Calcio migrante e legione straniera

13 Ottobre 2023 – Milano – In un mondo globalizzato come quello odierno, fa quasi sorridere la parola “straniero”, a meno che non imbocchiamo la via della letteratura che porta al capolavoro di Albert Camus. Gli stranieri nel calcio italiano rappresentano una storia secolare, piena di luci sfavillanti sotto i riflettori di uno stadio e ombre che ciclicamente si sono addensate nelle stanze dei club e in quelle del Palazzo della politica. Oggi la soglia degli stranieri che giocano in Serie A ha varcato da un pezzo il muro della metà dei tesserati.
Siamo ad oltre il 60% con 16 squadre su 20 della massima serie che hanno una rosa a maggioranza straniera. L’Udinese guida la classifica della rosa a “maggioranza straniera” con 30 calciatori provenienti dall’estero, e a fargli da contraltare c’è il Monza, la squadra più italiana con “appena” 10 tesserati non italiani. Ma “I migranti del pallone. I calciatori stranieri in Italia. Un secolo di storia” (Le Monnier. Pagine 295. Euro 24,00), il bel saggio documentato dei due storici Alberto Molinari e Gioacchino Toni – saggio che aggiorna e completa il mirabile Storia sociale del calcio italiano di Panico e Papa – ci ricorda che il «giuoco» del calcio, come indica la “g” della Figc, l’hanno importato proprio gli stranieri. Alla fine dell’800 i padri fondatori della Serie A sono stati gli inglesi, i pionieri del football, ma soprattutto gli svizzeri. Edward Johan Peter Bosio (alias Edoardo Bosio), rampollo di una famiglia di imprenditori di religione valdese originaria della Svizzera che si era stabilita a Torino, migrò a Nottingham per impiegarsi nell’azienda tessile Thomas & Adams e dall’Inghilterra importò il primo pallone di cuoio e dei colleghi (tecnici e collaboratori) già avvezzi al football, con i quali nel 1891 diede vita all’International Torino FC. Due anni dopo, nel 1893, a Genova nacque la più antica società calcistica italiana ancora in attività: il Genoa Cricket and Football Club.
Il suo fondatore, il medico Richardson Spensley arrivava da Stoke Newington.
Nel primo incontro interreggionale contro l’International Torino, il dottor Spensley era portiere e capitano della formazione genoana che schierava due italiani, ben sette suoi connazionali britannici e lo svizzero Edoardo Pasteur che fu poi presidente del Genoa e anche un pioniere del giornalismo sportivo. Nel 1903 scrisse per la Gazzetta dello Sport la cronaca del primo match disputato da un club italiano in terra straniera: Football Vélo Club de Nice-Genoa con vittoria dei liguri per 3-0, con Pasteur protagonista sia in campo e in sala stampa. Era il tempo del calcio degli imprenditori amateur.
Dilettanti, per decenni, che si muovevano sull’asse Torino-Milano, come il figlio del macellaio di Nottingham Herbert Kilpin, difensore arcigno che seguì Bosio sotto la Mole per poi spostarsi a Milano e diventare il “padre” e primo mister del Milan. La Vecchia Signora del calcio italiano, la Juventus, nel 1904 ebbe come presidente lo svizzero Alfredo Dick, a capo dell’omonima ditta di famiglia di Pellami e Calzature, mise mano al portafogli per finanziare il club e attinse anche al sussidio economico erogato dal Comune di Torino per affittare il primo campo, il Velodromo Umberto I. Ma la goliardia degli studenti del Liceo D’Azeglio che rappresentavano la costola principale della società bianconera «si scontrarono – scrivono Molinari e Toni – con il rigore elvetico di Dick che nel dicembre del 1906 lasciò la Juventus per promuovere la nascita del Torino Fc». Da una frattura interna nacque anche il Football Club Internazionale Milano, fondato dai «44 dissidenti del Milan» di Kilpin che si diedero appuntamento al ristorante l’Orologio in Piazza del Duomo, al numero civico 22. Numero che dà l’11 contro 11 in campo, e in quell’anno, il 1908, il nostro calcio registrò uno strano fenomeno di «apartheid – come scrive in prefazione a I migranti del pallone lo storico dello sport Sergio Giuntini – . In quella remota stagione infatti si disputarono due campionati: uno “indigeno” riservato ai soli veri calciatori italiani e l’altro “federale” solo per stranieri, purché residenti in Italia. Un clima scissionista che condizionerà il futuro del pallone italico che nei decenni successivi fu costretto ad imparare dai maestri danubiani, ma anche dalla piccola Austria felix. Dal Piave al Fascismo il monito rimase «non passa lo straniero», anche su un campo di calcio. Ma il ventennio nero si nutriva di follie e anche dell’ «ipocrita» invenzione degli “oriundi”. Per lo più figli dei nostri migranti fuggiti dalla fame dell’Italietta, i quali essendo considerati stranieri non avrebbero potuto dribblare la marcatura a uomo dell’autarchia imposta da Benito Mussolini. E il Duce, un gladiatore più che uno sportivo che al pallone preferiva le lezioni di tennis impartitegli a Villa Torlonia dall’azzurro del calcio Eraldo Monzeglio, era informato della bontà dei serbatoi sudamericani pieni di talenti figli di paisà e «predicava – sottolinea Giuntini – il suo indissolubile legame con l’emigrazione transoceanica».
