In radio al servizio della sua comunità contro il Covid

24 Giugno 2020 – Milano – Abdullahi Mire è un giornalista, ma al campo profughi di Dadaab in Kenya, lo chiamano soltanto “Corona-guy”. Ha messo la sua voce, le sue competenze e le sue conoscenze al servizio della sua stessa comunità per prevenire dai rischi del contagio da Covid-19.

Come? Attraverso la radio. Fa prevenzione sanitaria, informando e diffondendo informazioni verificate e di qualità, attraverso un programma radiofonico in onda tutti i giorni su Radio Gargaar, una delle stazioni radio della comunità di Dadaab che può essere ascoltata da tutti i suoi 200.000 residenti e dalla comunità ospite circostante nella Contea di Garissa.

Abdullahi ha trentatré anni; prima del Covid-19 viveva, lavorava e studiava a Nairobi, in Kenya.

È nato a Qoryooley, una città nel sud della Somalia e da quando aveva 3 anni, e suo padre fu preso di mira da clan rivali, lui e la sua famiglia sono fuggiti in Kenya: si sono ritrovati a sopravvivere al campo profughi di Dadaab nella contea di Garissa, situata al confine con la Somalia. Con i suoi cinque campi di accoglienza (Dagahaley, Hagadera, Ifo, Ifo II e Kambioos) è considerato il più grande insediamento di rifugiati del mondo.

Istituito come sito provvisorio dopo la guerra civile in Somalia del 1991, il campo di Dadaab – che nel tempo è arrivato a ospitare fino a 600mila profughi – oggi accoglie 217.511 rifugiati e richiedenti asilo ufficialmente registrati (dati marzo 2020).

Tra i suoi residenti ci sono oggi i figli e i nipoti di chi cercò protezione ormai quasi trent’anni fa, e tra loro c’è anche Abdullahi che dalla transitorietà del campo è riuscito a uscire, iscrivendosi al programma offerto dalla Kenyatta University e diplomandosi in giornalismo e pubbliche relazioni.
Ha iniziato a lavorare dapprima come fixer e poi come giornalista freelance per Ong e testate internazionali. Negli ultimi cinque anni i suoi lavori sono stati pubblicati sul Washington PostAl JazeeraThe Guardian.

Fino a un paio di mesi fa viveva a Nairobi per conseguire una laurea in Comunicazioni di massa, ma con l’esplosione della pandemia da Covid ha deciso di tornare ad aiutare la sua comunità, a Dadaab, fornendo informazione di qualità in un programma radiofonico. Nelle intenzioni future del giovane giornalista somalo c’è il desiderio di allargare l’offerta culturale ai drammi radiofonici e all’intrattenimento per i bambini per combattere la paura e l’isolamento che permea la vita del campo.
“A causa della densità abitativa del campo, delle condizioni di salute precarie e della mancanza di strutture mediche per gestire una pandemia, ho ritenuto che le mie capacità di giornalista potessero essere più utili, qui, a Dadaab, che a Nairobi come libero professionista” ha spiegato Abdullahi in un’intervista a Internews. Così “sono riuscito a mettere le mie abilità al servizio della mia gente”: il suo lavoro non è solitario, ma coadiuvato da una rete di consulenti, informatori e leader di comunità che gli forniscono informazioni sulla salute pubblica, aggiornamenti sulle politiche comunitarie, ma diverse voci che circolano tra la popolazione nel campo. Questa rete comprende organizzazioni come la Croce Rossa del Kenya, il Norwegian Refugee Council e l’Acnur.

Chi meglio di qualcuno che è nato e cresciuto a Dadaab, che ne conosce le dinamiche interne e le complessità può riuscire a parlare e informare in modo efficace la stessa comunità sul Covid? La sua comunità si fida di lui, proprio perché in mezzo a loro è cresciuto, sbocciato e da lì ha preso il volo. In radio fornisce le ultime notizie dal Kenya e dalla Somalia relative al coronavirus e aggiornamenti sulle ultime indicazioni fornite dalle agenzie governative e dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Il programma, poiché aperto alle domande dei radioascoltatori che generalmente condividono preoccupazioni o timori su ciò che sentono in giro si è rivelato un ottimo servizio di debunking rispetto alle bufale, ai pregiudizi e alle erronee credenze che circolano sul Coronavirus. “Ad esempio, si credeva che i somali in quanto devoti musulmani non fossero sensibili al Covid. Sono stato in grado di affrontare questa disinformazione riferendo sulla recente morte di Axmed Ismaaciil Xuseen, un noto musicista somalo”, ha spiegato Abdullahi. “In qualità di leader di comunità, e grazie alla mia conoscenza della comunità e della sua cultura, sono in grado di affrontare la disinformazione in un modo che sarebbe impossibile per le agenzie internazionali che attualmente condividono le linee guida sul distanziamento sociale e altre strategie di mitigazione” per prevenire il contagio nel più grande campo profughi al mondo. (I.Sol. – Avvenire)

 

 

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