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In Famiglia: i figli, frecce scoccate dall’arco

27 Luglio 2021 - “Dopo queste cose” (Gen 22, 1-19). C’è un mondo dentro questa espressione sintetica. Abramo è un uomo che ha vissuto una lunga e avventurosa vita, che ha camminato tanto con i piedi e soprattutto con la sua fede. Un “nomade per Dio” che in Lui ha trovato la sua pace e il compimento di quella grande e misteriosa promessa a cui, alla fine, si è affidato contro ogni speranza. Ora può godere il frutto maturo di questa sua “giustizia” che gli viene accreditata (Rm 4,3) e con lui sua moglie Sara – che per altro in questa fase del racconto finisce un po’ in secondo piano e non viene più nominata, se non per la sua sepoltura. Entrambi contemplano il figlio Isacco, il figlio della promessa, un ragazzo che possiamo immaginare come tutti gli altri e pure per loro diversissimo. Non hanno occhi che per lui, per la sua crescita, i suoi progressi, i suoi talenti. La circoncisione, l’iniziazione alla fede che si assimila come il latte materno, la legge e i precetti, il lavoro a fianco del padre. Chissà, forse Isacco è un figlio irreprensibile e ubbidiente, oppure è un po’ viziato da quei genitori anziani che tanto lo amano. A noi non è dato saperlo. Quel che è certo è che la famiglia di Abramo in questo momento pare non aver più nulla da chiedere e forse non si aspetta neanche più nulla. Non che si possa demonizzare la tranquillità, eppure è come se in ogni momento della nostra vita fossimo chiamati a lasciare uno spazio ad un Altro che ci chiede di mantenere aperta la porta di un dialogo sempre orientato al “mistero”. È qui che il Signore si ripresenta alla coscienza di Abramo, si fa protagonista un’altra volta ed in modo davvero del tutto stravolgente. Dio “mette alla prova” Abramo, lo chiama per nome ed ancora una volta il vecchio come un bambino con suo padre risponde “eccomi”: sono qua, fa di me ciò che vuoi, sono pronto, mi fido di te. La richiesta del Signore appare per la nostra mentalità addirittura blasfema: sacrificare il suo unigenito figlio! Ma com’è possibile fare questa richiesta? Adesso!? Dopo tutto quello che c’è stato? E non basta che gli storici ci dicano che i sacrifici umani allora erano all’ordine del giorno, il Dio di Abramo non può volere questo, no, tutti noi ci ribelliamo. Immagino Abramo strozzare il grido nella notte sul suo giaciglio, non riuscire neanche a condividere con Sara quel macigno sul suo cuore. Poi una mattina, raccoglie tutte le forze e si prepara a questo nuovo viaggio: un viaggio verso il baratro, con il cuore gonfio di angoscia. Ogni gesto è fatto con lentezza, come se nel frattempo potesse sorgere in lui una consolazione, una rassegnazione o forse l’insperato contrordine. E Sara cos’avrà potuto capire e cos’ha avrà detto in quei frangenti? Oppure avrà taciuto, come affidata anche lei al mistero e avrà seguito con lo sguardo il marito e il figlio allontanarsi fino a perderli oltre l’orizzonte. Che preghiera sarà sorta nel cuore di questi genitori così messi in balia di un volere del tutto estraneo ad ogni concezione umana? Quando Isacco chiede al padre dov’è l’agnello per l’olocausto, Abramo è già sintonizzato nel solco della sua vocazione che lo rende davvero padre di tutti i credenti: “Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto”. Dio agisce, oltre me, oltre le mie possibilità, i miei affanni, i miei progetti, mi affido totalmente, mi abbandono a lui come un corpo che si lascia cadere nel vuoto sapendo che delle braccia apparentemente invisibili lo sosterranno. Questa è la fede fragile come un sospiro e granitica come una pietra che permette ad Abramo di dire ai suoi servi di fermarsi e proseguire da solo con quel figlio che fra breve capirà cosa gli sta succedendo. Timore e tremore come il titolo dell’opera di Kierkegaard sull’episodio, non sembra esserci spazio per altro. Dio aspetta fino all’ultimo, poi ferma la mano di Abramo, “cavaliere della fede”, con il coltello sguainato e cambia la storia della Salvezza. Non sacrifici umani! Mai più! Ma misericordia e amore: questo il Signore ha voluto chiedere ancora al suo figlio Abramo. Ha voluto ancora una volta fargli dono di una verità che vale per ogni uomo e ogni donna di questa terra: i figli non sono nostri, nessuno, mai, non sono un possesso e non possiamo arrogarci nessun diritto su di loro. Il Signore dà, il Signore toglie… nella libertà di ciascuno che è chiamato a scrivere la sua scia nel cielo della vita. Non ne siamo padroni, come ha cantato mirabilmente Tagore, sono frecce scoccate dal nostro arco la cui direttrice non dipende più solo dai nostri intendimenti. Abramo torna a casa con Isacco e chissà Sara come sarà loro corsa incontro, libera dal presentimento e dalla paura, ma pronta ad ascoltare dal marito, magari in molte altre notti insonni, che quel figlio che dorme lì vicino a loro, non è per loro, almeno non solo per loro, ma destinato – come ciascuno di noi – ad essere protagonista insostituibile di una storia di salvezza che non accetta la tentazione del possesso, ma si nutre e procede solo quando si fa dono. (Giovanni M. Capetta - Sir)    

