La storia di Arjan: una gioventù in fuga dalla sua terra, tornato a casa per una vita di fede

25 Luglio 2022 – Andria – La fuga dalla propria terra è un tema caro. A latitudini diverse, per motivazioni altrettanto diverse, in tanti sono costretti a “fare le valigie”, almeno chi ne possiede una, per lasciare il proprio nido e sfidare la sorte altrove. Che siano di necessità di sopravvivenza, come purtroppo accade per sempre più migranti dei paesi africani, asiatici, europei in passato dilaniati da guerra e povertà, che sia per dissonanza rispetto ai propri obiettivi, la porta che si affaccia su un nuovo mondo si apre spesso, e talvolta non viene mai più riaperta dall’esterno.

A volte ci vuole altro rispetto al costruire un sogno che viene portato poi, a distanza di tempo, nella terra natia. In diverse realtà nel continente africano la guerra è un fatto quotidiano, e la sua fine non è prevista in agenda. Allo stesso modo succede per fame e sete, abbandono e malnutrizione, clima e distruzioni dell’uomo. La volontà di tornare e l’occasione di farlo viaggiano su due linee parallele, ed è raro che una delle due prenda una direzione diversa.

Nonostante questo, fede e speranza non vanno mai perse, soprattutto per chi riesce a ricostruirsi altrove, senza mai perdere la ricchezza di ciò che è stato o ciò che si nasconde dentro di sé. È la storia di queste persone che regala al mondo una possibilità di riscatto, affinché l’essere umano riesca a condurre una vita di scelte sue, oltre che di costrizioni.

Commovente è l’esperienza di Arjan Dodaj, un ragazzo, all’epoca di 16 anni, costretto a lasciare l’Albania per venire in Italia, con il proposito di ripartire, o forse di cominciare davvero per la prima volta. Prima ancora di ciò che si nasconde dall’altra parte del ponte, è il viaggio a spaventare, perché può trasformarsi in una tragedia priva di voci, ma solo di numeri di una lista di chi non ce l’ha fatta. Quel viaggio Arjan l’ha compiuto in motoscafo, insieme ad altri giovani della sua stessa età, altri ancora più piccoli. È arrivato al largo della Puglia, passando la prima notte in un casolare diroccato. Da qui riceve un ordine, scambiato per consiglio, di camminare inesorabilmente seguendo i binari del treno.

Arjan cammina, si ferma solo per resistenza. Arriva a Cuneo, dove aveva dei conoscenti, e da qui cerca di iniziare, di mettere in circolo le sue aspirazioni di serenità. Lavora prima come giardiniere, poi come saldatore. Ma un giorno incontra il volto fraterno della Chiesa, da cui viene accolto a braccia aperte come fonte di ricchezza di un singolo per la comunità intera e, da quel momento, la linea della sua vita e quella della fede si incrociano e si fanno inseparabili. Riceve il battesimo, frequenta il seminario a Roma e nel 2003 riceve la consacrazione al sacerdozio, per le mani di Giovanni Paolo II.

Ogni vita può avere innumerevoli svolte, cambi di rotta, ostacoli da sormontare e gioie da coltivare. E il destino di Arjan, unito alla sua volontà, era quello di tornare nel luogo da cui tutto era partito, da cui lui era dovuto partire. Nel disegno di Dio c’è il ritorno nella terra natia, e il suo cuore rispondeva con lo stesso desiderio. Dapprima ritorna, nel 2021, come “sacerdote fidei donum” e, in seguito, come arcivescovo di Tirana-Durazzo. Ora conduce una quotidianità stabile nel suo paese, che intanto ha potuto iniziare ad accogliere e a riabbracciare, dopo essere stato obbligato a farsi lasciare. Vive e fa vivere di fede, circondato da una fonte inesauribile di speranza che oggi diventa ispirazione per chi, con lui, prega, e per chi conosce la sua storia. Ci sono voluti 29 anni da quel viaggio con poche aspettative nel mezzo dell’Adriatico, ma Arjan ora è sereno, la Chiesa rappresenta il suo porto sicuro.

Come dovrebbe accadere sempre più, la storia di un singolo deve diventare modello di comunità. Il passo ultimo si farà quando nessuno dovrà vivere nell’obbligo di andar via e nel rischio di non poter mai abbracciare casa una seconda volta. Arjan, per quanto appaia errato dirlo, fa parte di un circolo ristretto: ha potuto voltarsi indietro ed esistere nel luogo in cui aveva smesso di farlo. Per tanti invece non c’è un’opzione, ma un rischio che la sua terra non abbia più un volto, schiacciata dalle ipocrisie di un uomo che spesso perde il senso del sé e dell’altro.

Nell’opera di Gesù Cristo la pace non era una semplice condizione per l’esistenza di un popolo, ma l’elemento fondante della sua sopravvivenza. Se il viaggio è ricchezza, la Casa è il tetto dove ci sentiamo al sicuro, dove ogni insicurezza fa spazio alla certezza di un rifugio. Agli altri il dovere di rispettarlo. (don Geremia Acri – Migrantes Andria)