltà di apprendimento della lingua del paese ospitante non commisurate al grado di difficoltà linguistica. Queste criticità risultavano maggiori rispetto a quelle dichiarate da chi sceglieva la propria traiettoria migratoria.

Di che cosa parlano gli italiani all’estero. Il nostro team di ricerca si è impegnato a indagare se queste tematiche di condizione psicologica fossero in qualche modo condivise e socializzate nelle conversazioni con altri expat nel medesimo contesto. E alla domanda “Di che cosa parlano gli italiani all’estero quando sono con altri italiani?”, la risposta non poteva essere più scontata… ovviamente, di cibo!

Ebbene sì, come da tradizione e stereotipo il tema del cibo è stato indicato come l’argomento principale in entrambi i gruppi. Un dato, questo, che fa riflettere su come il cibo sia uno strumento dotato di tantissimi significati culturali, sociali, nonché psicologici, che spesso vanno oltre la mera soddisfazione dei bisogni primari.

Altri importanti e ricorrenti argomenti di conversazione risultavano essere la famiglia, la cultura d’origine e, più in generale, l’Italia. Tutte queste tematiche riguardano le varie sfere dell’identità e toccano la condizione psicologica.

Il secondo gruppo (gli expat per proposta lavorativa ricevuta) si differenziava dal primo per il tema della difficoltà di apprendimento della lingua. I ricercatori  ipotizzano che questo dato derivi dal fatto che chi emigra aderendo ad una proposta lavorativa esterna difficilmente sceglie la propria destinazione. Di conseguenza, è plausibile che abbia una differente preparazione linguistica e culturale relativa al contesto d’arrivo rispetto a coloro che espatriano per un progetto personale. Questi ultimi soggetti potrebbero probabilmente essere maggiormente motivati a studiare la nuova lingua e ad apprendere e comprendere alcuni aspetti chiave del contesto culturale che incontreranno una volta partiti.

Per quanto riguarda le aspettative delle persone che hanno scelto di partecipare a questa indagine si può dire che, seguendo i risultati presentati, siano state ampiamente attese.

Nella maggior parte dei casi, chi si aspettava di trovare un lavoro migliore rispetto a quello che aveva prima del trasferimento lo ha effettivamente trovato. Chi credeva che la partenza avrebbe migliorato la propria condizione economica, non ha avuto delusioni. Anzi, alcuni expat che da questo punto di vista avevano delle basse aspettative, si sono poi ricreduti.

Un discorso a parte va fatto per le aspettative nei confronti del sistema sanitario. Sembrerebbe che gli expat interpellati avessero diverse difficoltà ad interagire con questo aspetto della nuova vita e che in qualche modo rivalutassero i servizi di sanità pubblica offerti dal proprio contesto d’appartenenza.

Il profilo di expat che ricercatrici e ricercatori hanno elaborato alla luce dei risultati estratti da questa indagine sembra parlarci in maniera chiara rispetto ad alcuni punti di vista.

Come la dott.ssa Di Girolamo, autrice della ricerca,  afferma: “Sembra che gli expat intervistati prima del Covid-19 avessero in qualche modo deciso di incontrare la propria identità personale in un contesto altro da quello d’origine. Nel fare ciò, sembravano aver sacrificato, in varia misura, l’incontro con gli aspetti culturali e contestuali della propria identità. Una frase di una ragazza da noi intervistata era particolarmente eloquente. Parlando della sua esperienza di post-doc all’estero, si è rivolta a noi con una riflessione personale: ‘Ho paura che alla fine della giostra non valga la pena aver scelto di sacrificare le mie persone più care per stare qui da sola a lavorare’.”

È interessante come questa affermazione, anche se apparentemente incentrata su una valutazione negativa dell’esperienza di espatrio, in realtà ponesse l’accento non tanto sul tema del fallimento del progetto, quanto sulla paura e sull’indeterminatezza di questa condizione psicologica.

Quel “Ho paura che” ci parla, più che di una sconfitta, di un’indeterminatezza che spesso può rivelarsi positiva, come nei casi di miglioramento della propria condizione lavorativa e remunerativa, ma che comunque chiede in cambio una ristrutturazione dell’identità personale funzionale alla vita nel nuovo contesto.

Questo comporta delle sfide e delle rinunce sul piano dell’identità che spesso veicolano un senso temporaneo di “assenza”, una paura di svanire insieme alle relazioni importanti che abbiamo lasciato indietro. Una nostalgia del passato, del presente e la paura di un futuro indeterminato. Indeterminato come il malessere che molti dichiarano di provare in contesti d’espatrio e che accompagna molto spesso le traiettorie migranti.

Si tratta, tuttavia, di un passo importante. La sua risoluzione gioca un ruolo chiave nella ridefinizione di se stessi come expat ed è in qualche modo necessaria per appropriarsi di un nuovo futuro. (Anna Pisterzi)

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