In Famiglia: il figlio donato da Dio

20 Luglio 2021 - Dopo la nascita di Ismaele, il figlio della schiava, Abramo e Sara, ora con nomi nuovi, segno di una lenta conversione interiore, sono nuovamente pronti ad accogliere l’ennesima promessa di un Dio che non li ha mai abbandonati, anche nel momento dell’errore e del torto (Gen 17). Un “Dio-con-Noi” è quello di questa coppia di sposi: sempre al loro fianco, sempre capace di stupirli e di approfittare di ogni loro gesto di accoglienza. Abramo e Sara sono proprio come noi, un uomo e una donna, uniti nella ricerca del bene e della verità, con cadute, ferite, illuminazioni… ma, in ultima istanza “graziati” dal non interrompere mai, anche nel lamento o nel grido di incomprensione, il dialogo con un Dio che si abbassa a parlare loro con tutto lo spettro dei linguaggi umani. L’ultimo grande incontro è coi tre uomini alle Querce di Mamre. Non era facile riconoscere in essi la presenza del Signore, ma Abramo mostra la piena maturità del suo essere uomo che accoglie, che si mette a servizio, che offre il meglio di sé, senza chiedere niente in cambio. Nell’accudire i tre viandanti sconosciuti Abramo è l’uomo maturo che è pronto a ricevere il dono a lungo promesso: un figlio dalla sua carne. Quello che davvero il cuore umano non osa più sperare, Dio è capace di compierlo perché il suo amore non ha confini e lo rende continuamente Creatore di meraviglie. Ancora una volta la pagina biblica non manca di rilevare la dimensione umana della storia, come la Salvezza si dipani dritta sulle righe storte della nostra incredulità. Sara ride dietro la tenda: è in menopausa, sa di essere “avvizzita” e non poter più generare e invece: da lì ad un anno nasce Isacco, il figlio della promessa. (Gen 18, 1-16; 21, 1-6). Quante volte non abbiamo il coraggio di sperare? Quante volte non osiamo dire che “ci basta la sua Grazia”? Spesso il nostro animo sembra non avere spazio per una misericordia che è oltre i nostri pensieri, che viene da un Dio che non ci tratta secondo la nostra misura, non ci dà solo il contraccambio ma abbonda di beni, anche là dove noi abbiamo fallito. Isacco cresce con il fratellastro Ismaele, chissà quanti giochi, quanto umano affetto, ma ancora una volta il disegno divino spiazza Abramo che deve soffrire un nuovo abbandono e chissà questa volta quale sarà stato il ruolo di Sara, madre di un erede che non poteva avere rivali. Gli uomini e le donne della terra non riescono da soli a risolvere situazioni più grandi di loro. Non vi sembra di leggere in tralice storie di ordinaria vita quotidiana, vicende dei nostri giorni, in cui la giustizia umana stenta a trovare le ragioni degli uni e degli altri e affida a tribunali limitati perché troppo umani ferite che solo grandi slanci d’amore possono lenire? Abramo ancora una volta è in balia di sentimenti contrastanti, lo ritroviamo continuamente in bilico fra la dimensione dell’ascolto incondizionato e quella del timore, dell’incomprensione, del dubbio. Abbandonare Agar e Ismaele nel deserto gli pare gesto violento, spietato, apparentemente senza senso, quel figlio nato così rocambolescamente è pur sempre suo… eppure non sembra quello che Dio suggerisce, come se da questo momento si prendesse Lui direttamente cura di quella donna e di quel ragazzo indifeso che darà vita ad un’altra grande nazione (Gen 21, 8-21). Abramo, l’uomo che contratta alla pari con Dio per la salvezza dei giusti nella città di Sodoma, (Gen 18, 17-33) è ormai sazio di anni e forte di quella discendenza insperata che vede fiorire in Isacco. Pare di vedere questa famiglia ricomposta dopo tanto patire, rendere lode al Signore, sentirsi appagati e nel giusto. Finalmente possono assaporare una serenità che a lungo hanno solo potuto desiderare Eppure non sarà questo l’epilogo dell’epopea di Abramo. Prima di comprare il terreno per erigere il sepolcro di Sara, compagna di una vita, sempre al fianco in ognuna delle loro peripezie, nel viaggio impervio di una fede vacillante ma mai spenta, ancora una volta il Signore interpellerà quest’uomo centenario, che siamo tutti noi, chiedendogli una nuova ed irrevocabile conversione. (Giovanni M. Capetta – Sir)    

In Famiglia: Abramo e Sara, una coppia di sposi

13 Luglio 2021 - Leggere nella sua continuità la storia di Abram e Sarai riempie il cuore di gratitudine perché è davvero una vicenda “patriarcale” in cui affondano le radici della nostra umanità e della nostra fede. Abram e Sarai (questi i loro nomi prima che il Signore li cambi in virtù della loro elezione), sono prima di tutto una coppia di sposi. Una coppia ricca di consapevolezza e di amore, una coppia che si parla, che dialoga, si confronta. Certo bisogna leggerlo fra le righe ma altrimenti non si spiegherebbe perché – in un contesto come quello biblico del tempo – si nomini così spesso la presenza di una moglie. Dunque se Abram è il nostro padre nella fede perché parte, lascia tutto, fidandosi di una Parola, fidandosi di un Dio nuovo, che parla un linguaggio diverso dagli idoli pagani della città in cui si trova, credo di poter dire che ha il coraggio di fare questo perché al suo fianco c’è una donna altrettanto coraggiosa che lo asseconda e lo consiglia. Abram si dice che aveva 75 anni: che coraggio! Ricominciare da capo, partire per una terra sconosciuta, affidandosi ad una benedizione tanto grande quanto misteriosa (Gen 12, 1-9). Fino a questo momento il nostro ci pare un eroe, un uomo benedetto da Dio e intrepido, ma le difficoltà sono appena iniziate. Giunto in Egitto, a causa della carestia in terra di Canaan, ecco comparire la paura anche in lui e la tentazione di confidare solo sulle sue forze: lo stratagemma di dire al faraone che l’avvenente moglie Sarai è sua sorella rischia di scatenare un flagello drammatico. Concedere la moglie al faraone per veder salva la vita, è una scorciatoia che il Signore non può assecondare, lui garante della indissolubilità sacra del matrimonio fin dall’allora. Subito Abram ci sembra meno sul piedistallo: è un uomo che sbaglia, la cui fede talvolta vacilla, che è portato allo slancio di fiducia in un Dio che non lo tradisce, ma poi cerca anche di cavarsela malamente da solo e rischia di farsi molto male (Gn 12, 10-20). Abram è un giusto, accetta di dividere la terra promessagli con suo nipote Lot, dimostra grande magnanimità e il Signore, in un continuo rapporto davvero da padre a figlio, gli rinnova il suo sostegno e il suo favore (Gen 13). Passano guerre e peripezie ma il patriarca supera tutte le prove e riceve la benedizione particolare anche di un sacerdote straniero: Melchisedek (Gen 14, 17-20). Non ha confini la capacità di Abram di incontrare le persone, egli è fondamentalmente un uomo votato alla pace, soprattutto in virtù degli anni che passano e che lo rendono sempre più saggio e avveduto. C’è qualcosa che non può comprendere, però: perché il Signore continua a promettergli una discendenza grande come le stelle del cielo mentre il suo rapporto con Sarai risulta sterile e il suo erede un servo straniero? Qui possiamo immaginare le lunghe notti insonni, coricati fianco a fianco, a sognare, pregare, a domandarsi il perché di questo lacerante divario fra promessa e realtà. Quante coppie possono immedesimarsi in questa prova: figli desiderati come il dono più grande, figli cercati con purezza di cuore e generosità infinita che pure non arrivano? (Gen 15). Il Signore ascolta questo grido, rinnova la sua alleanza e continua a promettere una fecondità da scoprire, ma questa volta è Sarai a non accettare la sfida e a escogitare un’altra scorciatoia: concedere al marito di unirsi con la schiava Agar perché questa gli dia un figlio. Lecito agli occhi degli uomini, ma fuori dal disegno di Dio. Si potrebbe osar dire che sia stato il primo caso di “utero in affitto”, ma bisogna anche constatare come questa particolare situazione, che sfugge completamente di mano ai nostri coniugi, viene agguantata dall’alto e fatta oggetto di un piano provvidenziale che non poteva essere immaginato. Nasce Ismaele, figlio di Agar e la schiava monta in superbia, Abram ha forse più attenzioni per lei, madre del figlio finalmente nato, che per l’anziana moglie. Sarai la vessa e la fa allontanare, ma non è ancora il tempo dell’abbandono (Gen 16), molto ancora attende i nostri protagonisti nel loro tortuoso percorso nell’ascolto del Signore… (Giovanni M. Capetta – SIR)  

