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Vedere, sapere, conoscere

20 Marzo 2023 -
Città del Vaticano - Non vedeva, ma anche non sapeva, non conosceva Gesù. È in questi tre verbi – vedere, sapere, conoscere – che si snoda il racconto della guarigione del cieco dalla nascita, nel Vangelo di questa quarta domenica di Quaresima, chiamata anche in laetare. Domenica che coincide con l’inizio del Pontificato di Papa Francesco, dieci anni fa. Prima la donna samaritana al pozzo di Sicar, la sete dell’acqua che è scoperta di un incontro che cambia la vita. Poi, il cieco che riacquista la vista: la luce che rischiara le nostre tenebre. Alla radice c’è un contrasto tra l’apertura di un incontro che va ben oltre le nostre capacità di intendere i rapporti e, appunto, la piccolezza dei nostri orizzonti, anche religiosi. Al pozzo di Giacobbe, Gesù coinvolge la donna dicendole: dammi da bere. All’uomo nato cieco fa una cosa analoga: dopo avergli ridato la vista “fisica”, gli chiede di “credere” nel “Figlio dell’uomo” per riacquistare la vista e vedere veramente. E nella risposta – “credo” – che il cieco riconosce il segno operato da Gesù, e compie un cammino di fede: prima incontra Gesù come un uomo tra gli altri, diceva Benedetto XVI, “poi lo considera un profeta, infine i suoi occhi si aprono e lo proclama Signore”. Giovanni evidenzia anche il contrasto esistente tra il cieco e i presenti, i farisei: apre il suo racconto con il cieco che comincia a vedere e si chiude con dei vedenti che continuano a non vedere, a non credere ai loro occhi. I discepoli “finiscono nel chiacchiericcio e cercano un colpevole”; leggiamo in Giovanni: “chi ha peccato lui o i suoi genitori perché sia nato cieco”. Commenta Papa Francesco all’Angelus: “noi tante volte cadiamo in questo che è tanto comodo, cercare un colpevole anziché porsi domande impegnative nella vita”. Poi e la volta di quanti hanno assistito alla guarigione, non credono e sono scettici: “per loro è inaccettabile, meglio lasciare tutto com’era prima e non mettersi in questo problema. Hanno paura – dice Francesco – temono le autorità religiose e non si pronunciano”. Accade che la novità lascia interdetti e “emergono cuori chiusi di fronte al segno di Gesù”; le persone “cercano un colpevole, perché non sanno stupirsi, perché non vogliono cambiare, perché sono bloccati dalla paura”. Invece di accettare la verità, la testimonianza, il messaggio di Gesù, anche noi, afferma il vescovo di Roma, “cerchiamo un’altra spiegazione, non vogliamo cambiare e cerchiamo una via d’uscita più elegante”. Il cieco invece “non inventa e non nasconde nulla” afferma il Papa: “non ha paura di quello che diranno gli altri: il sapore amaro dell’emarginazione lo ha già conosciuto, per tutta la vita, ha già sentito su di sé l’indifferenza il disprezzo dei passanti, di chi lo considerava come uno scarto della società, utile al massimo per il pietismo di qualche elemosina. Ora, guarito, quegli atteggiamenti sprezzanti non li teme più, perché Gesù gli ha dato piena dignità”. Era cieco e ora ci vede. La luce è ciò che rischiara l’oscurità, ci libera dalla paura delle tenebre; lo leggiamo già nelle prime righe della Genesi: “Dio disse sia la luce […] vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre”. Con la guarigione Gesù gli ha ridato piena dignità, quella dignità che “esce dal profondo del cuore, che prende tutta la vita”. Nella prima lettura, il libro di Samuele, leggiamo infatti che “l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”. All’Angelus Papa Francesco ci pone delle domande, un po’ come fa spesso nelle sue riflessioni, ci mette nel mezzo della scena del Vangelo e ci chiede cosa avremmo detto allora, quale sarebbe stata la nostra posizione; ci chiede se siamo liberi di fronte ai pregiudizi, testimoniamo Gesù, o “ci associamo a quelli che diffondono negatività e pettegolezzi”; come i genitori del cieco “ci lasciamo ingabbiare dal timore di quello che penserà la gente?”. Ancora, “come accogliamo le difficoltà e l’indifferenza degli altri? Come accogliamo le persone che hanno tante limitazioni nella vita?”. Chiediamo, dice Francesco, “la grazia di stupirci ogni giorno dei doni di Dio e di vedere le varie circostanze della vita, anche le più difficili da accettare, come occasioni per operare il bene, come ha fatto Gesù con il cieco”. (Fabio Zavattaro - SIR)

