15 Giugno 2020 – Roma – Anche a loro è mancato il respiro quando l’acqua del Mediterraneo il 5 giugno si è rinchiusa sui loro corpi dopo il naufragio al largo della Tunisia. Erano 24 donne, tre bambini, nove uomini. Un altro naufragio si è ripetuto pochi giorni dopo.
Per queste morti non ci saranno mobilitazioni sulle piazze del mondo e nei social, come è avvenuto giustamente per George Floyd, ma anche queste persone sono vittime di disumanità e indifferenza.
Sembra quasi che oggi raccontare un naufragio rechi un po’ di disturbo perché nel bel mezzo di infinite pagine sulle morti per Covid 19 “stona” uno spazio dedicato alle morti in mare: sono notizie che si ripetono, perdono di mordente, scivolano velocemente dalla prima pagina.
Si era abbastanza rattristati leggendo quanto accaduto nelle sale di terapia intensiva, nelle case di riposo per anziani, sulle strade dove la colonna di automezzi militari portavano altrove le bare perché a Bergamo non si riusciva più ad accoglierle.
Si volevano finalmente notizie di vita non più di morte. E non ci si è accorti che le vittime del naufragio al largo della Tunisia sono state soprattutto donne, una di loro era in attesa di un figlio, in attesa di portare alla luce una vita. Come non sentire un grido, come non avvertire l’ultimo respiro sommerso dalle onde? Come infine non leggere questa ennesima strage in mare come una provocazione da raccogliere perché il nuovo modello di sviluppo non escluda i poveri e gli oppressi?
Quel naufragio al largo della Tunisia è un campanello d’allarme che, ancora una volta, denuncia l’incapacità di avere una visione del futuro dove non siano il mercato e il profitto, il potere ad avere l’ultima parola.
Non abbiamo immagini e neppure suoni sulla morte in mare di tante persone, c’è un grande silenzio. Abbiamo un’infinità di immagini sull’assassinio di un uomo.
In migliaia nel mondo, giustamente, si sono inginocchiati e si inginocchiano per George Floyd ed altre vittime di una violenza di matrice razzista. Ci si inginocchierà e si chiederà giustizia anche per donne, bambini e uomini vittime di una violenza altrettanto sconvolgente?
Sono domande che graffiano e forse sgretolano il muro della certezza del “saremo migliori”, del “nulla sarà come prima” e del “tutto andrà bene”.
Inginocchiarsi non è solo un gesto simbolico, è il segnale di una presa di coscienza e anche di un’indignazione a fronte di affermazioni che nell’esaltare il dovere morale di difendere i confini di uno Stato tacciono il dovere morale di difendere l’umanità.
Paolo Bustaffa