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Vangelo Migrante: Domenica 16 luglio – Vangelo Mt 13, 1-23

14 Luglio 2023 -
Nella XV Domenica del Tempo Ordinario ascoltiamo la Parabola del Seminatore, la principessa delle parabole. Se non comprendiamo questa, come potremo comprendere le altre? Tutta la vita è una parabola, ma dobbiamo capirne il significato: è la sfida dell’ascolto. Il seme di cui si parla è la Parola seminata nei fatti della nostra storia. Nei primi tre casi la Parola non la prende chi avrebbe dovuto prenderla, cioè il terreno buono.  Nella vita o fraintendiamo o comprendiamo e siamo chiamati ad una crescita. La vita è crescita e non esistono fasi intermedie: nella vita spirituale o si va avanti o si va indietro. Lo stesso seme produce frutti molto diversi. Dio non dà alle persone a chi più e a chi meno, quello che il Signore dona è, però, diverso secondo l’apertura del cuore delle persone. La parabola inizia con la folla che esce sulla spiaggia e Gesù se ne distanzia. Stanno tutti lì, ma ognuno non può vivere mescolandosi e nascondendosi nella folla. Ognuno è chiamato a un atto personale d’accoglienza: la fede è scelta personale. Anche io devo prendere una posizione: o lascio cadere le parole o non mi perdo una parola. Il problema della comprensione non è un esercizio intellettuale, ma cambia secondo il rapporto con il maestro. La Parola dice, infatti, la Prima Lettura “non torna in cielo come la pioggia e la neve, senza aver prodotto l’effetto per cui è stata mandata”, quantomeno l’effetto della verità. C’è il seme che cade sulla strada: è destinato ad uno, ma gli uccelli, cioè i pensieri che vengono dal demonio, lo portano via. È ciò che accade quando il Signore ci dice cose che noi non comprendiamo, perché quando una cosa non la capiamo di solito non la accettiamo: la novità implica sempre un trauma. Dio non può dirci sempre quello che capiamo o quello che già sappiamo, Dio ci dice ciò che ci serve per farci crescere e crescere vuol dire uscire dall’infanzia e diventare adulti: nessuno di noi va a scuola o manda i figli a scuola per imparare qualcosa che già sa, ma per imparare qualcosa di nuovo. I Vangeli, subito dopo Natale, ci narrano che “Maria non comprendeva, ma custodiva nel suo cuore queste parole”.  Il problema della nostra ragione è che spesso ci dà soltanto ragione e se ci fermiamo a quello che non capiamo ci chiudiamo. E se invece quello che non capiamo fosse parte di un disegno più grande? E se fosse un pezzo di una storia che si deve ancora compiere? Perché dobbiamo farcelo rubare dal maligno? Lasciamoci insegnare da Dio. C’è il seme che cade sul terreno sassoso, spunta subito, ma poi il sole lo secca.  Qui Gesù fa riferimento a coloro che accolgono la Parola con entusiasmo, poi arriva una tribolazione e si “seccano”. Se chi vive la strada vive di ragioni e cerca solo ciò che lo conferma, chi vive il sasso vive solo di emozioni, di sensazioni. Invece le persecuzioni arrivano: arrivano da fuori quando ti attaccano, perché vieni in chiesa; arrivano da dentro, quando le persone, anche dentro la chiesa, ti deludono; arrivano da Dio quando non ti dice quello che ti piace, ma ti contesta e ti fa soffrire. In questo caso abbiamo due possibilità: o ce ne andiamo o la Parola inizia a entrare in noi proprio quando non è l’entusiasmo che la conserva, ma qualcosa di più profondo che va oltre il cuore di pietra, cioè l’uomo vecchio. Ci sono, poi, le spine che crescono insieme col grano e lo soffocano. Qui Gesù fa riferimento a quelli che credono di poter ascoltare due cose e non scelgono mai: per poter dire sì alla Parola bisogna dire no ad altre cose. Le spine sono ciò che è incompatibile con quello che Dio ti sta dicendo e non si eliminano da sole, vanno tagliate. Anche a Maria una spada trafiggerà l’anima non per uccidere, ma per separare. Bisogna sempre tagliare qualcosa per fare spazio a Dio. C’è, infine, il terreno buono: “che dà frutto dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta”. Quando vivo con il Signore lasciandomi seminare da Lui in quello che c’è, che oggi può essere cento, sessanta, trenta, porto frutti, non risultati. Questi cento, sessanta e trenta non sono numeri messi a caso visto che erano anche le misure dell’Arca dell’Alleanza. Il terreno è, invece, il nostro cuore, dove cambia e dove non cambia, sapendo che il cammino con la Parola e con il seme è un cammino che dipende da quanto mi apro, perché la Grazia è per tutti e produce frutti straordinari, ma l’apertura spetta a me ogni giorno. (Francesco Buono)

