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In Famiglia: Giacobbe, Lia e Rachele

10 Settembre 2021 - È un luogo santo, Betel, un’oasi spirituale, quei momenti in cui il Signore ci parla in modo chiaro e ci incoraggia a fidarci di lui e a seguirlo. Quando il sogno è così chiaro che non vi possono essere dubbi, quando la preghiera trova risposta nel dialogo con Dio. Arrivato presso le terre dello zio Labano anche a Giacobbe capita quello che era capitato al padre, si innamora: si innamora a prima vista di una donna bellissima che sta compiendo umilmente il suo lavoro. La bacia (senza tanti preliminari) e piange di gioia perché ha già capito che Rachele, “pecorella” questo il suo nome, come quelle che fa pascolare, è la donna con cui vuole dividere la vita. Ma i nostri desideri non corrispondono sempre a quelli di Dio. Egli mantiene le sue promesse ma per vie che non ci è dato subito di conoscere. Labano si dimostra ancora accogliente, ma spregiudicato. Appellandosi ad una vaga norma locale (“si usa far così dalle nostre parti”), inganna l’ingenuo Giacobbe e mentre questi ha chiesto la mano di Rachele, la prima notte di nozze Labano “gli mette nel letto” (col favore del buio) la primogenita Lia, su cui il testo è impietoso: “aveva gli occhi smorti”. Giacobbe è incastrato: ha promesso sette anni di lavoro in cambio di una moglie e ora Labano gliene chiede altri sette per potersi prendere Rachele, l’unica che ama. Che famiglia si va creando? Qualcosa che noi facciamo fatica a immaginare perché la bigamia non ci appartiene, eppure possiamo capire i sentimenti di queste due sorelle: una amata dal marito come non mai, l’altra tenuta per contratto. Chissà che dolore, che incomunicabilità, quali aggiustamenti per stare tutti sotto la stessa tenda…? Il Signore poi sembra intervenire proprio “controcorrente” rendendo fertile Lia e “consolandola” del suo non essere amata dal marito. Quattro figli! Che Lia spera siano sufficienti perché Giacobbe le sia in qualche modo almeno grato. Il marito, invece, deve vedersela con l’ira di Rachele che minaccia addirittura il suicidio se il Signore non le concederà un figlio! Giacobbe è in balia delle donne che ha attorno ed esclama che non è lui al posto di Dio, cosa pretendono dalle sue forze?! Si consuma una guerra di gravidanze, che quasi ci affanna nel suo susseguirsi senza soluzione di continuità. Rachele chiede al marito di concepire con la sua schiava e nascono due figli; allora fa così anche Lia e dalla sua schiava Giacobbe ha altri due figli. Infine Lia e Rachele si contendono il marito in cambio ancora di cibo: le mandragole (come per la zuppa di lenticchie di Esaù)… Per un peccato di gola, Rachele concede il letto del marito alla sorella Lia e questa concepisce altri due figli maschi e la figlia Dina. A qualcuno potrà sovvenire la dinamica di un intenso film cinese di molti anni fa, Lanterne Rosse, pur appartenente ad una cultura tutta diversa, ma in cui la poligamia era consentita. Quanta violenza si può consumare in una casa in cui un solo uomo deve dividersi fra diverse mogli? Eppure è così che va costituendosi il popolo delle dodici tribù. Il popolo eletto di Israele fonda le sue fragili radici sulla competizione e la rivalità, eppure è su questo popolo di dura cervice che Dio continuamente scommette. Dio si ricorda, alla fine, di Rachele che, immaginiamo con immensa gioia, dà alla luce un figlio predestinato a cose grandi: Giuseppe. È ora tempo di partire, di tornare nella terra di suo padre. La famiglia di Giacobbe si è moltiplicata a dismisura e lui, benedetto dal Signore, con astuzia accresce i suoi beni, si affranca da Labano e fugge non senza la complicità della moglie Rachele, che ruba gli idoli del padre, li nasconde nella sella del suo cammello e riesce a non farli trovare ad un Labano disperato, con la scusa che non può alzarsi perché ha le mestruazioni. È