Giornata internazionale dei migranti: la storia di Balbir Singh

17 Dicembre 2025 – Il 18 dicembre si celebra la Giornata internazionale dei migranti, proclamata dall’Onu nel 2000 per ricordare l’approvazione – il 18 dicembre 1990 – della “Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie”. Per l’occasione ripubblichiamo integralmente da “Migranti Press” l’intervista di Ilaria De Bonis a Marco Omizzolo sulla vicenda “esemplare” – un storia di successo ma anche di fallimenti – di Balbir Singh.

È forse ingenuo defini­re la storia di Balbir Sin­gh semplicemente come di successo o “a lieto fine”. Ma, in effetti, quella del braccian­te sikh indiano rimasto schia­vo per sei anni in una tenuta di uno dei tanti “padroni” dell’A­gro pontino, e poi liberato, non può essere chiamata in altro modo.

L’uomo, originario del Punjab come migliaia di altri braccianti nelle campagne laziali, è emer­so dalla trappola di una vita di­sumana e fuori legge (schiaviz­zata eppure “normalizzata” in Italia), grazie alla sua forza di volontà, alla preghiera, e a una profonda fede in Dio, quella del sikhismo appunto.

Ma senza la rete di persone, con Marco Omizzolo al cen­tro, che si sono occupate di lui, dopo mesi di lavoro in accordo con le forze dell’ordine, Balbir non sarebbe mai uscito dalla schiavitù.
Ne abbiamo parlato proprio con Omizzolo, classe 1975, so­ciologo, giornalista, attivista e grande conoscitore della realtà nelle campagne della Pianura Pontina. È co-autore con Singh di Il mio nome è Balbir, pubbli­cato da People editore.

«Oggi Balbir è impiegato come lavoratore agricolo nelle cam­pagne italiane, con un contrat­to di lavoro in regola e ha preso la patente. È molto grato all’I­talia per averlo aiutato a uscire da questo incubo. Per lui lavo­rare, rimanere qui e poter gui­dare un veicolo è un grande successo! Sia dal punto di vista lavorativo che personale e fa­migliare, Balbir Singh sta cre­scendo», ci spiega Omizzolo.

Tuttavia questa storia racconta anche il fallimento di un Paese, il nostro, che consente di tene­re in piedi un sistema di corru­zione, criminalità e schiavitù molto solido, dove i “padroni” si spalleggiano a vicenda e al­cuni imprenditori locali, grazie alla connivenza degli enti in­termedi, possono schiavizzare gli esseri umani.

Ci sono leg­gi, spiega Omizzolo, come la Bossi-Fini, che «rendono pos­sibili situazioni di precarizza­zione, eclissamento dei diritti e delegittimazione» delle per­sone, con o senza permesso di soggiorno. Marco è decisamen­te uno dei riferimenti di quella rete che combatte da moltissi­mi anni per portare alla luce si­tuazioni di sfruttamento e raf­forzare gli strumenti a favore di chi vive in Italia.

Tuttavia, rispetto al fenome­no ignobile del trattamento dei braccianti nelle campagne, del lavoro in nero e della violazio­ne degli obblighi sanitari e le­gali, ammette di non essere per nulla ottimista: «Questo feno­meno, che sfocia nello schia­vismo, nonostante le molte in­chieste fatte e nonostante sia tutto uscito allo scoperto, non è stato scalfito in Italia».

L’affermazione di Omizzolo, che è anche docente universi­tario, pesa come un macigno. La denuncia è forte: «c’è una macchina social-politica e cul­turale che persiste. Un impian­to normativo procedurale e un welfare che hanno come scopo quello di produrre schiavi. Ne­gli anni questa macchina è ri­masta invariata».

L’intricato meccanismo che rende “mafiosa” tutta l’attività che ruota attorno ai “padroni” è stato analizzato in diversi libri da Omizzolo; in particolare con “Il sistema criminale degli india­ni punjabi in provincia di Latina”, pubblicato nel volume a cura di Stefano Becucci e Francesco Carchedi, Mafie straniere in Ita­lia, come operano come si con­trastano (Franco Angeli, 2016).

Dall’altra parte della barrica­ta ci sono persone senza pro­tezione, ma molto rispettose persino del padrone: tutto ciò è insito nella visione del sikhi­smo, così come l’attaccamen­to al lavoro e il senso di solida­rietà. Nonché la voglia di fare giustizia.

«Abbiamo anche avviato delle cause contro alcune aziende – dice Omizzolo –, ma ci voglio­no almeno tre anni per otte­nere giustizia. E nel frattempo molti lavoratori vengono li­cenziati. Ci sono casi di donne maltrattate, che hanno subito abusi e ricatti sessuali, ma non è scontato pensare che otten­gano giustizia».