Gli oriundi della Nazionale del tenente degli Alpini Vittorio Pozzo contribuirono alle due vittorie Mondiali del 1934 (schierando Demaría, Orsi, Monti, Guaita e Guarisi) e del ’38 (con Michele Andreolo). Così come dalla panchina il calcio italiano beneficiò delle alchimie tattiche degli allenatori della grande scuola danubiana, Erno Egri Erbstein e Arpad Weisz.
Due ungheresi ebrei che alla promulgazione delle leggi razziali del ’38 subirono la vergognosa “bonifica” che non esentò lo sport, anche perché illustri firme come Lando Ferretti sostenevano che il bis mondiale della nostra Nazionale «costituiva la prova del riuscito programma eugenetico». Erbstein scampò al totalitarismo nazifascista e fatalmente morì nel ’49 da allenatore del Grande Torino nello schianto di Superga, mentre Weisz e tutta la sua famiglia (la moglie e due bambini) finirono i loro giorni ad Auschwitz nel 1944. Il 14 ottobre del 1945 il fischio d’inizio del primo campionato del dopoguerra. Lo scenario era quello delle macerie da cui ricostruire un movimento che presentava una Serie A a 20 squadre e una B a 60 formazioni ripartite in tre gironi. Il professionismo era garantito dal “mancato guadagno” con tetto salariale fissato a 160mila lire, contro le 31.500 lire che era lo stipendio medio dell’impiegato italiano. Stop all’embargo degli stranieri con una norma ad hoc del 1947 che stabiliva: 5 calciatori provenienti da federazioni estere, due dei quali dovevano essere di origine italiana. Ma il flusso migratorio iniziò a dare fastidio alla politica che denunciava due fenomeni insostenibili: il «mercantilismo» e il «divismo». Mentre il principe Lanza di Trabia dalla sua suite dell’Hotel Gallia creava e animava il calcio mercato, a Roma scattava il “veto Andreotti”. Il “divo” Giulio Andreotti per bieche ragioni elettorali promosse un nuovo nazionalismo chiudendo le frontiere agli stranieri, anche per la gioia di quei Paesi come la Svezia che erano stati letteralmente depredati dai club di proprietà di «ricchi scemi che fanno ridere il mondo». Così nel ’58 il presidente del Coni Giulio Onesti si scagliò contro i patron delle tre “grandi sorelle”, le dinastie juventine, milaniste e interiste degli Agnelli, Rizzoli e Moratti. «E come se non bastasse è venuta fuori la trovata dell’oriundo che ha ormai una sua letteratura», tuonava Onesti. Un’epica che a differenza degli oriundi di Stato del ’34 e del ’38, adesso si basava sui magheggi e le furbizie da archivi comunali ed ecclesiastici, e non portò vantaggi alla Nazionale. Ma la Juventus portò in Italia l’antesignano di Maradona, il fantastico cabezon Omar Sivori, l’Inter si prese l’altro “angelo” argentino Antonio Angelillo e il Milan potè sfoggiare l’eroe Mundial del Maracanazo brasiliano del ’50, l’uruguagio Pepe Schiaffino eternato per la sua eleganza anche nella struggente Sud America di Paolo Conte. Ma la mancata qualificazione al Mondiale del ’58 e la magra del Mondiale del 1966, indusse la Federcalcio a sbarrare le frontiere e varare un altro ciclo autarchico con il preciso intento di valorizzare il “prodotto nazionale”. Quando nel maggio del 1980 le frontiere vennero riaperte eravamo in pieno scandalo calcio scommesse e la presenza di un solo straniero per squadra nel biennio che portava al Mundial di Spagna ’82, secondo molti fu uno dei motivi del trionfo degli azzurri di Enzo Bearzot. Va detto che con la rivoluzionaria “sentenza Bosman” del 1995, che ha liberalizzato la circolazione dei calciatori stranieri, siamo risaliti sul tetto del Mondo a Berlino, nel 2006, e la Nazionale è campione d’Europa in carica. Però, ad ogni risultato negativo del calcio azzurro o dei nostri club impegnati nelle Coppe Europee, il dibattito sullo “stranierificio” si riaccende, alimentano dibattiti ideologici che sono gli stessi che virano sul razzismo – da ultimo stadio – dai tempi in cui il brasiliano del Milan Germano de Sales, nel 1962, scatenò l’intolleranza per aver sposato la contessina Giovanna Augusta, lui che era nato povero e soprattutto “negro”. Un libro fondamentale questo di Molinari e Toni, che fa comprendere l’evoluzione della specie calcistica legata alla fenomenologia delle migrazioni. Una storia secolare che consente anche di sorridere, a denti stretti, ora che lo sport nazionale è in mano a fantomatiche multinazionali, ricordando di quando il “Pelè bianco”, Zico, l’estate del 1983 suscitò lo scandalo finanziario e l’indignazione dei sindacati, quando il presidente dei friulani Mazza, con 4.500 operai della Zanussi in cassa integrazione, creò una società parallela per pagare al Flamengo parte dei 6 miliardi di lire necessari per l’acquisto di uno più grandi campioni di sempre. E quella stessa storia insegna che una volta la Serie A, anche se dominata da ricchi scemi, e non sempre onesti, attraeva i migliori fuoriclasse del pianeta football, mentre oggi la legione straniera spesso riserva ancora discrete quantità di “bidoni”, degni discendenti della meteora brasiliana della Pistoiese, Luis Silvio. (Massimiliano Castellani – Avvenire)