sbalorditivo come il Signore lascia che gli uomini e le donne mettano in campo la loro libertà per ottenere i loro scopi. Come? Nessuna punizione? La fanno franca? Ma che storia stiamo leggendo? Che bilancio facciamo di torti e ragioni. Il bilancio è sempre alla fine. Giacobbe, dopo tanti anni, vuole preparare l’incontro con suo fratello: ha paura che Esaù gli sia ancora ostile, gli vuole offrire beni a dismisura per ammansirlo, ma in realtà è con la giustizia del Signore che deve fare i conti. La lotta notturna con Dio (Gn 32, 23-33) lo segna indelebilmente nel corpo, lo lascia letteralmente “sciancato”, ma libero dal peso della colpa, capace di “far passare” tutta la sua famiglia dall’altra parte, di voltare pagina. Ha visto faccia a faccia il Signore ed è rimasto in vita: ora può riconciliarsi col fratello che, inaspettatamente, lo perdona, gli si getta al collo, lo bacia, piange di commozione. Fra i due prevale il legame del sangue su ogni altra rivalsa, godono dell’unire le forze per un attimo e poi decidono di proseguire ognuno per la sua strada. Questa volta la storia sarebbe a lieto fine se non si inframmezzasse la violenza straniera subita a Sichem dalla figlia Dina, la vendetta dei fratelli Simeone e Levi che compiono una strage e infine la morte straziante di Rachele a Betel nel dare la vita all’ultimo figlio, Beniamino, per antonomasia il figlio prediletto. Ogni pagina biblica ci avvince per come è impastata di umano e divino, di sacro e profano. Esaù e Giacobbe erano solo due fratelli gemelli, ma dalla loro storia è nato un popolo e noi ancora oggi siamo qui a interrogarci su quali possano essere i rapporti fra fratelli, persone che non si scelgono ma sono costrette a convivere, che possono amarsi alla follia o odiarsi senza tregua. È sempre lo stesso mistero, quello della vita affidata alla nostra libertà in cui prende carne la storia della salvezza. (Giovanni M. Capetta - Sir)

In Famiglia: Giacobbe ed Esaù

31 Agosto 2021 - Anche all’inizio della storia matrimoniale fra Isacco e Rebecca c’è la prova della sterilità (Gn 25, 21). Non sarà la prima volta e neppure l’ultima. La Bibbia sembra ricordarci continuamente che la vita non ci è dovuta, non è scontata, è un dono e come tale va chiesto ed offerto. Isacco “supplica il Signore per sua moglie”: una bellissima immagine, una preghiera per la fecondità e la felicità di chi gli sta a fianco. Quante volte riusciamo a scorporare la preghiera dal nostro io, dalle nostre richieste e a farla diventare un dialogo con il Signore di vera intercessione per qualcun altro? Isacco è esaudito con abbondanza e Rebecca resta incinta di due gemelli eterozigoti: uno più diverso dall’altro. Fin dal grembo materno scalciano come se si azzuffassero e la madre inquieta si domanda il perché. Il Signore risponde con una profezia riguardo alle due nazioni che da esso nasceranno e pare non venire incontro allo spirito di concordia che dovrebbe instaurarsi fra fratelli. Sembra un destino segnato. Il parto è icastico e simbolico, Esaù, esce per primo, rossiccio e peloso, Giacobbe esce dopo ma gli tiene il calcagno. Noi oggi non ci affidiamo più a questi segni e l’ostetricia moderna ha molto medicalizzato quello che alle origini era veramente un momento drammatico in cui la vita e la morte (dei feti e della madre) non potevano che essere totalmente affidati alla Provvidenza di Dio. Esaù e Giacobbe, invece, sembrano dei predestinati: uno diventa abile nella caccia, avvezzo alla vita nella steppa, l’altro, forse più fragile, sta sotto le tende… oggi si direbbe “tutto casa e chiesa”. Anche i genitori lasciano che i loro sentimenti immediati prendano il sopravvento, manifestano apertamente delle preferenze: Isacco per Esaù, Rebecca per il “suo” Giacobbe: sembra di vederli questi genitori che cercano di mettere sul tavolo i meriti dei due figli, senza spostare di una virgola il loro punto di