Lasciare per seguire

23 Gennaio 2023 - Città del Vaticano - Insegnare, annunciare, guarire. Tre verbi che Matteo sceglie per descrivere la missione di Gesù che percorreva la Galilea delle genti “insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il Vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità” e che lo porterà a dare la sua vita per noi. In queste quattro domeniche, da Natale, abbiamo trovato Gesù deposto in una mangiatoria, cercato e venerato dai magi venuti dall’Oriente. Due domeniche fa Matteo ci ha descritto il tempo del battesimo nel Giordano per mano di Giovanni Battista. Ma tra questi due momenti sappiamo che ha dovuto trascorrere del tempo in Egitto, e successivamente è entrato nella terra di Israele, passando la sua giovinezza nella cittadina di Nazareth in Galilea. Il Vangelo di questa domenica ci narra l’arresto di Giovanni e la decisione di Gesù di lasciare la Giudea per andare nella piccola Cafarnao, sulle rive del mare di Tiberiade, luogo abitato da ebrei, ma anche da stranieri di origine greca e altri popoli. Paura di fare la stessa fine di Giovanni? Non lo sappiamo, certo Gesù non aveva ancora compiuto alcun gesto “scandaloso”, ne aveva pronunciato alcun discorso “politicamente scorretto”. Aveva iniziato il suo “cammino” là dove lo aveva iniziato Giovanni con lo stesso appello-invito: “convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”. Forse “iniziare” da Cafarnao, domenica prossima leggeremo le beatitudini, è anche un modo per ricordarci che Gesù è colui che compie le scritture; la cittadina è, infatti, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali e il profeta Isaia, è la prima lettura di questa terza domenica del tempo ordinario, annuncia che da questa terra oltre il Giordano, un “grande luce” è stata vista dal popolo “che abitava nelle tenebre […] per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta”. Il messaggio che Matteo ci lascia, dunque, è proprio l’immagine della luce, un Dio che affascina, illumina il cuore e chiama ogni uomo e donna là dove lavorano e vivono: seguimi. Lo dice a Pietro e Andrea, pescatori nel mare di Galilea; a Giacomo e al fratello Giovanni: “e loro subito lasciarono le reti e lo seguirono”. Lasciare per seguire. È il momento della scelta, della decisione che cambia la vita; prima o poi arriva questa scelta, dice Papa Francesco all’Angelus, e bisogna decidere: “lascio alcune certezze e parto per una nuova avventura, oppure rimango come sono?” Momento decisivo per ogni cristiano, il “coraggio di lasciare, di mettersi in cammino”. E “se non si trova il coraggio di mettersi in cammino, c’è il rischio di restare spettatori della propria esistenza e di vivere la fede a metà”. Ma cosa dobbiamo lasciare, si chiede il vescovo di Roma. “Certamente i nostri vizi, i nostri peccati, che sono come ancore che ci bloccano a riva e impediscono di prendere il largo”. Chiedere perdono e lasciare “anche ciò che ci trattiene dal vivere pienamente, per esempio le paure, i calcoli egoistici, le garanzie per restare al sicuro vivendo al ribasso. E bisogna anche rinunciare al tempo che si spreca dietro a tante cose inutili”. Lasciare, dunque, per dedicare tempo alla preghiera, per una giovane famiglia “aprirsi all’imprevedibile e bellissima avventura della maternità e della paternità”; poi medici e operatori sanitari che dedicano il loro tempo ai malati; lavoratori che lasciano le comodità per portare il pane a casa. Francesco ci ricorda che “per realizzare la vita occorre accettare la sfida di lasciare”. Domenica dedicata alla Parola di Dio che “è rivolta a tutti e chiama alla conversione”; parola che “scuote, ci scomoda, ci provoca al cambiamento, alla conversione”; parola che mette in crisi perché “viva”. Parola che ha il volto di Gesù, pellegrino nelle città e villaggi, per “incontrare volti e storie”, messaggero che annuncia la buona notizia. Angelus nel quale Francesco chiede che finisca il conflitto in Myanmar, dove è stata distrutta la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione, uno dei luoghi di culto più antichi del paese. Pace in Perù – la violenza spegne la speranza di una giusta soluzione dei problemi – in Camerun – il futuro è nella via del dialogo e della comprensione reciproca – e nella martoriata Ucraina “il Signore conforti e sostenga quel popolo che soffre tanto”. (Fabio Zavattaro - Sir)

