18 Luglio 2025 – A margine della tavola rotonda “I Nord e i Sud del mondo: quali relazioni oggi?”, promossa da Progetto Continenti il 14 giugno presso il Convento di Sant’Andrea a Collevecchio (RI), “Migranti Press” ha intervistato S.E. mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vicepresidente della Conferenza episcopale italiana per l’Italia meridionale.
Eccellenza, c’è stato un tempo in cui l’Europa discuteva animatamente circa la propria identità e le proprie radici cristiane. Oggi quel le radici sembrano affiorare solo nei discorsi, ma non nelle scelte. Di fronte a un’Europa che si chiude, che si mostra fragile e disorientata sul tema delle migrazioni, lei ha parlato di “smarrimento”. È forse questo lo smarrimento di chi ha perso memoria delle proprie radici?
Sì, ho parlato volutamente di smarrimento. Non si tratta solo di una crisi politica o sociale: è, prima ancora, una crisi di senso. L’Europa sembra aver perso il filo della propria narrazione fondativa, quello che univa diritto e misericordia, giustizia e accoglienza. Il dibattito sulle “radici cristiane” si è spesso ridotto a una sterile contesa ideologica, dimenticando che il Vangelo è innanzitutto prossimità, non uno slogan identitario.
Oggi quelle radici affiorano nei discorsi, ma raramente ispirano scelte coraggiose. Occorrerebbe tornare a ciò che san Paolo VI chiamava “umanesimo integrale”: un’Europa fondata su un’idea alta dell’umano, capace di custodire i più fragili come pietre angolari del progetto comune (cfr Ef 2,20). Lo smarrimento attuale è il segno di una memoria tradita. Non si può custodire la memoria senza la fatica del discernimento storico e spirituale. La gestione delle migrazioni è la cartina al tornasole di una civiltà.
Quando l’altro è visto solo come un capro espiatorio e non come una rivelazione di senso, significa che abbiamo reciso le radici evangeliche che parlano di “forestiero accolto” (cfr Mt 25,35). L’Europa che si chiude è un’Europa impaurita, e la paura – come insegna Roberto Esposito – è sempre cattiva consigliera nella costruzione dell’ordine politico. Ma se tornassimo a vedere in ogni volto migrante il riflesso di Cristo, allora sì, quelle radici diventerebbero carne, decisione, civiltà.
“Sogno un’Europa solidale e generosa. Un luogo accogliente ed ospitale, in cui la carità – che è somma virtù cristiana – vinca ogni forma di indifferenza e di egoismo”, scriveva papa Francesco nel 2020. Oggi, però, sembra prevalere un’Europa chiusa e impaurita, che fatica a riconoscere il volto umano del migrante. Quanto ci siamo allontanati da quel sogno?
Ci siamo allontanati da quel sogno tanto quanto ci siamo allontanati dal Vangelo. Perché quel sogno non è un’utopia astratta: è il riflesso più concreto dell’annuncio cristiano, che ci chiede di riconoscere nel volto dell’altro – soprattutto nel volto sofferente, straniero, vulnerabile – la carne stessa di Cristo.
Oggi l’Europa sembra vivere una forma di afasia morale: non trova più le parole, né le categorie, per riconoscere l’altro come fratello. È il segno di una deriva culturale e spirituale, in cui il sogno della fraternità è stato soppiantato dalla retorica della paura. In molti Paesi europei assistiamo al riemergere di forme di nazionalismo difensivo, che costruiscono l’identità sul rifiuto dell’altro.
Come ha lucidamente osservato Tony Judt, il problema non è solo l’oblio, ma la manipolazione del passato a fini identitari: la costruzione della nazione si accompagna troppo spesso a un racconto mitico, epurato dalle responsabilità storiche, che giustifica chiusure e autoassoluzioni. Anche Paul Ricoeur, nella sua opera La memoria, la storia, l’oblio, ci ammonisce sull’ambivalenza della memoria: essa può essere forza di riconciliazione, ma anche strumento di esclusione, se ridotta a narrazione unilaterale.
Ecco perché una memoria davvero cristiana deve essere memoria ospitale, aperta all’altro e capace di trasformare la storia in responsabilità. Oggi, al contrario, si innalzano muri, si esternalizzano le frontiere, si criminalizza il soccorso. Eppure, la carità, che papa Francesco chiamava “somma virtù cristiana”, non è un’appendice dell’agire politico: è il suo cuore dimenticato. Senza carità, anche la giustizia si svuota. E senza accoglienza, l’Europa tradisce sé stessa.
Siamo dunque lontani da quel sogno, sì. Ma il sogno resta. Ed è nostro compito – come Chiesa e come cittadini – renderlo ancora abitabile. La speranza non è ingenuità, ma forza trasformativa. Abbiamo bisogno di un’Europa più unita nella compassione che nei trattati, capace di riconoscere che la difesa della dignità umana viene prima di ogni confine.
Dal 2013 si stima che oltre 30.000 persone abbiano perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo. Dopo la tragedia di Cutro, nel febbraio 2023, lei ha parlato di un “fallimento collettivo” che pesa come una colpa storica, denunciando una “miopia politica”, ma anche una “cecità spirituale”. Le migrazioni ci interpellano come cristiani, ancor prima che come cittadini. Non dovremmo allora chiederci se, oltre all’inadeguatezza della politica, vi sia anche una difficoltà propria del Popolo di Dio nel riconoscere nelle migrazioni un autentico “segno dei tempi” da leggere e interpretare alla luce del Vangelo?