vista, senza riuscire a condividere un amore per entrambe che non privi i due giovani di una parte essenziale della loro autostima e identità… Quando un padre apostrofa il figlio dicendo alla moglie “tuo figlio ha fatto questo o quello” e viceversa… La pedagogia di casa è minata all’origine. Non c’è una vera pace all’interno di questa famiglia, una bomba ad orologeria sta per esplodere. Il primo episodio è la cessione da parte di Esaù della primogenitura a suo fratello minore. Scaltro e abile con le parole, Giacobbe fa leva sulla fame del fratello e sulla sua impulsività e lo “frega”, come diremmo oggi, senza che neanche lui se ne accorga granché. Poi, dopo varie vicissitudini in cui anche Isacco si trova a provare l’escamotage rischioso del padre di far passare la moglie per sorella, Esaù morde il freno, vuole rendersi autonomo e causando “intima amarezza” nei genitori Isacco e Rebecca, prende due mogli ittite. Sembra un’offerta commerciale, due donne come fossero un bottino, ma in realtà sono il segno di una mancanza di volontà di restare nel solco della benedizione che i propri padri hanno ricevuto dal Signore, vuol dire non avere a cuore le proprie radici. Con questo presupposto si consuma il grande inganno, ordito da Rebecca. Isacco, quasi cieco, sente venir meno le forze e vuole benedire il suo figlio primogenito: gli chiede di cacciare della selvaggina, perché possa preparargli il suo piatto preferito, mangiarne e poi essere benedetto prima che lui muoia. La madre di Giacobbe sente tutto e organizza alla perfezione la sostituzione dei figli per la benedizione. Cucina il piatto preferito del marito (quanto è importante saper stare ai fornelli per la vita famigliare!), si inventa anche un costume irsuto per le braccia glabre del figlio e il gioco è fatto. Giacobbe riceve la benedizione solenne di suo padre, il quale quando capisce cos’è successo non può far niente se non subire l’ira di Esaù, che si sente defraudato e vorrebbe una riparazione che non può avere, anzi le parole che il padre gli rivolge sembrano suggellare una vita fatta di fatica e di violenza (Gn 27, 39-40). In casa non c’è più posto per Giacobbe, il fratello Esaù aspetta solo che il padre muoia, per vendicarsi ed ucciderlo e ancora una volta è Rebecca che organizza la fuga del suo figlio preferito, non prima, però, che il padre gli abbia raccomandato – la storia si ripete - di cercare moglie fra i parenti di sua madre, da quel Labano che abbiamo già conosciuto. Mentre Esaù, vista la partenza del fratello, quasi per ripicca, sposa un’altra donna discendente di Ismaele, Giacobbe inizia il suo viaggio e lo inizia nel migliore dei modi con un grande sogno premonitore, un’infusione di coraggio e speranza che quello che ha intrapreso è un cammino che darà molto frutto. (Giovanni M. Capetta - SIR)

In Famiglia: il figlio donato da Dio

20 Luglio 2021 - Dopo la nascita di Ismaele, il figlio della schiava, Abramo e Sara, ora con nomi nuovi, segno di una lenta conversione interiore, sono nuovamente pronti ad accogliere l’ennesima promessa di un Dio che non li ha mai abbandonati, anche nel momento dell’errore e del torto (Gen 17). Un “Dio-con-Noi” è quello di questa coppia di sposi: sempre al loro fianco, sempre capace di stupirli e di approfittare di ogni loro gesto di accoglienza. Abramo e Sara sono proprio come noi, un uomo e una donna, uniti nella ricerca del bene e della verità, con cadute, ferite, illuminazioni… ma, in ultima istanza “graziati” dal non interrompere mai, anche nel lamento o nel grido di incomprensione, il dialogo con un Dio che si abbassa a parlare loro con tutto lo spettro dei linguaggi umani. L’ultimo grande incontro è coi tre uomini alle Querce di Mamre. Non era facile riconoscere in essi la presenza del Signore, ma Abramo mostra la piena maturità del suo essere uomo che accoglie, che si mette a servizio, che offre il meglio di sé, senza