Stoccolma – Erano gli anni in cui eravamo noi “i migranti”, quelli cioè che, dopo aver vissuto i disastri della seconda guerra mondiale, cercavano il lavoro e il pane altrove, spesso in Paesi lontani e sconosciuti, avvolti di mistero. E così deve essere apparsa la Svezia a Salvatore Grimaldi che, nel 1947 (aveva 7 anni), giunse dall’assolata Taranto, al seguito dei genitori, in una nazione che offriva occupazione e sicurezza ai nostri connazionali, soprattutto nel settore metalmeccanico. Il piccolo Salvatore, pur vivendo in una “Little Italy” nella città di Västeraas, imparò rapidamente lo svedese e si fece onore a scuola. L’unica preoccupazione per la mamma era la sua mania di smontare gli orologi per vedere come funzionassero. Ma la sua predilezione per la meccanica si manifestava anche, abbinata ad un precoce senso degli affari, in modo pratico e redditizio. Sin da bambino riusciva infatti a riparare le biciclette dei coetanei di tutto il vicinato e a farsi pagare!
Diplomatosi tecnico industriale, Salvatore fu assunto alla Volvo come rettificatore e si rivelò subito il più abile di tutti. Ben presto acquistò macchine e locali mettendosi in proprio. E per procurarsi lavoro, annunciò a tutte le industrie del settore: “Facciamo tutto ciò che per gli altri è impossibile!”.
Era il primo passo, audace, verso una formula adottata da altri nostri connazionali e basata su due elementi fondamentali: abilità professionale e duro lavoro. “Ricordo – dice Grimaldi –, che quando assunsi il mio primo operaio, mi misi a lavorare il doppio e anche il triplo per la paura di non riuscire a pagare il suo salario”. In breve la mole di ordinazioni fu tale che Grimaldi dovette ampliare la propria attività, acquistando officine ed assumendo personale a ritmo serrato. E un giorno giunse il colpo di fortuna: a Salvatore fu offerto di acquistare per una cifra irrisoria una ditta decotta, la Alpha Toolex, che costruiva macchine per la produzione di compact disk.
“Nel giro di pochi mesi raddrizzai l’economia e migliorai i macchinari per cd facendone le migliori
del mondo. Poco dopo vendetti per una cifra enorme la ditta ed investii nel settore delle biciclette, acquistando alcuni marchi, fra i quali la Peugeot”. Provenendo dal settore automobilistico, Grimaldi adottò anche per le biciclette gli stessi principi razionali di approvvigionamento.
“Ma mi mancava il vero fiore all’occhiello, il gioiello che avevo sospirato sin da bambino e cioè la Bianchi” dice Grimaldi. Rammenta come fosse riuscito a convincere il compianto Giovannino Agnelli, presidente della Piaggio, a vendergli la prestigiosa fabbrica italiana. “Ricordo – soggiunge maliziosamente Grimaldi – che mi telefonò dall’Italia un giornalista, preoccupato della fuga all’estero delle industrie italiane. Si esprimeva in un inglese zoppicante, gli proposi di parlare in italiano. “Ma lei è italiano?” mi domandò. “Di Taranto”. “Evviva – urlò –, allora la Bianchi è salva!”. Oggi l’impero industriale di Salvatore Grimaldi si estende al di là del settore delle biciclette – ne produce un milione e mezzo di esemplari l’anno in dodici fabbriche nel mondo – includendo uno stabilimento in cui si creano sistemi ottico-elettronici per il controllo dei prezzi nei supermercati, officine metal meccaniche, fabbriche di filtri industriali e molto altro. Ha ricevuto i più alti riconoscimenti svedesi ed italiani e il suo impero, che ha un giro d’affari di mezzo miliardo di euro, dà lavoro a 2.000 persone. L’ultima trovata? Il Club “Prêt-à- Porteur”, i cui componenti, acquistando una bici, ne regalano una ad un adolescente africano. Anche nella beneficenza, Salvatore Grimaldi è riuscito ad essere un grande.( F. Saverio Alonzo – Avvenire)