Vangelo Migrante: Domenica 9 luglio – Vangelo Mt 11,25-30

9 Luglio 2023 -
Per conoscere il Signore bisogna ri-conoscere la propria povertà e smettere di vivere in adorazione del proprio ego: il centro non sei tu. Si racconta che San Francesco, dopo il bacio al lebbroso, quel giorno, per la prima volta, smise di adorare se stesso: in altri termini cominciò a conoscere tutto e tutti, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, come ci dice la Seconda Lettura. È lo Spirito che ci mostra la nostra debolezza, ovvero che da soli non riusciamo a fare il bene. In nome della nostra ragione, spesso, diventiamo piuttosto violenti, perché stanchi e oppressi.  La Prima Lettura parla di un re giusto e umile che cavalca l’asina e rialza chiunque è caduto: “Egli rigetta le armi della guerra e sceglie le armi della pace”. Ebbene, la seconda parte di questo Vangelo ci esorta a prendere il “giogo” di Cristo (è una parola molto bella, da cui vengono i termini “coniuge”, “coniugio”), che è la Legge con cui non si entra nel dovere, ma nella vera obbedienza: è la sottomissione, l’arte di entrare nella vita: non si può sempre solo dire che non va bene; non si può solo oscillare tra il subire tutto e il distruggere tutto. La vita ti mette un giogo sulle spalle: o lo porti con Dio o lo porti con la tua umanità. Con la nostra ragione creeremo solo l’oppressione nostra o l’oppressione dell’altro. Il “giogo” è, invece, andare al ritmo di Cristo e con Lui portare il peso della realtà. Non riusciremmo, da soli, neanche a fare il bene, perché anche il bene potrebbe diventare pesante e potremmo ribellarci al bene nella vita. Il problema non è essere uguali o pensarla allo stesso modo. Spesso il giogo era portato da un bue più grande e da un bue più piccolo: non si riesce mai a portarlo da soli. Il problema non è la diversità, ma, potremmo dire, è la comunione: rigare dritto, imparando da Colui che è “mite e umile di cuore”, da Colui che è dolce e sa cercare il ristoro di colui che Lui ama. Dio, nell’ entrare nella nostra povertà, è delicato: apriamoGli la porta e allora righeremo dritti. È un invito non è una pretesa:” Venite a me”, dice il Signore. È questo il passaggio dal vivere da soli al vivere da coniugi. È questa la frase meravigliosa che Enrico Petrillo si sentì pronunciare da sua moglie Chiara Corbella negli ultimi attimi della sua vita sulla terra: “Chiara è veramente così dolce questo giogo?” – “Sì, Enrico, perché lo portiamo con Cristo”. Da Cristo impariamo: la vera mitezza, l’arte di scegliere la giusta battaglia; la vera umiltà, l’arte di fare da soli ma non da soli, cioè da coniugi, sposati da Cristo per sposare la realtà. Se il giogo lo portiamo con Lui non ci schiaccia, ma in Lui troveremo il vero riposo e il vero ristoro. Apriamoci al vero riposo. (Francesco Buono)