chiedere niente in cambio. Nell’accudire i tre viandanti sconosciuti Abramo è l’uomo maturo che è pronto a ricevere il dono a lungo promesso: un figlio dalla sua carne. Quello che davvero il cuore umano non osa più sperare, Dio è capace di compierlo perché il suo amore non ha confini e lo rende continuamente Creatore di meraviglie. Ancora una volta la pagina biblica non manca di rilevare la dimensione umana della storia, come la Salvezza si dipani dritta sulle righe storte della nostra incredulità. Sara ride dietro la tenda: è in menopausa, sa di essere “avvizzita” e non poter più generare e invece: da lì ad un anno nasce Isacco, il figlio della promessa. (Gen 18, 1-16; 21, 1-6). Quante volte non abbiamo il coraggio di sperare? Quante volte non osiamo dire che “ci basta la sua Grazia”? Spesso il nostro animo sembra non avere spazio per una misericordia che è oltre i nostri pensieri, che viene da un Dio che non ci tratta secondo la nostra misura, non ci dà solo il contraccambio ma abbonda di beni, anche là dove noi abbiamo fallito. Isacco cresce con il fratellastro Ismaele, chissà quanti giochi, quanto umano affetto, ma ancora una volta il disegno divino spiazza Abramo che deve soffrire un nuovo abbandono e chissà questa volta quale sarà stato il ruolo di Sara, madre di un erede che non poteva avere rivali. Gli uomini e le donne della terra non riescono da soli a risolvere situazioni più grandi di loro. Non vi sembra di leggere in tralice storie di ordinaria vita quotidiana, vicende dei nostri giorni, in cui la giustizia umana stenta a trovare le ragioni degli uni e degli altri e affida a tribunali limitati perché troppo umani ferite che solo grandi slanci d’amore possono lenire? Abramo ancora una volta è in balia di sentimenti contrastanti, lo ritroviamo continuamente in bilico fra la dimensione dell’ascolto incondizionato e quella del timore, dell’incomprensione, del dubbio. Abbandonare Agar e Ismaele nel deserto gli pare gesto violento, spietato, apparentemente senza senso, quel figlio nato così rocambolescamente è pur sempre suo… eppure non sembra quello che Dio suggerisce, come se da questo momento si prendesse Lui direttamente cura di quella donna e di quel ragazzo indifeso che darà vita ad un’altra grande nazione (Gen 21, 8-21). Abramo, l’uomo che contratta alla pari con Dio per la salvezza dei giusti nella città di Sodoma, (Gen 18, 17-33) è ormai sazio di anni e forte di quella discendenza insperata che vede fiorire in Isacco. Pare di vedere questa famiglia ricomposta dopo tanto patire, rendere lode al Signore, sentirsi appagati e nel giusto. Finalmente possono assaporare una serenità che a lungo hanno solo potuto desiderare Eppure non sarà questo l’epilogo dell’epopea di Abramo. Prima di comprare il terreno per erigere il sepolcro di Sara, compagna di una vita, sempre al fianco in ognuna delle loro peripezie, nel viaggio impervio di una fede vacillante ma mai spenta, ancora una volta il Signore interpellerà quest’uomo centenario, che siamo tutti noi, chiedendogli una nuova ed irrevocabile conversione. (Giovanni M. Capetta – Sir)    

In Famiglia: prendersi cura di Noè

6 Luglio 2021 - Il 25 luglio prossimo sarà celebrata la prima giornata mondiale dei nonni e degli anziani, voluta da papa Francesco e che per quell'occasione ha già diffuso un messaggio particolarmente incoraggiante. Un passaggio rivela quanto il pontefice abbia a cuore la missione ancora viva di chi è avanti negli anni. "Non importa quanti anni hai, se lavori ancora oppure no, se sei rimasto solo o hai una famiglia, se sei diventato nonna o nonno da giovane o più in là con gli anni, se sei ancora autonomo o se hai bisogno di essere assistito, perché non esiste un’età per andare in pensione dal compito di annunciare il Vangelo, dal compito di trasmettere le tradizioni ai nipoti. C’è bisogno di mettersi in cammino e, soprattutto, di uscire da sé