Sì, è una domanda profonda e imprescindibile. Le migrazioni non sono soltanto un fenomeno sociale o politico, ma un segno dei tempi, nel senso più vero che il Concilio Vaticano II ha dato a questa espressione. Sono il grido della storia che reclama di essere ascoltato alla luce del Vangelo. Se non impariamo a leggere questi drammi come vere e proprie realtà teologiche, rischiamo di separare la fede dalla realtà, il culto dalla giustizia, la liturgia dalla carità.
La tragedia di Cutro, come le migliaia di vite spezzate nel Mediterraneo, sono “epifanie” della nostra indifferenza strutturale: riflettono una civiltà che ha smarrito la grammatica della compassione. Per questo parlai – e oggi ribadisco – di un fallimento collettivo, che riguarda non solo le istituzioni, ma anche la coscienza ecclesiale e della comunità.
Se un’intera generazione resta muta davanti alla morte dei poveri in mare, significa che qualcosa si è rotto non solo nel sistema, ma anche nell’anima. La Chiesa, Popolo di Dio in cammino, è chiamata a una conversione profonda: non può restare neutrale davanti al grido dei migranti, né limitarsi a offrire solo assistenza caritativa, per quanto indispensabile.
È tempo di una pastorale profetica, capace di alzare la voce contro le ingiustizie strutturali e di accompagnare i migranti come sacramenti di una presenza divina che ci visita nel povero, nel perseguitato, nel naufrago. In questo senso, il Vangelo ci precede: non ci chiede il permesso per essere annunciato nelle periferie del mondo. “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi […] sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (GS 1).
Il fenomeno migratorio è oggi uno dei nodi centrali della storia della salvezza, perché ci obbliga a domandarci non solo “cosa dobbiamo fare”, ma soprattutto “chi vogliamo essere”. Non possiamo accettare che il Mediterraneo sia ormai un grande cimitero liquido, né restare prigionieri di una spiritualità disincarnata, che consola ma non converte. Accogliere non è solo un gesto etico, ma una scelta escatologica: una risposta concreta alla presenza viva di Dio nei poveri.
Vorrei concludere spostando il nostro sguardo dalle migrazioni forzate a quella presenza silenziosa – o, meglio, silenziata – costituita da oltre 5 milioni di stranieri regolarmente e stabilmente residenti nel nostro Paese. Il cardinale Zuppi, in più occasioni, ha denunciato i rischi di una lettura politicizzata e strumentale del fenomeno migratorio, sottolineando, invece, la necessità di affrontarlo con coraggio politico e senso di responsabilità sociale. Alla luce dell’esito del recente referendum sulla cittadinanza, le chiedo: possiamo dire che, allo stato attuale, in Italia manchino proprio quel coraggio politico e quel senso di responsabilità auspicati dal presidente della Cei?
Sì, possiamo dire che in Italia manca ancora quel coraggio politico e quel senso di responsabilità sociale auspicati dal cardinale Zuppi. Il referendum sulla cittadinanza ha mostrato quanto il tema resti fragile, spesso banalizzato o strumentalizzato politicamente, nonostante si tratti di una questione fondamentale per la qualità della nostra democrazia. Parliamo di oltre 5 milioni di persone straniere stabilmente residenti, molte delle quali pienamente integrate nella vita del Paese, ma escluse dal riconoscimento giuridico. È una zona grigia che contraddice il principio di giustizia.
Detto questo, è importante riconoscere anche i segnali positivi. Penso al recente Protocollo d’intesa firmato tra la Cei e il ministero dell’Interno, che rafforza la collaborazione tra istituzioni civili e realtà ecclesiali per un’accoglienza diffusa, dignitosa e sostenibile. È un passo concreto che dimostra come sia possibile coniugare legalità e solidarietà, coesione sociale e rispetto delle regole. Da queste sinergie può nascere una politica migratoria più giusta, umana e lungimirante. Come cristiani, non possiamo accontentarci di uno sguardo neutrale o rinunciatario.
La Parola di Dio ci interpella con forza: ci chiama a essere un popolo dell’accoglienza, non spettatori passivi di un mondo ferito, ma testimoni attivi di una storia di riconciliazione. Non basta osservare le ingiustizie da lontano: siamo chiamati a incarnare il Vangelo nei luoghi dove si decide il destino dell’umano. La cittadinanza, in questa prospettiva, non è solo un atto legislativo, ma una forma di responsabilità reciproca: è il gesto con cui riconosciamo l’altro non come ospite temporaneo, ma come parte viva della comunità.
Come ha scritto papa Francesco nella Fratelli tutti, “nessuno può affrontare la vita isolatamente” (n. 30). È un principio che vale anche per le nazioni. Riconoscere i nuovi italiani, accompagnare i percorsi di integrazione, superare la logica dell’eccezione e della paura: sono tutte tappe essenziali per costruire una società più giusta, matura e fedele al Vangelo. (Elia Tornesi in Migranti Press 6 2025)