Vangelo Migrante: Domenica 4 giugno – SS. Trinità

1 Giugno 2023 -
Celebriamo oggi la Festa della Santissima Trinità. Perché si celebra? Apparentemente potrebbe sembrare una festa astratta. In realtà la Festa della Santissima Trinità è la Festa della nostra Salvezza: lo Spirito Santo è l’unione tra il Pastore e la pecora, è il Signore della Comunione, il Signore della relazione. È Lui che ci fa incontrare Gesù vivo che ci salva e questa esperienza della salvezza, attraverso il Figlio, ci fa conoscere il Padre. E così non viviamo più da servi o da soli, con tutto lo zaino della vita sulle spalle, ma viviamo nella libertà dei figli che si sentono amati dal Padre. Abbiamo bisogno, di conseguenza, di festeggiare Dio che è Padre e che ci genera sempre come Figli in ogni fatto della vita, anche negli eventi di morte, della nostra vita: anche la morte fisica sarà la strada che ci apre il cielo, che ci apre il Paradiso. Abbiamo poi bisogno di credere che Gesù è l’unico vero Signore, così possiamo disobbedire a tutti gli altri padroni che dominano la nostra vita e ci rendono schiavi. Infine, abbiamo bisogno di credere nello Spirito Santo che è Signore e che ci insegna la vita, correggendoci e consolandoci. È nella consapevolezza della Trinità che facciamo l’esperienza di quel “tanto” che Gesù dice a Nicodemo nel Vangelo di oggi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio unigenito”. Noi, attraverso lo Spirito, riceviamo Gesù come il dono del Padre, come l’amore del Padre, per non andare perduti, poiché tutti rischiamo di andare perduti, cioè di sprecare la nostra vita. Abbiamo, quindi, bisogno della vita di Dio che si riceve su questa terra, per vivere tutto con la “qualità” della fede. “Egli è venuto, non per condannare, ma per salvare”. Abbiamo la concreta possibilità di perderci, la concreta possibilità di dire “no”, ma “chi non crede è già stato condannato”: che cos’è questa condanna? Aggiunge Giovanni:” Perché non crede nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”, cioè la condanna è legata al nome.   Di quali nomi si sta parlando? Si sta parlando di Paolo, di Francesca, di Luigi? No. Chi non crede è condannato dagli altri nomi che vengono dagli altri padri, ma quanti nomi abbiamo? Per rispondere facciamo riferimento al rito del Battesimo, laddove è molto interessante la domanda che viene fatta all’inizio: “che nome date al vostro bambino?”. Ovviamente i genitori non danno il nome in quel momento, avendolo già scelto e registrato all’anagrafe. Quella prima domanda del rito del Battesimo è, in realtà, una presa di consapevolezza che il primo nome lo riceviamo dai nostri genitori, dalla vita che loro ci hanno dato, tanta o poca, bella o brutta, vuota o piena; c’è poi un secondo nome, che è quello che ci diamo da soli per reagire al nome che ci è stato dato dai nostri genitori: quindi se devo essere quello “bravo”, farò di tutto per soddisfare le loro aspettative o farò di tutto per non essere bravo. È chiaro che questo nome non è “libero” in quanto è solo la mia reazione al primo nome ricevuto; il terzo nome, invece, è quello che mi dà il Padre: quando mi dà questo nome? Nel Battesimo, ma diventa concreto nel momento in cui io mi rendo conto che da solo non posso cambiare il mio nome, ma lascio amare il mio nome al Padre ed esso diventa per me: “vivere tutto da figlio amato”, per cui io non mi sento condannato dalla mia vita o nella mia vita, ma io vivo da salvato. Questo è il senso di quel Nome che nella prima lettura il Signore proclama sul monte a Mosè, che è andato a portar su le Tavole con la Legge di pietra a cui il popolo non è capace di obbedire e di servire. Lì Mose riceve quel Nome da imporre sulle spalle del popolo, un popolo di dura cervice. Un Nome che è misericordia, un Nome che è salvezza. È molto diverso fare esperienza di Dio nella vita e conoscere Dio per Nome. Un conto è aver incontrato Dio nella vita, e un conto è vivere in comunione con il Padre, con il Figlio e con lo Spirito Santo nel segno di quella preghiera semplice che ci è stata insegnata da bambini, che non dice “Il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo….”, ma “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.”. La Trinità o si vive da dentro o si vive da fuori e questo cambia tutto. (Francesco Bruno)
 