stessi per intraprendere qualcosa di nuovo". Avremo, forse, occasione di riprendere questo testo per intero, ma intanto soffermiamoci, nel nostro cammino biblico, su un anziano di grande spessore. C'è un piccolo episodio al termine della grande storia di Noè che mi ha sempre fatto pensare (Gn 9, 20-28). Noè appare un gigante di autorevolezza e competenza. Dio lo sceglie per la sua rettitudine e lui si dimostra all'altezza, non solo come uomo, ma come grande ingegnere. Seppur seguendo un libretto di istruzioni divine, la sua fedeltà lo premia perché fa tutto come deve e nei tempi stabiliti. Poi affronta il diluvio, con la sua famiglia e le specie animali... chissà quali pensieri la notte prima di dormire, chissà quali domande con moglie e figli... Poi il discernimento per capire se ci sarà terra con l'invio della colomba. Insomma Noè non sbaglia mai e poi... probabilmente ormai molto avanti negli anni, si concede il lusso, nella nuova terra ritrovata di coltivare una vigna, segno di alleanza con la natura e con Dio, pianta del vino, da sempre oggetto e simbolo della gioia degli uomini. Ebbene, di fronte a questo "ben di Dio", Noè perde il controllo e si ubriaca rimanendo nudo al pubblico ludibrio. L'uomo è fragile, ogni uomo, ancor più quello anziano, qualunque siano state le imprese della sua vita. Come ci si comporta nei confronti della debolezza dei vecchi? La Bibbia come sempre dipinge un quadro di umanità profonda. Un figlio lo deride e lo indica alla vergogna degli altri... Perché lo fa? Perché manca così di rispetto a suo padre? Forse ha subito dei torti? Forse non è stato mai abbastanza gratificato dal suo papà che gli ha lesinato qualche apprezzamento di troppo? Oggi avremmo molte voci autorevoli che ci potrebbero spiegare quali danni può provocare nei figli l'assenza dei padri. Gli studi di Risè, poi quelli di Recalcati, per citare solo due nomi assai noti credo che troverebbero nell'interrogare quel figlio senza pudore tanti perché e tante argomentazioni. È un fatto, però, che gli altri due figli chiamati, di fronte allo spettacolo del padre in quello stato pietoso, assumono l'atteggiamento diametralmente opposto: lo coprono ed evitano perfino di guardare loro stessi le parti intime del padre. Un'attenzione che Noè poi ripagherà con una benedizione grande e solenne ma che nel compiersi stessa riceve la sua ricompensa. I figli pudichi sono come quei figli che vediamo al capezzale dei loro genitori nelle case o nelle Rsa sparse per il nostro Paese. Uomini e donne che si dedicano anima e corpo ai loro genitori, ai loro avi. Con pudore, nel silenzio, nella dignità, ascoltano il lamento di chi soffre, ascoltano anche spesso deliri o nenie senza senso, unica voce rimasta ai loro cari. Se spesso sono badanti straniere a compiere i gesti di cura più intimi, come samaritani venuti da lontano, migliaia sono i figli che non abbandonano i loro genitori quando perdono il senno e le forze, ma sono loro a fianco con umiltà, senza ribrezzo, colmi di gratitudine per la vita ricevuta e che ora passa di mano. Anche Gesù immagina l'anziano Pietro a cui qualcuno cingerà la veste e che porterà magari dove non vorrà andare, ma quanta tenerezza scorgiamo anche in questa sagoma di anziano delineata dal Signore. Lunga vita, sia - dunque - a chi avrà la Grazia di avere al suo fianco un figlio, capace di assumere un ruolo di paternità ed accoglienza proprio per chi l'ha generato. (Giovanni M. Capetta – Sir)

In Famiglia: l’istinto di Caino