C’è la storia di una trenten­ne molto coraggiosa che anni fa ha raccontato tutto nel cor­so di un’assemblea pubblica, mettendosi a nudo con fati­ca: «e non è facile per le don­ne, abituate al silenzio e a star nell’ombra, denunciare gli abu­si», dice Marco.

Queste vite sommerse e ben nascoste, occultate da un si­stema che è nato per lo sfrutta­mento, già da alcuni anni stan­no emergendo.
È amaro constatare come l’azio­ne di Omizzolo e quella di tan­ti come lui, compresa la Chiesa cattolica che sul territorio è im­pegnata ad aiutare, «hanno fat­to emergere il sistema, ma non lo hanno potuto indebolire».

Il sociologo dice che c’è «una ecclesia straordinaria, come quella del Monastero di San Magno a Fondi, che fa tanto per dare sostegno a chiunque ne abbia bisogno». Ma il sento­re è che la buona volontà non basti più. Che serva un’azione politica forte. L’azione dei sin­dacati, ad esempio, nella qua­le lo stesso Omizzolo credeva molto in passato, «appare oggi deludente», ammette lui.

Se qualche tempo fa ci ave­va raccontato: «non è vero che il sindacato ha esaurito la sua funzione: qui siamo di fronte a nuovi conflitti sociali», oggi è decisamente più scettico e per certi versi abbattuto.

Tornando invece alla “parte sana”, e di nuovo a Balbir, che è portatore di speranza vera, vale la pena leggere il libro per­ché è un’incredibile immersio­ne nell’universo fisico, mentale e spirituale di un uomo dall’e­levata forza morale. «Da circa sei anni non entro in un nego­zio, non torno a casa dai miei figli, non vado a fare una pas­seggiata, a una festa sikh o a un matrimonio. Sono carne e ossa usate dal padrone per i suoi in­teressi», racconta nel volume.

Per ben sei anni, relegato in una roulotte, vive vessazioni, fame, privazione di libertà per­sonale e duro lavoro. E tuttavia non si arrende, mantiene sal­da la sua umanità e lo sguardo alto al cielo: è un insegnamen­to di come si possa non passare dal ruolo di vittima a quello di carnefice, e di come si possa te­stimoniare il bene.

Leggendo, noi pure veniamo contagiati, siamo spinti all’a­zione. Non possiamo più dire di non sapere o di non voler ve­dere. Balbir non apre gli occhi al sistema corrotto, perché non fa miracoli, ma li apre al resto del mondo libero.

«Noi schiavi abitiamo accan­to a voi, a volte anche den­tro le vostre case» scrive Bal­bir nel capitolo “La schiavitù è sotto gli occhi di tutti, eppure ci chiamate invisibili”. «Ci po­tete incontrare per strada, in un cantiere, al supermercato, in fila all’Ufficio immigrazione della Questura o mentre peda­liamo su una bicicletta scassa­ta, indossando uno zaino enor­me per consegnare nelle vostre mani delle gustosissime pizze made in Italy cucinate da mol­ti di noi».

Come ci spiega ancora Mar­co Omizzolo la vicenda di quest’uomo «non è un caso ec­cezionale, isolato ma Balbir ha comunque vinto».

«È stato da poco di nuovo in In­dia dove ha potuto riabbraccia­re la moglie e i figli e soprattut­to conoscere il nipotino nato da poco. È possibile affermare che Balbir si dava per morto e invece abbraccia il futuro. Ave­va anche pensato al suicidio durante quei sei anni, ma alla fine non lo ha fatto, perché è un uomo profondamente reli­gioso e la sua religione gli vieta di uccidersi».

Balbir ci insegna la postura da assumere, il senso di gratitu­dine per il creato e l’amore per gli altri da mantenere anche in situazioni di grave sofferen­za. «Lo schiavo oggi non ha le catene, però, per come viene considerato, trattato, definito e sfruttato, non può esercitare quei diritti che voi considerate normali». Eppure ha sempre la possibilità di scegliere se sta­re dalla parte della vita o del­la morte, del cielo o dell’abis­so, del sorriso e della speranza o della disfatta totale. (“Il successo di Balbir Singh e il fallimento di un sistema schiavista. Una conversazione con Marco Omizzolo” di Ilaria De Bonis – da “Migranti Press” 10 2025).

Balbir Singh e Marco Omizzolo
Balbir Singh e Marco Omizzolo

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