Vangelo Migrante: V domenica di Quaresima | Vangelo (Gv 11, 1-45)

22 Marzo 2023 - Attorno alla persona di Gesù, nei Vangeli di queste domeniche, in un crescendo, sono apparsi con sempre maggiore evidenza il dramma dell’uomo e la gloria di Dio: nell’uomo prevale la necessità dell’acqua, della luce, della vita; da Dio provengono la sorgente che disseta, la verità che illumina, la resurrezione che dà vita. L’episodio della resurrezione di Lazzaro, questa domenica, è la prova generale della Resurrezione di Gesù, il fondamento della nostra fede. La morte resta un dramma ed è il problema dell’uomo. Non solo quella esistenziale ma anche le tante morti e mortificazioni, dinanzi alle quali i nostri desideri e i nostri progetti non possono nulla. Nel Vangelo odierno colpisce una sorta di lentezza da parte di Gesù. Marta, la sorella del defunto gliela fa notare: “se tu eri qui, mio fratello non moriva”.  A volte l’attesa di un Suo intervento, lento e quasi distratto, sembra metterci alla prova. Perché fa così? Dal Vangelo odierno impariamo che i tempi di Dio non sono i nostri e l’intervento di Dio non va confuso con il far qualcosa e basta: Dio non è cura palliativa ma uno che risolve le cose alla radice. Come per la Samaritana Egli chiede da bere per poi offrire acqua in abbondanza, così per Lazzaro: aspetta la morte, ed anche una sorta di necrosi, per poter operare la vita. È probabile, e anche molto umano, che, presi dalle nostre paure e dal nostro dolore, noi non ce ne accorgiamo. Il primo segno dell’Opera di Dio è proprio questo: nella necrosi nessuno mette mano; Gesù lo fa perché Dio va dove non va nessuno. E da lì ricomincia la vita: scatena le porte degli inferi e riprende l’uomo dove i vermi se lo mangiano e lo porta con sé. Il Suo pianto è una risposta a Maria. Come a dirgli: “ho colto profondamente il tuo stato. Ti ho accolta”. Il passaggio è importante. Molte volte, impotenti dinanzi alle tante lacrime di chi chiede di essere accolto, forse anche a noi è sembrato più logico darci da fare senza aver fatto prima quel silenzio, anche ferito e in lacrime, che ci mette in condizione di entrare in relazione con Dio, farci accogliere da Lui e riconoscere l’Opera sua, che vive e dà vita anche attraverso le nostre azioni. Solo sentendoci accolti da Lui possiamo dare il meglio di noi stessi anche agli altri.

Vangelo Migrante: IV domenica di Quaresima – Vangelo (Gv 9, 1-41)

