A Trieste la lunga attesa degli “invisibili”

15 Febbraio 2024 –

Trieste – Arrivano da lontano, sono a seimila e cinquecento chilometri in linea d’aria distanti da casa, dal Paese che abbraccia la parte meridionale della catena dell’Himalaya, dove si trova l’Everest. «Il Nepal è meraviglioso, ma i problemi sono tanti», cerca di spiegare Sunil, 23 anni, che l’ha lasciato quando ne aveva solo diciassette. Con alcuni connazionali sta preparando il pranzo, riso e verdure, finocchi e cavolfiori, tagliati e disposti su teglie da forno, ma il forno non c’è. Sono poggiati per terra e su un pallet di legno, fra sporcizia, teli di plastica, scarpe e coperte. Fa freddo, nemmeno 10 gradi malgrado sia mezzogiorno. Il gruppo di giovani nepalesi si riunisce per mangiare di fronte alle tende addossate le une sulle altre sotto le volte di mattoni del silos di Trieste, un’area di ex magazzini diroccati resi gelidi dall’aria che ci circola e da banchi di nebbia che si infilano dentro. Qui, a un passo dal centro città, si radunano le persone che mettono piede in Italia dopo aver percorso la Rotta Balcanica, forse pensando che ormai sia fatta, che il peggio sia passato. Si sbagliano, perché nel silos tocca aspettare il proprio turno per accedere al sistema di accoglienza nazionale. In totale, al momento, secondo il monitoraggio del Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics), sono 235 le persone di varia nazionalità escluse dai centri a Trieste. Con Sunil ci sono Dhurba, Nirmal, Pasang, Tap Bahadur. Si uniscono anche due ragazze Monica e Laxmi, che invece vivono in una struttura di accoglienza. Quella nepalese non è di certo la comunità nazionale più estesa qui, dove ad arrivare sono soprattutto afghani e pakistani. Eppure il numero di nepalesi passati per Trieste non è irrilevante. Secondo l’Ics sono stati oltre 300 nei primi nove mesi del 2023, più di 400 nel 2021. Dal racconto di uno dei ragazzi si riconosce il consueto tragitto lungo i Balcani, dalla Turchia fino in Serbia. «Poi sono entrato in Croazia, dove ho lavorato un anno». La singolare presenza di un alto numero di nepalesi in questo Paese è confermata dal ministero dell’Interno di Zagabria: nei primi otto mesi del 2023, i permessi di lavoro rilasciati hanno riguardato nell’ordine cittadini di Bosnia, Serbia e a seguire i nepalesi (14.700). «In Nepal non c’è niente, nessun buon lavoro. Ho pagato 3.000 euro a un’agenzia e con un contratto ho raggiunto la Romania in aereo» racconta una delle ragazze, dando conto di un’altra traiettoria migratoria – di sfruttamento – comune per questa nazionalità. «Ero partita per stare in un fast food 8 ore al giorno, ma ne lavoravamo 15, per pochi soldi. Sono rimasta lì un anno e mezzo, poi ho raggiunto l’Ungheria, l’Austria e, a piedi e in auto, l’Italia». Per il Centre for the Study of Labour and Mobility di Kathmandu, nell’anno fiscale 2018/19 più di 1.700 nepalesi partivano ogni giorno per lavorare all’estero, una fuoriuscita così massiccia che nel 2023 sono state inviate a casa rimesse per 11 miliardi di dollari, il 27% del Pil. Le destinazioni sono soprattutto i Paesi del Golfo, ma anche Portogallo, Malta e, appunto, Croazia e Romania. «La vita qui è molto difficile, per il freddo, per la mancanza di cibo. Aspettando un posto in un centro di accoglienza, vivo così da due mesi» prosegue il racconto Sunil. Come tutti al silos, anche questi ragazzi all’arrivo si sono presentati in Questura. C’è chi, registrato il 30 novembre, ha l’appuntamento per formalizzare la domanda di protezione internazionale ad aprile. Ma anche riuscire a manifestare l’intenzione di chiedere asilo è complicato: « Io in Questura ci sono già andato quattro volte, ma non mi hanno registrato» interviene uno dei ragazzi nepalesi. «Ci torno domani. I funzionari non scelgono a seconda della fila, di quando uno è arrivato lì. Ma puntano il dito e dicono ‘tu, tu, tu’. Selezionano 8 o 10 persone al giorno, non una di più». ( Francesca Ghirardelli – Avvenire)