In Famiglia: in principio erano Adamo ed Eva

22 Giugno 2021 - Con questa nota l’intenzione è quella di compiere un nuovo viaggio fra i rapporti di famiglia all’interno della Bibbia. Il grande codice biblico, infatti, è in qualche modo leggibile come il racconto di una relazione infinita fra Dio e il suo popolo e delle relazioni reciproche dei protagonisti della storia della salvezza. L’auspicio, quindi, sarebbe quello di riuscire a leggere le pagine bibliche come delle fonti, degli archetipi dei rapporti che da sempre si instaurano fra gli uomini e le donne, che da sempre hanno formato famiglie, dai tempi di Adamo fino ai nostri giorni. Nessuna pretesa di esegesi scientifica o per addetti ai lavori, ma piuttosto una lettura attualizzante che ci aiuti a sentirci parte di una grande catena umana, che – a differenza della teoria dei corsi e ricorsi storici – in realtà cammina verso una evoluzione che si concretizza nella quotidiana, silenziosa ma costante costruzione del Regno di Dio. In questa prospettiva come non porre al centro della nostra attenzione, in questo esordio, le figure di Adamo ed Eva, i progenitori del genere umano, gli iniziatori della storia umana, la prima famiglia secondo il disegno divino. È chiaro che il lettore non possa aspettarsi qui un trattato su un argomento di portata così rilevante come la creazione dell’uomo da parte del Dio biblico. Ogni grande religione ha il suo mito fondativo, ma nessuna è così centrata sull’atto creativo del primo uomo come è descritto nel libro della Genesi. Non meraviglia che su tale argomento la tradizione religiosa prima ebraica e poi cristiana abbia speso le massime energie intellettuali e spirituali per decodificarne tutto il valore e il significato, Nei mesi scorsi su questa rubrica abbiamo potuto verificare come il magistero petrino, soprattutto quello storicamente recente di Giovanni Paolo II, abbia dedicato a questo tema una riflessione ponderosa sia in termini di profondità sia di estensione nel tempo e nell’occasioni. Ma a noi oggi cosa dicono le figure di Adamo ed Eva e la relazione fra loro? Credo che la prima grande conquista ermeneutica e spirituale che l’uomo religioso e non solo dei nostri tempi possa fare è la dimensione della reciprocità che nella Genesi maschio e femmina sono chiamati a vivere sotto gli occhi del loro Creatore. Non solo Eva è carne della carne di Adamo perché creata – secondo il racconto genesiaco – dalla costola dell’uomo e quindi i due sono della stessa sostanza, ma essi sono perfettamente complementari. Solo affiancando il volto femminile di Eva al volto maschile di Adamo si ricrea l’immagine di Dio. Dio, in questo senso e maschio è femmina – si ricordi come fece scalpore la dichiarazione di Giovanni Paolo I in merito – e la gloria dell’uomo vivente è fondata sulla duplicità dei sessi di cui l’umanità si compone. A mio avviso basta questa semplice eppure profonda consapevolezza per equilibrare quelle scuole di pensiero che, forse in modo eccessivo, enfatizzano, con un’espressione tratta dal titolo di un long seller americano, che “gli uomini vengono da Marte e le donne vengono da Venere. È vero, cioè, che i mondi maschili e femminili sono ancestralmente diversi e necessitano di una propensione a colmare la distanza che esiste fra loro da sempre e che sempre esisterà. Forme di pensiero, di desiderio, di linguaggio… tutto è diverso fra un uomo e una donna, eppure è necessario saper anche valorizzare quanto essi siano fatti davvero l’uno per l’altro, quanto l’amore sponsale sia nel progetto di Dio fin dal principio e sia probabilmente l’apice, il capolavoro della creazione. C’è da sfatare il mito dell’autosufficienza, della comodità della dimensione di single che oggi pare prendere piede e che vede diminuire in modo esponenziale non solo i matrimoni, ma anche le convivenze stabili rispetto ad una promiscuità diffusa e a quello che Bauman chiamerebbe “amore liquido”. Adamo ed Eva stanno lì a dirci che “non è bene che l’uomo sia solo” e allora il pensiero corre a quello che stiamo facendo come comunità civile ed ecclesiale nei confronti dei nostri giovani. Che attenzione è data all’educazione affettiva e sessuale? Quali messaggi vengono trasmessi? Si induce nei giovani quel germe di speranza che fa nascere il desiderio di incontrare l’altro in pienezza, il desiderio di fare famiglia? Non c’è solo bisogno di perpetuare la specie e vincere i dati nefasti dei demografi che parlano di crescita zero, c’è anche da dare senso alla vita. Fare unità, fra uomo e donna, generare vita, fisicamente e spiritualmente è il fondamento del nostro essere nel mondo, perché siamo nati per amare, saremo giudicati su questo e ogni relazione d’amore che non viene vissuta all’insegna della pazienza fedele e della volontà è un’occasione persa. A rischio di fantasia illecita, vorrei immaginare che Adamo ed Eva, anche dopo la caduta del peccato, la fatica del lavoro, il dolore del parto, siano rimasti uniti e nella vecchiaia dei loro giorni e siano morti, sazi di giorni, solcando senza saperlo la prima grande storia della umanità coniugata. (Giovanni M. Capetta - SIR)    