16 Marzo 2023 - L’acqua promessa alla Samaritana, nel vangelo di questa domenica diventa segno di guarigione. Non una qualsiasi guarigione ma un ritorno alla luce che fa vedere ogni cosa. Nel cammino di preparazione al battesimo degli adulti, il catecumenato, questa domenica è una tappa fondamentale: è la domenica della professione di fede. Come il cieco nato, anch’essi diranno: credo Signore! Tra i migranti che incontriamo e a cui rivolgiamo le nostre cure pastorali, ci sono diversi fratelli e sorelle impegnati in questo percorso. L’occasione di averli con noi può essere propizia per risvegliare la nostra tensione dell’inizio della vita cristiana. Essa non è per nulla scontata visto che anche da battezzati resta l’esigenza di una guarigione degli occhi di una fede spesso impastata da troppi distinguo o cortesi dinieghi rivolti a fratelli e sorelle battezzati alla stessa fonte o ad altri uomini e donne venuti da lontano e, come noi, chiamati alla fede. Lo sguardo umano, apparente mente neutro, sovente si adagia sull’esteriorità delle cose e delle relazioni fino a sostituire la verità nelle cose e nelle persone: l’esclusione del cieco è verità indiscussa e indiscutibile, per lui, per i suoi stessi parenti e ovviamente per quelli che l’hanno decretata. Non per Gesù. Perché il bisogno di vedere, in quell’uomo rimane. Non può spegnersi ciò per cui siamo stati creati. L’opera di Dio non può essere annientata. Ne è prova il fatto che la vista ricevuta crea un problema in comunità: il cieco (lo straniero) dove lo mettiamo? Non basta dire: “è ipocrisia”. Troppo facile. Qui si tratta di aver perso di vista Dio; è questo che produce ipocrisia, a tal punto che anche la lode che fa il cieco (dottrinalmente impeccabile) risulta inammissibile. Dio non vuole la morte di nessuno. E Gesù, che è da Dio, luce da luce, è venuto a fare cose che solo Dio sa fare. Ma perché questo accada è necessaria una fede che faccia vedere oltre il legalismo o il buonsenso in cui ci ricacciano le cose di questo mondo ma che non provengono da Dio e non portano a Dio. Che non capiti anche a noi che questa presunzione nella quale tentiamo di recintare la nostra vita e, in proiezione, quella di altri uomini e donne, faccia ancora esclamare al Maestro; “se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite “noi vediamo”, il vostro peccato rimane!” (p. Gaetano Saracino)  

Vangelo Migrante: III domenica di Quaresima| Vangelo (Gv 4, 5-42)

9 Marzo 2023 - Per tre domeniche il Vangelo di Giovanni, attraverso alcuni segni, ci accompagnerà al Mistero di Gesù: chi è, da dove viene e dove ci porta. Scopriamoli. Il primo indizio è dato nell’incontro con la Samaritana. Il segno è l’acqua! Dio attende al pozzo della storia, paziente e rispettoso. Quello è un luogo dove per necessità occorre passare. L’umanità ferita, dopo essersi lavata un po' se n’è andata ma, di tanto in tanto, deve tornare ad attingere acqua per andare avanti. Proprio come fa la donna Samaritana: essa sa che può caricarsela solo un po' alla volta e per questo è costretta a passarci spesso. In uno di questi passaggi, Gesù è là e chiede da bere. Umiliandosi nel chiedere da bere permette alla donna, simbolo dell’umanità, di volgergli lo sguardo. Non pretende attenzione né contesta le sue carte sporche. Le ferite sono squarci attraverso i quali fa passare la sua luce per offrire non un pozzo ma una sorgente, non gli amori ma l’Amore. E rivela che dinanzi ad una donna, e per di più samaritana, c’è il Dio di ogni uomo. Non quello delle identità e delle appartenenze, dei primati, degli obblighi e dei distinguo ma quello che abita la storia, le fragilità e i bisogni di ogni essere umano, di tutto l’essere umano. La scelta da fare è se tornare ad abbeverarci a pozzi esauriti o esauribili, oppure passare alla fonte dove l’acqua sgorga. Il Risorto che adoreremo a Pasqua è questa fonte che zampilla per la vita eterna. (p. Gaetano Saracino)

Vangelo Migrante: II domenica di Quaresima | Vangelo (Mt 17, 1-9)

