Una nuova legge per un nuovo mondo: il punto della rete “Ero straniero”

18 Luglio 2022 – Roma  – Era il 2002. Una nuova legge interveniva sulla normativa italiana in materia di immigrazione e, tra i vari aspetti toccati, trasformava il lavoro migrante, consentendo di entrare in Italia solo a chi fosse già in possesso di un contratto ed eliminando la figura dello sponsor, che dall’introduzione del Testo unico nel 1998 sosteneva (anche economicamente) la presenza di cittadini stranieri in cerca di lavoro nel nostro Paese. Si fece conoscere come Bossi-Fini, il suo obiettivo era eliminare l’irregolarità. Non ci riuscì. Quindici anni dopo, nel 2017, gli esponenti riuniti a Roma di decine di organizzazioni – tra cui la Fondazione Migrantes – hanno creato una rete che aveva nel titolo il suo ideale: “Ero straniero”. Ne nacquero proposte concrete e confluirono in una proposta di legge di iniziativa popolare, spinta in Parlamento dal sostegno di 90.000 firme, finita arenata in Commissione Affari costituzionali alla Camera. Oggi, a vent’anni di distanza, quelle realtà sono tornate ad incontrarsi. Il giorno è il 14 luglio, il luogo lo stesso della fondazione, la sala Zuccari di palazzo Giustiniani. Anche la Bossi-Fini è la stessa, nonostante le critiche ricevute in questi anni da tutte le parti, persino dai suoi creatori. Intorno, però, tutto è cambiato.

L’Italia là fuori è più vecchia e ha perso la fertilità. I bambini non nascono, i giovani emigrano. È stanca e tra poco non ci saranno più braccia né menti a costruire il suo futuro. I cittadini stranieri sono 5,2 milioni, un valore (sottostimato) pari all’8% della popolazione nazionale, quasi interamente raggiunto nel corso degli ultimi trenta anni. Anche il mondo è cambiato, più instabile, più fragile, almeno – forse – più consapevole. Una pandemia ha mostrato quali attività sono davvero essenziali alla sopravvivenza delle società, e chi le svolge. Una guerra inattesa ha offerto modelli di solidarietà, tra i governi e tra le persone, ma ha anche approfondito crisi già in corso – di disuguaglianza, di fame, di clima – e aggravato la condizione di intere fasce di mondo: chi sopravvivrà, tenterà di migrare. Se già nel 2002 sollevavano perplessità, le regole italiane sui flussi appaiono oggi decisamente e gravemente inadeguate. Non sono sufficienti gli ingressi e le conversioni per lavoro consentiti dai decreti flussi: la loro pubblicazione una volta l’anno (per di più a discrezione della politica), la limitatezza delle quote (raddoppiate fino a 70.000 col decreto 2022, ma a fronte di oltre 100.000 domande dei datori), la condizione di avere un’offerta di lavoro prima dell’ingresso rendono incerto, a tratti inapplicabile, l’unico meccanismo (tendenzialmente) stabile di ingresso per lavoro. Non sono sufficienti neppure le sanatorie, cicliche nella loro straordinarietà visto che, nell’assenza di alternative, l’irregolarità dei lavoratori stranieri è un fenomeno inestinguibile. È la dolorosa conseguenza di quando la norma non ascolta la realtà. Ma a quali categorie sono destinate quelle sanatorie, e quanto tempo ci vuole prima di esaminare tutte le domande? Quanta sofferenza si vive prima di una risposta positiva? Quanti, nel frattempo, sprofondano nella marginalità, cedono alla criminalità, semplicemente non ce la fanno e muoiono, come Yusupha, come Isetu, come tanti e tanti invisibili di cui non sapremo mai?

La soluzione è semplicissima e rivoluzionaria: mettere in contatto datori e lavoratori attraverso i confini. Se la condizione deve essere la disponibilità di un lavoro in Italia, aprire canali che consentano all’informazione del bisogno di un’impresa di raggiungere chi cerca occupazione, in qualunque parte di mondo viva. Con i mezzi tecnologici di oggi è perfettamente possibile e la società civile è già in grado di offrire l’infrastruttura di accoglienza e integrazione. Se i benefici umani non bastassero, dal punto di vista più materiale, ciò creerebbe più lavoro locale e più entrate per il fisco, oltre a rispondere alle esigenze del mondo produttivo. Ci sta provando la piattaforma MyGrants, che testa e poi pubblicizza le competenze dei lavoratori iscritti: il fondatore Chris Richmond sogna corridoi intellettuali per la libera circolazione delle conoscenze. Sulla necessità di una via legale di ingresso, certa e permanente, tutti si trovano d’accordo: esponenti dell’associazionismo e della società civile come Giulia Gori e sindacalisti come Hardeep Kaur, ma anche studiosi come Chiara Tronchin e imprenditori come Claudio Cappellini. Persino la politica quando è seria e l’amministrazione, della cui difficoltà di fronte a norme rigide e cieche ha parlato Tatiana Esposito, del Ministero del lavoro. In sala Zuccari, per un attimo, la soluzione è parsa limpida e afferrabile.

Ma allora, cos’è che per vent’anni ha impedito di agire? Non la razionalità dei dati, piuttosto un sentimento di immotivata avversione verso l’altro, alimentato dall’ottica di emergenza e di paura che continua a caratterizzare il racconto dell’immigrazione diffuso da televisione e social media. L’ha spiegato l’economista Leonardo Becchetti e l’ha testimoniato Giulia Capitani di Oxfam: con questa consapevolezza, “Ero straniero” ha sempre affiancato alle proposte tecniche la promozione di una nuova narrazione. La migrazione non è un ostacolo e non è un problema, reca con sé una componente di dolore, ma anche una di speranza e si trasforma in trauma, persino in morte, solo quando le politiche dei confini non la agevolano e vorrebbero impedirla. Di per sé, storicamente, la migrazione ha fatto la ricchezza le nazioni, ha ricordato Becchetti. Consentirla in semplicità e sicurezza è il passo urgente da fare oggi: anche in mezzo alla crisi, anzi proprio allora, visto che di quella crisi può essere parte della soluzione. L’esperienza mostrerà che una politica di flussi per lavoro liberi e stabili non produce perdenti, ma solo vincitori. In prospettiva, condurrà al superamento dell’attuale segmentazione del lavoro – che relega i lavoratori stranieri ad alcuni ruoli soltanto, per lo più non qualificati – valorizzando le competenze di ognuno, combinandole con la formazione e lasciando esprimere le potenzialità. Se è una legge ad impedire questo bellissimo circolo virtuoso, allora forse è proprio il caso di cambiarla. (livia Cefaloni)

 

 

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