21 Novembre 2022 – Roma – Costruiti ai margini delle città, luoghi di trattenimento con le sembianze di carceri, affidatari di una funzione pubblica ma gestiti da privati, secondo la logica del profitto. Inaccessibili sin dal nome, una sigla destinata a cambiare periodicamente. Oggi si chiamano CPR, Centri di Permanenza per il Rimpatrio, ma chi vi vive o lavora li definisce ‘l’inferno’. Nessuno aveva mai ripreso cosa accade al loro interno. Ci sono riusciti per primi – tra molti ostacoli – i tre giovani giornalisti Marika Ikonomu, Alessandro Leone e Simone Manda, nell’inchiesta che ha vinto quest’anno il premio Morrione di giornalismo investigativo. All’inizio di ‘Sulla loro pelle’, la voce narrante vi chiede di immaginare una gabbia in cui si è rinchiusi senza aver commesso reati. Ma le immagini che vedrete e le voci che ascolterete lasceranno poco spazio all’immaginazione.
I protagonisti sono i trattenuti, cittadini stranieri scoperti sul territorio nazionale senza titolo di soggiorno e in attesa dell’esecuzione della loro espulsione. In concreto, sono uomini e raramente donne, del Nord Africa, ma anche della regione subsahariana e dell’Europa orientale. Spesso giovani, a volte poco più che adolescenti. Giunti in Italia per provare a migliorare la propria vita: ‘migranti economici’, come vengono categorizzati per comodità, o semplicemente ragazzi che vogliono realizzare il sogno delle loro mamme, come li descrive il parlamentare tunisino Majdi Karbai. Ma nei CPR ci sono anche richiedenti asilo, fuggiti per sottrarsi alla persecuzione o alla violenza, reclusi se la loro domanda di protezione è giudicata unicamente strumentale a ritardare il rimpatrio. Persone tutte segnate da profondi traumi, nel migliore dei casi almeno quelli dell’abbandono della propria terra, della frattura della propria famiglia, di un viaggio in clandestinità e con mezzi inadeguati, spesso a rischio della vita. Persone vulnerabili, cui dovrebbero garantirsi stabilità e sicurezza, che è alla fine tutto quel che chiedono. E invece, per loro, la spirale di sofferenza non si interrompe neanche nel nostro Paese.
Perché i CPR in cui finiscono sono luoghi di sospensione. Dei diritti innanzitutto, quelli vitali come essere soccorsi quando si sta male ed essere nutriti con cibo non avariato. Nei Centri del reportage, i migranti sono ristretti in spazi comuni senza privacy, tra inferriate che li fanno somigliare a gabbie per animali. Privati degli effetti personali e di ogni contatto umano, a parte quello con operatori che la gestione privatistica dei CPR riduce senza stipendio né tutele, pronti ad abbandonare appena possibile. Ma sospensione anche del tempo, fermo per chissà quanto nell’attesa di un rimpatrio non voluto e neanche certo, che si realizza nella sola metà dei casi. Queste condizioni, innestate su fragilità preesistenti, “ti fanno diventare cattivo”, si sfoga un trattenuto. Per attirare l’attenzione resta solo la violenza, riflette un operatore intervistato, quasi sempre contro se stessi. Si è interrotta così la prigionia di Moussa Balde: aveva 23 anni, veniva dalla Guinea, aveva attraversato il deserto e il Mediterraneo, in Italia voleva studiare. È stato recluso dopo aver subito un violento pestaggio. È finito impiccato nel settore di isolamento del Centro di Torino. Atti di autolesionismo e tentativi di suicidio sono l’ordinario nei CPR.
“Sulla loro pelle” rivela il segmento finale delle politiche di esclusione, quello che si svolge nei Paesi di destinazione. Non è un caso che, come ricorda il Garante delle persone private di libertà Mauro Palma, la prima versione dei CPR risalga al Testo unico sull’immigrazione del 1998, in coincidenza con l’introduzione delle prime politiche restrittive degli ingressi in Europa: luoghi in cui recludere chi si ritiene non abbia diritto a stare sul suolo europeo, sorvegliandolo fino a quando non sarà possibile ricacciarlo oltre il confine, sono in fondo il portato naturale di una strategia migratoria comunitaria da vent’anni concentrata pressoché esclusivamente su controllo delle frontiere ed esecuzione dei rimpatri. Con una funzione così, i CPR si trovano già di per sé pericolosamente al limite della violazione della dignità umana. Per non superare quel limite, ci sarebbe voluta una vigilanza serratissima, una cura attentissima alla persona del trattenuto. Ma non c’è stata, e l’inchiesta ne mostra le conseguenze. Ora che la brutalità di questa detenzione è documentata, un cambiamento dovrà esserci. E potrà essere l’occasione per ripensare il sistema dalle radici, sin dall’idea che la presenza in un luogo possa essere una colpa e che un essere umano possa essere ‘clandestino’. “Ero chiuso nel CPR ed ero innocente”, dice Dhahbi. Non può trattenere la felicità di tornare libero, corre saltellando verso la vita che riprende. (Livia Cefaloni)
https://www.rainews.it/video/2022/11/sulla-loro-pelle-linchiesta-vincitrice-del-premio-morrione-be53a389-f89c-4c12-a174-c3adb29db895.html