2 Marzo 2023 - Se l’inganno della tentazione è il boccone attraverso il quale il maligno opera la distruzione e l’annientamento di Quelli che Dio ama, la Trasfigurazione è la gloria, il peso specifico, che Dio dà ai Suoi amati, ad iniziare dal Figlio che finirà per farsi cibo nella Pasqua verso la quale siamo in cammino. Questo è il cammino della Gloria: si sale, si vede, si discende. L’ascesa al Tabor è condizione necessaria per vedere altro, per vedere diversamente quel reale in cui il demonio dopo averci separato da Dio, dapprima ci fa pensare male di Lui e quindi ci offre se stesso come dio da adorare. Schema falso e, purtroppo, vincente. La vista della Gloria non è tras-formazione di qualcosa in qualcos’altro ma è tras-figurazione, ossia la stessa cosa vista nel suo senso autentico e profondo: oltre la figura, oltre la forma. A cambiare sono gli occhi di un essere umano semplice e non acculturato come Pietro, al quale quella rivelazione risulta accessibile e bella fino a fargli esclamare: “... restiamo qui!” E c’è anche la discesa, perché Dio non è mai autoreferenziale, anche se a volte fa comodo pensarlo così e fissarlo in un quadro dottrinale. Il rientro al reale, non di rado esposto alle insidie di questo mondo, è il luogo dove Egli trasfigura e mette ordine ai nostri desideri, ai nostri progetti e ai nostri bisogni. È dura, ma la discesa di questi tempi per noi è sulla spiaggia di Cutro in mezzo a quel che resta di un barcone che all’alba di domenica scorsa (I domenica di quaresima) incagliandosi in una risecca, a causa del mare agitato, ha rovesciato in mare bambini, donne e uomini, di cui 66 vittime e 81 superstiti, finora accertati; la discesa è fra le gelide terre del territorio ucraino e in quelle di altri 60 scenari dove insistono guerre e conflitti;  è fra le corsie di ospedali o case di lunga degenza; è fra le contese tra coniugi o ex coniugi che oltre a distruggere le famiglie stanno distruggendo le persone; è fra le assurde e insensate aggressività degli adolescenti per cui non si riesce a capire il verso da cui approcciarli. Più che mai avvertiamo il bisogno di una vera trasfigurazione per collaborare al Suo progetto di salvezza. Ancora una volta: o ci amiamo o ci distruggiamo! (p. Gaetano Saracino)  