In Famiglia: questione di volontà

15 Giugno 2021 - Serge Razafinbony e Fara Andrianombonana (Coppia di fidanzati dal Madagascar): Parlando di matrimonio, Santità, c'è una parola che più d'ogni altra ci attrae e allo stesso tempo ci spaventa: il «per sempre» ... Benedetto XVI: [...] Nel Rito del Matrimonio, la Chiesa non dice: «Sei innamorato?», ma «Vuoi», «Sei deciso». Cioè: l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino, che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: «Sì, questa è la mia vita». Io penso spesso alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente «secondo vino» è più bello, migliore del primo vino. E questo dobbiamo cercare. E qui è importante anche che l’io non sia isolato, l’io e il tu, ma che sia coinvolta anche la comunità della parrocchia, la Chiesa, gli amici. (Benedetto XVI, Visita Pastorale all’Arcidiocesi di Milano in occasione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie, Festa delle Testimonianze, Bresso 2 giugno 2012) Abbiamo scelto questo passaggio, come ultimo intervento dedicato da papa Ratzinger al tema della famiglia, perché ci pare molto significativo il metodo che il pontefice ha adottato per confrontarsi con tutta la Chiesa in occasione di quella VII giornata mondiale. Un approccio non ex cathedra ma a partire dall’ascolto, dal basso, dalle domande delle persone, delle comunità, delle realtà concretamente inserite nel cammino della storia umana ed ecclesiale che ogni popolo vive. Una disposizione al dialogo, che si è dimostrata feconda e aperta alle sollecitazioni dello Spirito. Il tema dell’Incontro era “La Famiglia, il lavoro e la festa” e le domande si sono distribuite su queste tre aree tematiche, ma significativa è stata la risposta del pontefice a questa coppia di fidanzati del Madagascar. Un ritorno importante a ribadire come l’elemento costitutivo del sacramento del matrimonio sia l’amore e non l’innamoramento, la volontà e non il sentimento. Papa Ratzinger lo esprime con chiarezza, con un linguaggio molto colloquiale, ma che non lascia spazio ad ambiguità. Se da un lato, come è giusto che sia, diminuiscono fino a sparire (almeno in ambito occidentale) i matrimoni “forzati”, che nascono combinati dalle famiglie di origine o che si accontentano di un contratto e di una convenzione, anche fra i matrimoni per scelta, è importante che i giovani facciano un cammino di fidanzamento, un cammino di conoscenza e di consapevolezza. La dimensione, per esempio, del lavoro – che era parte integrante dei temi della giornata mondiale – è un campo in cui i futuri sposi devono saper camminare con le idee chiare rispetto al ruolo che esso può e deve occupare in una vita di coppia. Da studenti e poi nei primi anni di lavoro, spesso ci si dedica a questo con tutto se stessi, poi le cose cambiano ed è giusto che sia così, anche prima che arrivino i figli. Vi sono delle priorità che gli sposi sono chiamati a custodire per far sì che il lavoro non diventi un idolo, ma uno strumento al servizio dell’amore che la coppia vive. Riguardo ad una domanda su questo tema di una coppia greca duramente colpita dalla crisi economica di quegli anni, il Papa non ha proposto ricette facili, ma ha invitato la comunità ecclesiale ad una grande solidarietà, anche sotto la forma di gemellaggi non solo fra nazioni e città, ma fra famiglie stesse. Una comunione che aiuti a cogliere i segni della Provvidenza anche nelle crisi più profonde e dia un contributo a superare le difficoltà economiche riuscendo a collocarle nella giusta prospettiva rispetto alla complessità del vivere. Anche riguardo al tema della festa, Benedetto XVI ha avuto modo di perorare una vita ecclesiale che abbia al centro la festa, appunto, il giorno della domenica, non solo il giorno dell’Eucarestia e quindi del ringraziamento, ma anche il giorno della libertà. Queste le sue parole rivolte ad una coppia statunitense: mi sembra molto importante la domenica, giorno del Signore e, proprio in quanto tale, anche “giorno dell’uomo”, perché siamo liberi. Questa era, nel racconto della Creazione, l’intenzione originale del Creatore: che un giorno tutti siano liberi. In questa libertà dell’uno per l’altro, per se stessi, si è liberi per Dio. E così penso che difendiamo la libertà dell’uomo, difendendo la domenica e le feste come giorni di Dio e così giorni per l’uomo. Le parole del Papa hanno aperto in quell’occasione interessanti cammini di approfondimento sui temi a cui abbiamo accennato e ciò nonostante, a distanza di anni, ci si accorge che il ritmo e le sollecitazioni a cui il sistema sociale sottopone le famiglie del mondo dei paesi ricchi è quasi sempre in contrasto con una piena umanizzazione della famiglia in quanto tale; nel frattempo nel mondo tante famiglie faticano a sostentarsi e fisicamente solo “sopravvivono”: anche, o forse soprattutto questo, dovrebbe interpellare le Nazioni costantemente sollecitate da una Chiesa che sta sempre dalla parte dei poveri. Il magistero di papa Francesco si muove in questa direzione, a noi, famiglie cristiane del mondo, il compito di non venir mai meno alle nostre responsabilità di popolo di battezzati chiamati a manifestare che la gloria di Dio è l’uomo e - potremmo chiosare – la famiglia vivente. (Giovanni M. Capetta - Sir)    