30 Giugno 2021 - “Fratelli coltelli”: è un’espressione un po’ desueta, ma che, purtroppo, rappresenta una situazione ancora molto diffusa fra il genere umano. I consanguinei più stretti, coloro che sono nati dallo stesso ventre, spesso non si riconoscono, non si accettano, non riescono a trovare ragioni e vie per amarsi, perché non si sono scelti e si sono trovati affiancati nella vita per volere di qualcun altro. Il racconto biblico di Genesi (4,1-16), da questo punto di vista, non concede spazio ad una visione irenica: la vita di Caino e Abele è la consumazione di un dramma umano dalle tinte forti e quasi misteriose. Perché fra i due si instaura una così pericolosa gelosia, perché Dio Padre stesso concede che in Caino si annidi un così profondo sentimento di frustrazione e di rivalsa, non gradendo le sue offerte a fronte di quelle del fratello? Sovviene l’adagio paolino “Il Signore ama chi dona con gioia”, forse è questo che il lettore può sospettare… che Caino facesse quello che doveva controvoglia o senza il giusto senso di gratitudine nei confronti del Creatore, ma in realtà questa è un’ipotesi che non del tutto ci è lecito fare, quasi per trovare una ragione ad ogni costo. Nelle famiglie con più figli, capita spesso, verrebbe da dire sempre, che la percezione soggettiva dell’amore dei genitori per loro sia una misteriosa alchimia… qualcosa di sotterraneo, che magari non viene rivelato per anni e solo in età adulta affiora, oppure che fin dai primi anni di vita – non parliamo poi dell’adolescenza! – informa le relazioni dei ragazzi. Le “preferenze”… spesso attribuite proprio senza motivo, a volte invece effettivamente presenti che vengono imputate a mamma e papà. È così dai tempi di Caino, potremmo dirci per consolarci… eppure la storia delle origini non dovrebbe lasciare in noi l’assuefazione alla violenza e all’incomprensione. Dio dissuade Caino dall’accidia, lo sprona a tenere alto lo sguardo, a nutrirsi della purezza della sua coscienza e poi, con un’immagine sublime, lo mette in guardia dal peccato che è come un cane infido accovacciato alla porta. L’istinto porta l’uomo verso quell’animale che è in lui, ma la libertà, solo umana, ci permette di dominarlo. Poteva andare diversamente, non c’era nulla di predeterminato, perché nella nostra fede non esiste il destino, ma solo il disegno provvidente di Dio che mette in gioco la nostra libertà. Dalla storia dei primi due fratelli si sono consumati innumerevoli fratricidi, eppure è proprio da questa storia che nasce il bisogno di fratellanza di ogni uomo, anche di quello che si è macchiato del sangue dell’altro e che viene “segnato” perché viva e si salvi. Se è da questa pagina che traiamo il principio per cui “nessuno tocchi Caino” e nessuno si permetta quindi di imporre la pena di morte ad un altro uomo e sempre da questa pagina che accompagniamo l’uomo Caino nel suo cammino di colpa, di pena, ma anche di redenzione, di nuova volontà di incontrare il fratello. Ed è così che i figli di Caino, che siamo noi, hanno saputo anche donarsi gesti di pace, di ascolto, di comprensione, sopportandosi vicendevolmente, prendendosi le colpe altrui, aiutando il più debole. Sono tutte le facce del prisma che l’amore fraterno sa offrire all’esperienza degli uomini e delle donne figli degli stessi genitori. Fratelli che si immolano per la causa del più piccolo, che rinunciano ai propri sogni perché se ne realizzino di altrui. Fratelli che si incontrano nell’affascinante mondo dell’adozione, in cui sulla propria pelle si vive che non è il sangue a dettare la legge della fratellanza, ma qualcosa di più profondo e talvolta invisibile. L’amore fra fratelli allora non è solo un’utopia, ma un cammino possibile, un lungo ed appassionante cammino che dai legami di parentela, passando attraverso la piena umanità di Gesù, al compimento della storia, diviene un cammino universale, in cui, echeggiando le parole del Papa e prima di lui del grande santo Francesco, possiamo davvero dirci “Fratelli tutti”. Vivere da fratelli è una sfida quotidiana: talvolta – come detto – fra le mura domestiche sembrano consumarsi i conflitti più aspri, eppure è proprio la famiglia quel campo ogni giorno a disposizione per imparare un gioco che non ha regole e che si chiama amore. (Giovanni M. Capetta - Sir)