Vangelo Migrante: VII Domenica del Tempo Ordinario

16 Febbraio 2023 -
In questa settima domenica del tempo ordinario, alle soglie della Quaresima, il Vangelo proietta una scandalosa aurora sugli occhi dei cristiani, uno scorcio di quel “non ancora” che illumina e provoca il “già” di chi ascolta. Chi è venuto a dare compimento alle parole di Mosè le sta, via via, rendendo perfette liberandole dai limiti che la paura ha sinora imposto loro e adesso, in quest’ultimo commento, sembra giungere quasi stravolgerle. “Avete udito che fu detto: «Occhio per occhio e dente per dente»”: seguendo l’ordine in cui i precetti e divieti della Legge vengono elencati nel libro dell’Esodo, dopo il Decalogo, Gesù va a interpretare il cosiddetto “codice dell’Alleanza” dove si trova la legge del taglione (cf. Es 21,24). Legge, che dai vari membri del corpo, verrà estesa all’intera vita, nel Deuteronomio: “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente” (19,21). In realtà viene ad esservi stabilita una giustizia retributiva ben superiore a quella sproporzionata che la precedeva: la legge di Lamec, figlio di Caino. In essa, infatti, era detto: Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette” (Gen 4,23-24). Un’asimmetria che ci ricorda qualcosa di molto più recente rispetto ai tempi del Caino biblico, quando la morte di un tedesco valeva la vendetta della morte di dieci italiani. La Legge del Sinai dimostra di essere madre di una più alta civiltà quando stabilisce che ogni vita vale come l’altra, sia quella del re sia quella del cittadino comune, sia quella del povero sia quella del ricco, conferendo alla vita un valore assoluto. Ma due sono i limiti su cui Gesù va a intervenire: il primo è quello che ivi si intenda la vita del fratello ebreo e non di tutti gli umani al mondo; ancorché non manchino delle attenzioni per la vita del “nemico”, infatti, quella che viene protetta con la comminazione della vendetta è la vita del fratello, del figlio di Abramo circonciso. Non per nulla Gesù prosegue dicendo: “Avete inteso che fu detto: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico»”. Il prossimo è quello che fa parte della tua famiglia, della tua etnia, della tua “nazione” – oggi qualcuno direbbe! – mentre nel “nemico” ci sono tutti gli altri: gli stranieri, i pagani, quelli che sono fuori dal “muro” della tua appartenenza. Qualcosa che viene spontaneo paragonare a tanti consigli che sentiamo dare oggi in Europa: stabiliamo un confine tra noi e i migranti, i profughi, i mussulmani, tutti coloro che premono alle porte – immaginarie – ed erette proprio dal limes escludente della legge. Il secondo limite sta nel fatto che la vendetta tradisce la ragione stessa per cui Dio donò la Legge ad Israele: perché avesse la vita! La vendetta non riesce infatti che ad accumulare morte su morte. Ed è per questo che, sin dalle pagine del libro dell’Esodo, poco dopo che vi leggiamo sulla legge del taglione vediamo che Dio stesso si trova a trasgredirla! Verso quel popolo che alle pendici del monte Sinai, infatti, avrebbe meritato la morte perché s’era fabbricato un vitello d’oro per adorarlo, Dio rinunciò alla vendetta e si fece per loro pura misericordia. Quel popolo che da alleato era divenuto un nemico del suo Dio fu trattato da Lui come un figlio adorato! Cui si perdona perché possa vivere e mutare il suo cuore e capire che l’unica “giustizia” che genera vita è la grazia dell’amore, è la fraternità universale, è la riconciliazione offerta incondizionatamente, che abbatte il muro fra amici e nemici. Di questa “giustizia” di Dio – “che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” – Gesù riconosce la radice nell’antica legge di Mosè e cerca di spiegarla a chi, pur sapendola a memoria, sembra non averla ben compresa. Qualcosa che rispecchia  l’ignoranza anche di molti tra noi cristiani che ancora si scandalizzano del porgi l’altra guancia, che non vedono ancora altra soluzione che quella armata a chi fa la guerra. “Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli”. Chi si dice cristiano non può rinunciare a quell’unica, originaria “differenza” che Tertulliano già riconosceva: “Amare gli amici lo fanno tutti, i nemici li amano soltanto i cristiani” (Ad Scapulam 1,3). “Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? (…) Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. (Rosanna Virgili)  

Vangelo Migrante: VI domenica del tempo ordinario|Vangelo (Mt 5,17-37)

