24 Dicembre 2020 – Milano – Lo chiama l’appuntamento. E non può mancarlo, nemmeno a Natale. Come ogni mattina, anche domani si alzerà presto, si vestirà in fretta, preparerà il piccolo Guillermo ed uscirà. Camminerà a passo deciso fino al fiume in bilico fra due Stati e due nomi. Rio Bravo dicono sulla riva dove si trova Alicia, a Nuevo Laredo, in Messico. Rio Grande l’hanno ribattezzato sulla sponda opposta, dove cominciano gli Usa. Da lì questa honduregna 25enne anche domani potrà vedere distintamente el otro lado. E riempire la voragine della nostalgia per suo marito Hernán, che sta 250 chilometri più a nord lungo l’Interstate 35, a San Antonio, in Texas. È partito un notte di oltre sei mesi fa con un coyote, trafficante di esseri umani. Non sa come abbia attraversato: se a nuoto o strisciando in uno dei molti tunnel clandestini sotto il confine. Sa solo che per lei e Guillermo, quasi tre anni, era «troppo pericoloso», come le ripetevano tutti. Meglio – avevano deciso dopo discussioni infinite – rispettare la “procedura”. Ovvero attendere che i tribunali statunitensi riprendessero ad esaminare le richieste d’asilo, ferme dallo scorso marzo a causa della pandemia. Nessuno dei due immaginava che ci volesse tanto.
E che lei e suo figlio trascorressero questo Natale sospesi tra due frontiere. Come il Rio dai due nomi. E come oltre 67mila aspiranti rifugiati, giunti negli Usa nell’ultima parte del 2019 e rimandati dall’altra parte del confine in base al programma Remain in Mexico firmato dall’Amministrazione Trump con il governo messicano. In gran parte sono famiglie con bambini fuggiti dalla violenza bellica del Centro America che si sono consegnate alla polizia di frontiera Usa nella speranza di avere diritto all’asilo. Il loro numero è cresciuto in modo esponenziale l’anno scorso: +456 per cento, come hanno denunciato le Agenzie Onu per i rifugiati (Acnur) e l’Infanzia (Unicef). «Il paradosso è che sono stati mandati ad attendere l’esito della domanda nel Nord del Messico, una zona altrettanto pericolosa come quelle da cui sono scappati. Solo a Nuevo Laredo, i due terzi dei migranti che assistiamo ci hanno detto di essere stati vittima di sequestro», spiega Antonio Caradonna, coordinatore dei progetti sui migranti di Medici senza frontiere (Msf) in Messico. Remain in México ha, in pratica, gettato tra le braccia dei narcos, che controllano ampie porzioni di territorio, gli aspiranti rifugiati. Un bottino prezioso: ognuno ha un parente o amico negli Usa a cui estorcere almeno un po’ di denaro. In alternativa, i loro corpi possono essere rivenduti nei mercati del sesso, degli organi, del lavoro forzato. Il presidente eletto Joe Biden ha promesso di eliminare il programma che il Covid ha prolungato a tempo indeterminato. Non sarà facile, però, riportare decine di migliaia di richiedenti asilo di colpo negli Usa. Specie ora che, dopo la pausa da coronavirus, il flusso è ripreso con forza.
«Nel Nord del Messico ancora non si nota. Ma nel Sud è evidente – prosegue Caradonna –. Da qualche mese, il numero di pazienti nelle nostre strutture di Tabasco e Veracruz, calato del 60-70 per cento, sta ritornando ai livelli prepandemia». Lucas ripete che non passerà il Natale a Coatzacoalcos, da dove comincia il viaggio de La Bestia, il treno merci sul cui tetto gli irregolari centroamericani cercano di raggiungere il Nord. È rimasto bloccato nella cittadina del Veracruz dopo essere stato aggredito da un gruppo criminale. Lucas, 18 anni appena compiuti, se l’è cavata con un proiettile nel polpaccio. Dall’attacco, tuttavia, ha perso le tracce dei due compagni di viaggio con cui era partito all’inizio di dicembre da San Pedro Sula, in Honduras. O meglio era scappato dalle minacce delle maras, gang che tengono in ostaggio le baraccopoli centramericane. Un problema cronico che il Covid e relativi crisi hanno acuito. Questo spiega il nuovo esodo. Eduardo, 17 anni, è partito a ottobre, da El Salvador. Natale, però, lo passerà a casa: a metà viaggio è stato intercettato e rispedito indietro un mese dopo, proprio quando gli uragani Eta e Iota si sono abbattuti sul suo Paese. «I miei hanno perso tutto. Devo riprovare: se raggiungerò gli Usa potrò lavorare e aiutare la mia famiglia. Ho già lo zaino pronto». ( Lucia Capuzzi – Avvenire)