Una dimensione relazionale

8 Giugno 2021 - La famiglia è un'istituzione intermedia tra l'individuo e la società, e niente può supplirla totalmente. Essa stessa si fonda soprattutto su una profonda relazione interpersonale tra il marito e la moglie, sostenuta dall'affetto e dalla mutua comprensione. Per ciò riceve l'abbondante aiuto di Dio nel sacramento del matrimonio che comporta una vera vocazione alla santità. Possano i figli sperimentare più i momenti di armonia e di affetto dei genitori che non quelli di discordia o indifferenza, perché l'amore tra il padre e la madre offre ai figli una grande sicurezza ed insegna loro la bellezza dell'amore fedele e duraturo. (Benedetto XVI, Discorso durante il V^ Incontro Mondiale delle Famiglie a Valencia, 8 luglio 2006)   Il Quinto Incontro Mondiale delle Famiglie a Valencia, verteva sul tema della trasmissione della fede nella famiglia. A questo proposito il Papa ha evidente la volontà di riprendere il dettato conciliare e del suo predecessore e chiama la famiglia “chiesa e santuario della vita”. È chiaro come da questa definizione derivi il ribadimento che è proprio nella famiglia che si radica quella consuetudine, diremmo quasi, quell’allenamento alla preghiera che la rende una dimensione dialogica costante nel rapporto con il Signore. Ma quello che in questo discorso Benedetto XVI vuole anche mettere fortemente in evidenza è la dimensione relazionale della famiglia che la rende – come dice – una istituzione intermedia insostituibile fra individuo e società. Questa verità antropologica trova le sue ricadute sia sul piano ecclesiale, sia su quello sociale. La “profonda relazione interpersonale” fra i genitori è la brace che alimenta la vita di preghiera dei cristiani, ma anche la vita sociale di tutte le famiglie anche quelle non credenti e così il rapporto con i figli si nutre del rapporto dei genitori fra loro e beneficia di tutte le occasioni in cui si manifestano atti di reciprocità e di dedizione oblativa. In sostanza la famiglia si caratterizza non solo come il luogo della relazione per eccellenza, ma anche il luogo della gratuità. I rapporti non sono, o meglio non dovrebbero essere rapporti di forza, ma ispirati ad una dimensione di amore, per quanto sempre perfettibile. Dove se non in famiglia si può essere accolti nelle proprie fragilità? Dove si può trovare il sicuro approdo di fronte ad un fallimento? Dove il rigenerante abbraccio del perdono? Tutto questo può avvenire perché in famiglia non si vive per se stessi, ma si vive per e con gli altri. Quel sì che viene pronunciato il giorno delle nozze, quel consenso che viene scambiato in ambito istituzionale sono entrambe volontà che convergono verso una direzione che è quella dell’essere per dell’essere in relazione. Questo è ciò che umanizza il cammino dell’uomo e della donna, a fronte di un pensiero dominante che tenderebbe a riconoscere in modo assolutistico il valore dell’individuo. Che questa sia la preoccupazione precipua del Pontefice lo si desume anche dalle parole da lui espresse nell’omelia tenuta il giorno successivo, sempre a Valencia, in occasione delle stesse giornate dell’incontro mondiale delle famiglie: “Nella cultura attuale si esalta molto spesso la libertà dell'individuo inteso come soggetto autonomo, come se egli si facesse da solo e bastasse a sé stesso, al di fuori della sua relazione con gli altri come anche della sua responsabilità nei confronti degli altri. Si cerca di organizzare la vita sociale solo a partire da desideri soggettivi e mutevoli, senza riferimento alcuno ad una verità oggettiva previa come sono la dignità di ogni essere umano e i suoi doveri e diritti inalienabili al cui servizio deve mettersi ogni gruppo sociale”. Questo è il pericolo a cui tutte le famiglie, nessuna esclusa, sono esposte, ma questa è la tendenza che si può e si deve contrastare. All’interno del nucleo famigliare non sono più solo individuo maschio o individuo femmina, sono piuttosto marito o moglie, padre o madre, ovvero sempre in relazione all’altro e pensato per l’altro. Se questo è valido per tutte le famiglie del mondo, trova nelle famiglie cristiane un fondamento nella dimensione relazionale dell’amore fra il Padre, il Figlio e lo Spirito ed è proprio quest’ultimo che possiamo accogliere come grazia sempre nuovamente elargita ai nostri propositi di unità e convergenza. Siamo un popolo di “salvati” e anche le famiglie possono vivere in questa certezza quanto più si aprono alla speranza di un Dio che ci vuole fratelli gli uni per gli altri. (Giovanni M. Capetta - Sir)    