10 Febbraio 2023 - “Sta scritto… ma io vi dico”, è la Parola che risuonerà nel Vangelo di questa domenica. Nessuna divisione o polarizzazione, come forse piacerebbe. Gesù entra nel progetto di Dio non per rifare un codice, ma per rifare l’amore. “Avete inteso che fu detto agli antichi: non ucciderai;” ma chi non ama, uccide già. Il non-amore è già un incubatore di violenza e omicidi oltre che un lento morire. E Gesù mostra i primi tre passi verso la morte: l’ira, l’insulto, il disprezzo, tre forme di omicidio. L’uccisione esteriore viene dalla eliminazione interiore dell’altro. Questo fa innanzitutto il non-amore. “Avete inteso che fu detto: non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore”. Non dice semplicemente: se tu desideri una donna; ma se guardi per desiderare, con atteggiamento predatorio, per conquistare e violare, per sedurre e possedere, se la riduci a un oggetto da prendere o collezionare, tu commetti un reato contro la grandezza di quella persona. ‘A(du)lterio’ significa alterare, cambiare, falsificare, manipolare la persona; e, quindi, rubare a quella persona il sogno di Dio. Adulterio non è tanto un reato contro la morale, ma un delitto contro la persona, deturpare il volto alto e puro dell’umano che c’è il lei. E conclude: “avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non giurerai il falso (…) Ma io vi dico: Non giurate affatto; il vostro dire sia sì, sì; no, no”. Gesù va fino in fondo: dal divieto del giuramento, arriva al divieto della menzogna. Dì sempre la verità e non servirà più giurare. Non abbiamo bisogno di mostraci diversi da ciò che siamo nell’intimo. Dobbiamo solo curare il nostro cuore, per poi prenderci cura della vita attorno a noi; è necessario guarire il cuore per poi guarire la vita. È la pagina tra le più radicali di tutto il Vangelo ma, per contrasto, capisci che è anche la più umana, perché agisce su tre leve decisive della vita di ciascuno: la violenza, il desiderio, la sincerità.  Gesù annuncia la Vita, sempre; e lo fa con le parole proprie della Vita: “Custodisci le mie parole ed esse ti custodiranno” dice il libro dei Proverbi. Con linguaggio corrente, viste anche le tante parole ‘cantate’ e confuse di questi giorni (Sanremo) potremmo commentare: “…e non finirai nell’immondezzaio della storia”.  

Vangelo Migrante: V domenica del tempo ordinario |Vangelo (Mt 5,13-16)

2 Febbraio 2023 - Voi siete sale, voi siete luce. Sale che conserva le cose, luce che accarezza le cose e ne risveglia i colori e la bellezza. Nell’immagine Gesù annuncia che dalla buona riuscita della nostra avventura umana e spirituale, dipende la qualità del resto del mondo. Come fare per vivere questa responsabilità che è di tutti? Meno parole e più gesti. E nei gesti alcuni accorgimenti: non siamo noi ad aver acceso le qualità del nostro sapore e la luminosità dei nostri gesti; né la loro utilità è data per ottenere vantaggi. L’agire annunciato da Gesù è sempre per la gloria di Dio. È Lui che ha creato il buono del sapore e il bello della luce. La testimonianza cristiana è autentica quando rimanda al Padre dei cieli, altrimenti è inutile e dannosa come il sale che diventa insipido e come una lucerna posta sotto il moggio. Un agire intriso di autoreferenzialità o sempre alla ricerca di approvazione svuota di senso le stesse azioni dando origine a macroscopici abbagli, a picchi di ‘entusiasmo immotivato’ destinato a non durare e a non servire. Il discepolo si preoccupa esclusivamente di far conoscere questo Dio origine e fonte. Nella sua autentica fedeltà alla gloria di Dio, e non alla sua, risiede la riuscita e il senso di quello che fa. Il discepolo è pienamente consapevole di essere limitato ma sa bene che la sua unica ricchezza è Dio. Quanti hanno l’occasione di incontrare questo sapore e questa luminosità sono naturalmente scossi e inevitabilmente si interrogano sui motivi che spingono ad agire così. È il Vangelo ‘sine glossa’ del poverello di Assisi di cui si racconta che un giorno invitò fra’ Ginepro ad uscire con lui e a predicare. In risposta, fra’ Ginepro gli manifestò la sua nota inadeguatezza al compito ma, vista l’insistenza di Francesco, acconsentì. Girarono per tutta la città pregando in silenzio, sorridendo ai bambini, accarezzando i malati e aiutando qualche donna a portare dei pesi. Dopo aver attraversato più volte la città arrivò l’ora di rientrare. Fra Ginepro chiese: “e la nostra predica?”.  “L’abbiamo fatta, l’abbiamo fatta” rispose il santo.