Mons. Russo: “fare emergere tanti ‘nuovi europei’ dalla condizione di invisibili”

18 Giugno 2020 – Roma – “Oggi siamo insieme a numerosi amici e amiche che hanno varcato il Mediterraneo o sono giunti in Europa attraverso vie di terra: molti fra voi hanno dolorosamente perso amici e parenti”. Lo ha detto questa sera il segretario generale della Cei, mons. Stefano Russo, nell’omelia della veglia di preghiera “Morire di Speranza” nella Basilica di Santa Maria in Trastevere promossa dalla Fondazione Migrantes, la Caritas Italiana, la Comunità di Sant’Egidio, il Centro Astalli, la Federazione Chiese Evangeliche in Italia, lo Scalabrini Migration International Network, le Acli, l’Associazione Papa Giovanni XXIII, l’Associazione Comboniana Migranti e Profughi. “Sigle – ha detto mons. Russo – che possono apparire distanti a chi non ha familiarità con queste realtà, ma in verità ad ognuna di queste sigle corrispondono persone che si spendono ogni giorno per vivere quella prossimità che diventa un obbligo del cuore quando come cristiani ci rendiamo conto che questa può diventare una risposta importante alla chiamata che il Signore fa agli uomini e alle donne del nostro tempo. Questa assemblea liturgica si allarga ai tanti che sono collegati e alle altre veglie che hanno luogo a Roma, in Italia e nel mondo”.

Il presule ha invitato a riascoltare le parole di papa Francesco sul sagrato deserto di Piazza S. Pietro nel periodo pasquale: parole “rimaste impresse in modo indelebile nel nostro cuore ed hanno raggiunto i confini della terra caratterizzando particolarmente questo nostro tempo che oserei dire ‘fuori del tempo’. Riascoltiamo le sue parole, portando nel cuore non solo le attese personali, ma facendo nostre quelle dei profughi, dei rifugiati, dei migranti che, lungo quest’anno e ancor più nel tempo eccezionale della pandemia, muoiono e vivono nella disperata ricerca della salvezza”.

“I venti contrari sono certo forti e chi più ne soffre sono i poveri: nel tempo della pandemia, come non pensare a chi è costretto nei campi profughi sovraffollati, a chi non vede alcuna via di uscita? In Africa, in Asia – pensiamo ai Rohingya -, nel campo di Moira a Lesbo, già Europa, o chi si accalca alle sue frontiere. Lontano da noi, a Tapachula, di fronte al confine con il Messico. O ai siriani, nei campi libanesi”, ha detto il segretario generale della Cei: “luoghi di dolore, dove, più di prima, mancano cibo, vestiti, tende, cure sanitarie. Il lockdown inasprisce condizioni già invivibili, con uomini, donne e bambini impossibilitati al distanziamento fisico e senza accesso all’acqua per lavarsi, con il terrore di essere sterminati dal coronavirus. Quante preghiere salgono dai 50 milioni di sfollati interni che popolano i diversi continenti? Quante dai profughi detenuti in Libia, sottoposti a ogni genere di abusi, e da quelli che fuggendo vengono nuovamente respinti?”. “Di questo tutti abbiamo responsabilità, nessuno può sentirsi dispensato”, ha ricordato papa Francesco, domenica scorsa parlando della situazione in Libia al termine della preghiera dell’Angelus. “Se siamo qui è perché non solo non ci sentiamo dispensati, ma perché sappiamo che Gesù non è mai indifferente, anzi: salì sulla barca dei suoi amici e la sua presenza calmò le acque”, ha quindi aggiunto mons. Russo: “è quindi la sua presenza a donarci nuovamente l’audacia e la forza: della preghiera e del gesto. E non dimentichiamo, in questo tempo dopo la Pentecoste, che, non il vento del Mar di Galilea, ma il vento dello Spirito spinse i discepoli frastornati incontro ai popoli allora conosciuti, parlando una lingua nuova che tutti potevano intendere. La lingua dell’amore, che particolarmente nel tempo della pandemia ha visto molti soccorrere i più soli e i più esposti. Fra essi abbiamo presenti i volti di tanti e tante badanti, delle colf, di immigrate e rifugiate che si sono prese cura degli anziani impedendo che fossero abbandonati alla solitudine e preda del contagio negli Istituti. Sono stati tanti quelli che hanno avuto compassione e hanno portato il loro contributo per sfamare chi era senza casa”.

Prima della preghiera il saluto del vescovo ausiliare di Roma, mons. Daniele Libanori e poi il ricordo di alcuni fra i nomi di coloro che sono morti nel tentativo di raggiungere l’Europa. Sono, secondo alcuni dati, 40.900 persone morte, dal 1990 a oggi, nel mare Mediterraneo o nelle altre rotte dell’immigrazione verso l’Europa. Un conteggio drammatico, che si è ulteriormente aggravato nei primi mesi del 2020, quando, nonostante la situazione di emergenza causata dal Covid-19 sono state 528 – per metà donne e bambini – le persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere il nostro continente, soprattutto dalla Libia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. “È una tragedia dell’umanità di cui occorre fare memoria” sottolineano i promotori della veglia. “Ciascuno di loro è prezioso agli occhi di Dio, e lui, che non dimentica nessuno, aiuti noi, le nostre comunità di fede, il nostro Paese, la speranza di chi cerca un approdo di bene, di vita, di pace”, ha concluso mons. Russo che ha anche speso una parla sull’“occasione propizia che ci è data di fare emergere tanti stranieri, ‘nuovi europei’ dalla condizione di invisibili, valorizzando il loro lavoro e la loro presenza, preziosa per l’Italia e per loro stessi”.

Alla veglia hanno partecipato anche il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, il direttore generale della Fondazione Migrantes don Gianni De Robertis e quello della Migrantes di Roma il direttore di Avvenire Marco Tarquinio e il presidente del Centro Astalli, p. Camillo Ripamonti  e per gli scalabriniani,  p.  Gabriele Beltrami.

Raffaele Iaria

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