In famiglia: una dimensione relazionale

1 Giugno 2021 - La famiglia è un'istituzione intermedia tra l'individuo e la società, e niente può supplirla totalmente. Essa stessa si fonda soprattutto su una profonda relazione interpersonale tra il marito e la moglie, sostenuta dall'affetto e dalla mutua comprensione. Per ciò riceve l'abbondante aiuto di Dio nel sacramento del matrimonio che comporta una vera vocazione alla santità. Possano i figli sperimentare più i momenti di armonia e di affetto dei genitori che non quelli di discordia o indifferenza, perché l'amore tra il padre e la madre offre ai figli una grande sicurezza ed insegna loro la bellezza dell'amore fedele e duraturo. (Benedetto XVI, Discorso durante il V^ Incontro Mondiale delle Famiglie a Valencia, 8 luglio 2006) Il Quinto Incontro Mondiale delle Famiglie a Valencia, verteva sul tema della trasmissione della fede nella famiglia. A questo proposito il Papa ha evidente la volontà di riprendere il dettato conciliare e del suo predecessore e chiama la famiglia “chiesa e santuario della vita”. È chiaro come da questa definizione derivi il ribadimento che è proprio nella famiglia che si radica quella consuetudine, diremmo quasi, quell’allenamento alla preghiera che la rende una dimensione dialogica costante nel rapporto con il Signore. Ma quello che in questo discorso Benedetto XVI vuole anche mettere fortemente in evidenza è la dimensione relazionale della famiglia che la rende – come dice – una istituzione intermedia insostituibile fra individuo e società. Questa verità antropologica trova le sue ricadute sia sul piano ecclesiale, sia su quello sociale. La “profonda relazione interpersonale” fra i genitori è la brace che alimenta la vita di preghiera dei cristiani, ma anche la vita sociale di tutte le famiglie anche quelle non credenti e così il rapporto con i figli si nutre del rapporto dei genitori fra loro e beneficia di tutte le occasioni in cui si manifestano atti di reciprocità e di dedizione oblativa. In sostanza la famiglia si caratterizza non solo come il luogo della relazione per eccellenza, ma anche il luogo della gratuità. I rapporti non sono, o meglio non dovrebbero essere rapporti di forza, ma ispirati ad una dimensione di amore, per quanto sempre perfettibile. Dove se non in famiglia si può essere accolti nelle proprie fragilità? Dove si può trovare il sicuro approdo di fronte ad un fallimento? Dove il rigenerante abbraccio del perdono? Tutto questo può avvenire perché in famiglia non si vive per se stessi, ma si vive per e con gli altri. Quel sì che viene pronunciato il giorno delle nozze, quel consenso che viene scambiato in ambito istituzionale sono entrambe volontà che convergono verso una direzione che è quella dell’ essere per dell’essere in relazione. Questo è ciò che umanizza il cammino dell’uomo e della donna, a fronte di un pensiero dominante che tenderebbe a riconoscere in modo assolutistico il valore dell’individuo. Che questa sia la preoccupazione precipua del Pontefice lo si desume anche dalle parole da lui espresse nell’omelia tenuta il giorno successivo, sempre a Valencia, in occasione delle stesse giornate dell’incontro mondiale delle famiglie: “Nella cultura attuale si esalta molto spesso la libertà dell'individuo inteso come soggetto autonomo, come se egli si facesse da solo e bastasse a sé stesso, al di fuori della sua relazione con gli altri come anche della sua responsabilità nei confronti degli altri. Si cerca di organizzare la vita sociale solo a partire da desideri soggettivi e mutevoli, senza riferimento alcuno ad una verità oggettiva previa come sono la dignità di ogni essere umano e i suoi doveri e diritti inalienabili al cui servizio deve mettersi ogni gruppo sociale”. Questo è il pericolo a cui tutte le famiglie, nessuna esclusa, sono esposte, ma questa è la tendenza che si può e si deve contrastare. All’interno del nucleo famigliare non sono più solo individuo maschio o individuo femmina, sono piuttosto marito o moglie, padre o madre, ovvero sempre in relazione all’altro e pensato per l’altro. Se questo è valido per tutte le famiglie del mondo, trova nelle famiglie cristiane un fondamento nella dimensione relazionale dell’amore fra il Padre, il Figlio e lo Spirito ed è proprio quest’ultimo che possiamo accogliere come grazia sempre nuovamente elargita ai nostri propositi di unità e convergenza. Siamo un popolo di “salvati” e anche le famiglie possono vivere in questa certezza quanto più si aprono alla speranza di un Dio che ci vuole fratelli gli uni per gli altri. (Giovanni M. Capetta  Sir)    

In Famiglia, Papa Ratzinger e la verità dell’umano

26 Maggio 2021 - L'amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all'essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. […] Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. (Benedetto XVI, Deus Caritas est, dai nn. 2 e 5 – 25 dicembre 2005)   Nel lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II avremmo potuto rintracciare ancora molti altri pronunciamenti esplicitamente dedicati alla famiglia (per esempio le numerose Allocuzioni rivolte alla Rota Romana in occasione della consueta inaugurazione dell’anno giudiziario) ma del resto il tema venne lateralmente sviluppato dal pontefice polacco anche in altri due importanti documenti come la Mulieris Dignitatem sul ruolo della donna e la Christifideles Laici, entrambe Lettere Apostoliche post sinodali già del 1988. C’era in papa Wojtyla una naturale consonanza con la realtà famigliare che gli derivava probabilmente soprattutto dai suoi anni di giovane sacerdote e vescovo. Diversa sicuramente l’esperienza di papa Benedetto XVI, che negli anni della formazione deve aver piuttosto frequentato ambienti ecclesiastici ed accademici e ha forse avuto meno occasioni di confrontarsi direttamente con ambienti famigliari. Di fatto nei suoi otto anni di pontificato il Papa emerito non ha mai dedicato documenti espliciti sulla famiglia, sebbene all’interno delle due encicliche Deus caritas est del 2005 e Caritas in Veritate del 2009 abbia modo di riferirsi all’istituto famigliare come alla “cellula vitale”, al “pilastro della società”. L’impressione è che la strategia pastorale di papa Ratzinger non sia quella di ribadire la convinzione della intrinseca bontà della famiglia, quanto piuttosto di riuscire a metterne in luce gli elementi di verità, di libertà, in una parola di amore che si contrappongono alla dittatura del relativismo da lui così strenuamente combattuta. Nella citazione sopra riportata papa Benedetto, con la sua capacità di scandagliare la profondità dei concetti espressi, offre alla comprensione dei fedeli e inevitabilmente delle coppie credenti, una verità fondamentale: non si ama solo con il corpo, né si può amare solo con lo spirito. Ribadire il concetto secondo cui il corpo umano è fatto anche di spirito e lo spirito umano è uno spirito incarnato è una verità dirompente per il pensiero relativista dell’areopago sociale a cui il Papa si rivolge. Sembra proprio sentire Paolo che annuncia un Dio ignoto ai Greci: ad amare è la persona, nella sua dimensione unitaria, appunto, di anima e corpo. Quella che può sembrare una dissertazione solo filosofica, si rivela una verità antropologica dalle conseguenze rilevanti sul piano della prassi quotidiana. È difficile tenere uniti eros e agape e gli sposi ne fanno esperienza quotidiana. Eros è desiderio dell’altro che, se non controllato, può diventare in ogni momento una volontà soffocante di possesso e agape ha bisogno di segni, parole, concretezza per manifestarsi in modo unico ed irripetibile senza rimanere nella sfera delle elucubrazioni psicologiche o delle sole intenzioni. Ancora Eros si trasforma, quasi si potrebbe dire “si lima” ogni giorno per passare dal desiderio della gratificazione immediata al desiderio del bene dell’altro; Agape può divenire sorgente di gioie anche attraverso le sofferenze vissute all’insegna della pazienza e della fedeltà. Un discorso arduo, non tanto nella sua comprensibilità, quanto nella sua attuazione, ma il Papa non ha dubbi e avrà modo di dire anche in altra sede che “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa” (Discorso dell’11 maggio 2006 in occasione del XXV anniversario di fondazione del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia). Che l’amore umano sia immagine dell’amore di Dio e viceversa è una sfida mozzafiato nel contesto di sgretolamento di ogni valore che si fondi sui principi di fedeltà e stabilità, così dominante nei primi anni duemila. A papa Ratzinger va la gratitudine di tutta la comunità ecclesiale per aver saputo non arretrare di fronte al dilagante pessimismo sulle possibilità di amare dell’uomo. Non aver mai giocato al ribasso, essersi sempre confrontato con grande coraggio con la pervasività del pensiero debole dominante nei suoi anni. Benedetto XVI, fin dalla sua prima enciclica, ha incoraggiato tutti gli uomini e le donne di buona volontà a vivere secondo il Vangelo, attraverso un pensiero non solo proverbialmente alto e argomentato, ma in ultima istanza, profondamente innamorato di Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio. (Giovanni M. Capetta - Sir)    

