9 Maggio 2023 – Roma – Una condanna per reati lievi non è un motivo sufficiente per negare il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, non senza una valutazione concreta della pericolosità sociale del richiedente da parte del questore. Lo ha stabilito ieri la Corte costituzionale, dichiarando illegittimo l’automatismo introdotto dagli articoli 4 (comma 3), e 5 (comma 5), del Testo unico stranieri (ovvero il decreto legislativo 286 del 1998).
Nello specifico si fa riferimento a due ipotesi di reato, il cosiddetto “piccolo spaccio” e la vendita di merci contraffatte, fino a ieri sufficienti a far scattare il diniego del rinnovo senza ulteriori valutazioni. Per la Consulta però, «in linea con svariate pronunce» rispetto ad altri automatismi in tema di immigrazione e «in sintonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo», non basteranno più a negare il titolo, fermo restando, come detto, il parere delle autorità competenti.
Il legislatore, specificano poi i giudici, resta «titolare di un’ampia discrezionalità nella regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale», ma solo entro «il limite di un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diritti e degli interessi coinvolti».
Le questioni di costituzionalità, erano state sollevate dal Consiglio di Stato a partire dai ricorsi presentati da due cittadini di Stati esteri, la cui richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno era stata appunto respinta in virtù delle condanne per i reati in questione. In un caso si parla di detenzione illecita di 19 grammi di hashish e di cessione di un grammo e mezzo della stessa sostanza; nell’altro di smercio di prodotti con marchi falsi. In entrambe le circostanze l’automatismo del diniego è stato ritenuto «manifestamente irragionevole». In primo luogo perché «per le stesse condanne, nell’ambito della disciplina dell’emersione del lavoro irregolare, volta al medesimo scopo del rilascio del permesso di soggiorno, quest’ultimo non è automaticamente escluso, ma implica una valutazione in concreto della pericolosità dello straniero». E poi perché «l’automatismo del diniego riferito a stranieri già presenti regolarmente sul territorio nazionale (e che hanno iniziato un processo di integrazione sociale), è in contrasto con il principio di proporzionalità come declinato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo» (articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).
Per la Consulta, quindi, è pacifico «che la condanna nei casi considerati non sia tale da comportare un giudizio di pericolosità attuale» e questo per una serie di ragioni. Innanzi tutto «la lieve entità e le circostanze del fatto», poi «il tempo ormai trascorso dalla sua commissione» e infine «il livello di integrazione sociale nel frattempo raggiunto ». Tutti elementi, ribadisce la sentenza, che l’autorità amministrativa è chiamata «necessariamente » a prendere in considerazione, «al fine di evitare che la sua valutazione si traduca in un giudizio astratto» e quindi «lesivo dei diritti garantiti dall’articolo 8 della Cedu».
Prevenendo la critica più ovvia, la nota diffusa dalla Corte sottolinea in chiusura che «l’interesse dello Stato alla sicurezza e all’ordine pubblico non subisce alcun pregiudizio» dal solo «apprezzamento concreto della situazione personale dell’interessato », che per altro resta «a sua volta soggetto a eventuale sindacato di legittimità del giudice». Ancora una volta insomma a essere illegittimo è il principio dell’automatismo, già sanzionato dalla Consulta in altre sentenze. (Matteo Marcelli – Avvenire)