Lo stile di Dio? Vicinanza con tenerezza e misericordia

21 Novembre 2022 - Roma - La liturgia, questa domenica, ci fa vivere un passaggio, come il tempo nelle nostre città, con le giornate che lentamente stanno lasciando da parte i colori autunnali per accompagnarci nella stagione invernale. Tempo di passaggio, dunque. Abbiamo lasciato Gesù a Gerusalemme, è il Vangelo di domenica scorsa, e dopo una settimana Luca ci parla della crocifissione e della sua morte; tra sette giorni entreremo in Avvento, iniziando così il cammino verso Betlemme, che è un po’ anche il nostro viaggio verso la mangiatoia e quella nascita che ha cambiato la storia dell’uomo. Forse non è un caso che prima di iniziare in nostro pellegrinaggio verso Betlemme, e vederlo neonato, lo salutiamo, in questa domenica, come re dell’universo. Una regalità diversa da quella terrena. Francesco celebra messa nella cattedrale di Asti, dopo aver incontrato la cugina Carla novantenne a Portacomaro, visitato una casa di riposo e salutato un’altra cugina in un paese vicino, Tigliole. Viaggio per ritrovare il “sapore delle radici”; da queste terre – rese preziose da buoni prodotti del suolo e dalla genuina laboriosità della gente” – sono partiti per l’Argentina i nonni e il padre. Le radici personali sono occasione, per Papa Francesco, per sottolineare le radici della nostra fede, che si trovano “nell’arido terreno del Calvario, dove il seme di Gesù, morendo, ha fatto germogliare la speranza: piantato nel cuore della terra ci ha aperto la via al Cielo; con la sua morte ci ha dato la vita eterna; attraverso il legno della croce ci ha portato i frutti della salvezza”. Il Papa ci invita a riflettere sulla regalità di Gesù che muore sulla croce: “non è seduto su un comodo trono, ma appeso ad un patibolo; il Dio che rovescia i potenti dai troni opera come servo messo in croce dai potenti; ornato solo di chiodi e di spine, spogliato di tutto ma ricco di amore, dal trono della croce non ammaestra più le folle con la parola, non alza più la mano per insegnare. Fa di più: non punta il dito contro nessuno, ma apre le braccia a tutti. Così si manifesta il nostro Re: a braccia aperte". Gesù morendo sulla croce ha abbracciato “la nostra morte, il nostro dolore, le nostre povertà, le nostre fragilità e le nostre miserie”. Si è fatto servo “perché ciascuno di noi si senta figlio”; si è lasciato “insultare e deridere, perché in ogni umiliazione nessuno di noi sia più solo; si è lasciato spogliare, perché nessuno si senta spogliato della propria dignità; è salito sulla croce, perché in ogni crocifisso della storia vi sia la presenza di Dio”. È un re che “ha valicato i confini più remoti dell’umano, è entrato nei buchi neri dell’odio, nei buchi neri dell’abbandono per illuminare ogni vita e abbracciare ogni realtà”. Ricordava il teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeff che “Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza e della sua sofferenza … La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare”. Lo stile di Dio? Vicinanza con tenerezza e misericordia. Francesco dice, nell’omelia in cattedrale, che il Vangelo ci pone di fronte a due strade: essere spettatori – “sono molti, la maggioranza” – oppure coinvolti. Anche sotto la croce ci sono spettatori che “guardano da lontano curiosi e indifferenti”. E l’indifferenza verso Gesù è “indifferenza verso i malati, i poveri, i miseri della terra”. È il “contagio dell’indifferenza” che crea distanze con le miserie. Contagio letale dice Francesco: “l’onda del male si propaga sempre così: comincia dal prendere le distanze, dal guardare senza far nulla, dal non curarsi, poi si pensa solo a ciò che interessa e ci abitua a girarsi dall’altra parte”. Parliamo tutti i giorni di cosa non va nel mondo, nella chiesa, “ma poi facciamo qualcosa, ci sporchiamo le mani come Gesù inchiodato al legno, o stiamo con le mani in tasca a guardare”. All’Angelus, un pensiero ai giovani, nelle chiese si celebra la Giornata della gioventù. Li invita a guardare a Maria, a non restare fermi inseguendo comodità e mode: “ci vogliono giovani veramente trasgressivi, non conformisti, che non siano schiavi del cellulare, ma cambino il mondo”, realizzando “sogni di pace”. Pace e preghiere per la martoriata Ucraina e per altri luoghi flagellati dalla guerra: “il nostro tempo sta vivendo una carestia di pace”. (Fabio Zavattaro - Sir)