In Famiglia: l’insuperata forza della preghiera

18 Maggio 2021 - Questa Lettera alle Famiglie vuole essere innanzitutto una supplica rivolta a Cristo perché resti in ogni famiglia umana; un invito a Lui, attraverso la piccola famiglia dei genitori e dei figli, ad abitare nella grande famiglia delle nazioni, affinché tutti, insieme con Lui, possiamo dire in verità: “Padre nostro”! Bisogna che la preghiera diventi l’elemento dominante dell’Anno della Famiglia nella Chiesa: preghiera della famiglia, preghiera per la famiglia, preghiera con la famiglia. (Giovanni Paolo II, Gratissimam sane, n.4, 2 febbraio 1994)   La volta scorsa, abbiamo aperto la lettera di Giovanni Paolo II, Gratissimam sane, ed essa ci dà ancora l’opportunità di sottolineare quanto sia fondamentale per Giovanni Paolo II la dimensione della preghiera, Egli chiama la lettera addirittura una “supplica”, ovvero una via, una strada ineludibile per invitare Cristo ad essere presente in ogni singola famiglia perché “senza di Lui non possiamo fare niente”. Questa consapevolezza è un dono dello Spirito che gli sposi ricevono il giorno delle loro nozze e che non dovrebbero mai lasciare spegnere, o inerte, ma ravvivare ogni giorno con il contributo della loro volontà e libertà. Lo Sposo è con loro, è in mezzo ai coniugi ed essi si possono rivolgere a Lui in un dialogo fecondo, fatto di ascolto della Parola, di ogni ispirazione dello Spirito, attraverso un discernimento individuale e di coppia che non ha paragoni nel panorama della preghiera della Chiesa. Questa preghiera è alimento delle giornate, sostegno nelle fatiche, consolazione nelle prove – anche le più dure – ed è uno strumento che non può essere considerato un optional nella vita degli sposi, ma una vera e propria colonna del loro vivere insieme la promessa che si sono reciprocamente offerti nel Signore. Ciò che è interessante e deve interpellare il nostro spirito missionario è che il Papa non sembra tracciare una linea netta di demarcazione fra credenti e no, ma anzi invita i singoli nuclei famigliari di genitori e figli ad “aprire” la loro preghiera perché Dio abiti anche nella famiglia delle nazioni e questa abbia la possibilità di chiamarlo “Padre Nostro”. La preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato è per eccellenza una preghiera plurale, che contempla una comunione. Questo vale nell’intimo del talamo nuziale, dove – come nella Bibbia Tobia e Sara – gli sposi possono rivolgersi davvero insieme, ad una sola voce, al Signore, Padre di entrambi; ma vale anche nella globalità della famiglia umana in cui tutte le famiglie possono alzare le mani al Padre comune e a Lui chiedere il bene, il pane, il perdono ed ogni dono che Egli sempre elargisce. Ai cristiani è chiesto di essere testimoni di questa paternità, saperla mostrare agli occhi delle famiglie del mondo, attraverso l’unione, la gioia, la solidarietà. Chiedendo che la preghiera diventi l’elemento dominante dell’Anno della Famiglia, il Papa ci dà ancora delle indicazioni su come possa essere questa costante linfa alimentare delle famiglie e dei popoli. Essa sia una preghiera “della” famiglia e questo apre alla fantasia dell’uomo e della donna che insieme ai loro figli possono esperire infinti modi di rivolgersi al Padre. La preghiera è richiesta di intercessione, è dialogo, è confronto ed ascolto condiviso della Parola. Penso, però anche alla mai superata pratica del Rosario: l’esperienza insegna che questa esperienza litanica superi spesso le barriere delle difficoltà di comunicazione fra grandi e piccoli, dei figli fra loro e unisce tutti in una contemplazione in cui le parole rivolte alla Vergine varcano la soglia del silenzio, fanno condividere lo spazio e il tempo – si pensi ai viaggi in auto, come già scritto altre volte – in un modo umile e intraprendente allo stesso tempo. Giovanni Paolo II, poi, però, dice anche che la preghiera dev’essere “per” la famiglia e questo è un invito rivolto a tutta la Chiesa. Il Papa chiede che la comunità ecclesiale sappia impetrare al Padre tutte le grazie di cui le famiglie del mondo hanno bisogno. Non un riferimento formale all’importanza che la cellula fondamentale della società ha per il nostro sviluppo, ma qualcosa di più. Si tratta di sapersi commuovere, di saper sciogliere il cuore di fronte al miracolo di ogni singola famiglia che cammina nel mondo e saperla accompagnare non in astratto ma con un coinvolgimento profondo e grato per il dono che essa è per tutti. Infine la preghiera è “con” la famiglia e ciò comporta saper vivere uno spirito di comunione che non è affatto da dare per scontato, ma che è bene innervi tutte le componenti ecclesiali, senza fermarsi o dividersi in compartimenti stagni costituiti dai diversi ambiti che compongono la Chiesa stessa. Dunque la famiglia ha da offrire la sua particolare ed originale preghiera di “chiesa domestica”, necessita di ricevere la preghiera della comunità ecclesiale che la accoglie ed è chiamata a non sentirsi parte estranea ma elemento vivente che prega insieme agli altri in una coralità di voci in cui i diversi stati di vita esprimono la poliedrica via alla santità a cui tutti siamo destinati. (Giovanni M. Capetta – Sir)    

Umanità, famiglia di famiglie

12 Maggio 2021 - Carissime Famiglie! La celebrazione dell'Anno della Famiglia mi offre la gradita occasione di bussare alla porta della vostra casa, desideroso di salutarvi con grande affetto e di intrattenermi con voi. Lo faccio con questa lettera, prendendo l'avvio dalle parole dell'Enciclica Redemptor hominis, che ho pubblicato nei primi giorni del mio ministero petrino. Scrivevo allora: l'uomo è la via della Chiesa. (Giovanni Paolo II, Gratissimam sane, n.1, 2 febbraio 1994) Dopo la pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, il 22 novembre 1981, papa Giovanni Paolo II ha proseguito fino al novembre del 1984 le sue udienze del mercoledì che sono poi andate a confluire in quel poderoso patrimonio di sapienza teologica comunemente chiamate “catechesi sull’amore umano”. Solo per questo sforzo di approfondimento Karol Woytjla può a buon ragione essere chiamato il “Papa della famiglia”, ma le occasioni in cui egli è tornato a parlare della famiglia e per la famiglia sono state anche altre nel suo lungo e intenso pontificato. C’è un documento che merita un’attenzione maggiore di quella che forse negli anni gli è stata attribuita: si tratta della Gravissimam sane. Questo testo si presenta con caratteristiche diverse rispetto agli altri che abbiamo poc’anzi ricordato perché si presenta sotto forma di lettera, una lettera che il Papa desidera indirizzare a tutte le famiglie del mondo in occasione della celebrazione, nel 1994, dell’Anno della Famiglia, un’iniziativa internazionale dell’ONU. La contingenza di questa occasione laica e – come detto – la scelta di rivolgersi direttamente alle famiglie e non alle gerarchie ecclesiastiche o ai pastori rende il dire del Papa molto accorato, affettuoso e forse, nello stesso tempo, anche più semplice. La lettera mette in evidenza fin dal titolo della sua prima parte un’espressione – che già era stata usata da Paolo VI – “la civiltà dell’amore”. Essa racchiude in sé un convincimento che il Papa sviluppa riprendendo i capisaldi del suo magistero, ovvero che c’è una civiltà, non in senso solo politico, ma più profondamente umanistico che va edificata a partire proprio dalla verità che l’uomo e la donna sono da sempre pensati per creare quella comunione di persone che alimenta e perpetua il mondo. L’uomo e la donna chiamati a realizzare il bene comune del matrimonio e della famiglia attraverso il dono di sé e la consapevole volontà di essere padri e madri responsabili, coprotagonisti del mistero d’amore che origina la vita. “La civiltà – scrive il Papa – appartiene alla storia dell’uomo, perché corrisponde alle sue esigenze spirituali e morali: creato ad immagine e somiglianza di Dio, egli ha ricevuto il mondo dalle mani del Creatore con l’impegno di plasmarlo a propria immagine e somiglianza. Proprio dall’adempimento di questo compito scaturisce la civiltà, che altro non è, in definitiva, se non l’umanizzazione del mondo (n. 10). Questa umanizzazione ha bisogno di tutte le energie positive provenienti dagli uomini e le donne di buona volontà e il Papa richiama le occasioni in cui pressante è stato il suo invito alle nazioni perché convergessero su una piattaforma condivisa dei diritti della persona prima e della famiglia di conseguenza. L’umanità vive ancora profonde disparità fra Paese e Paese e vi sono luoghi nel mondo in cui non si raggiungono quei principi di dignità che permettono alle creature di essere chiamate tali. La valorizzazione della famiglia quale risorsa imprescindibile per lo sviluppo umano è un impegno che deve coinvolgere tutti, ma a cui la Chiesa invita soprattutto gli sposi cristiani presenti in tutto il mondo quali “naturali” missionari di quella civiltà dell’amore che attende di essere pienamente realizzata. Per questo motivo la seconda parte della lettera è intitolata “Lo sposo è con voi”, perché il Papa sprona i credenti a rinvigorire la fede nella presenza viva e feconda del Signore nel cammino della storia. Gesù è presente, agisce, interviene, proprio come fece a Cana di Galilea. Maria, sua madre ha detto allora e ripete ogni giorno “fate quello che Lui vi dirà”. Le famiglie non si sentano sole nel percorrere la via delle Beatitudini perché essa è ardua, ma sempre attuale e possibile. Di certo Giovanni Paolo II si affiancherebbe oggi al fervore con cui papa Francesco ci invita a pregare la Madre del Signore per invocare la fine della pandemia e dal cielo crediamo interceda perché le famiglie del mondo, pur nelle grandi prove a cui siamo chiamati, possano alimentare la speranza che l’umanità sarà sempre più una famiglia di famiglie. (Giovanni M. Capetta - Sir)