3 ottobre: dialogo tra sopravvissuti e studenti su cosa fu quella strage

3 Ottobre 2023 – Lampedusa – Una colomba bianca. Robel non ha più parole. Un pezzetto di carta con quel disegno è tutto quello che gli serve per dire «grazie» e «pace». «Non è cambiato nulla, dopo il 3 ottobre» prende coraggio Rafad, che gli siede accanto. Quella notte di 10 anni fa, c’era anche lui sul barcone che al largo della Tabaccara, a Lampedusa, dopo essersi capovolto, provocò la morte di 368 migranti. C’erano anche i suoi figli Mohamed e Acmen. «Sono due martiri e ancora lotto per avere loro notizie» si asciuga le lacrime raccontando i maltrattamenti subiti in Libia. Nella palestra del comprensivo Pirandello 200 studenti venuti da tutta Italia e dall’Europa, assieme a insegnanti e dirigenti, dialogano con i superstiti che Tareke Brhane, presidente del “Comitato 3 ottobre” ha radunato sull’isola. Sono tutti eritrei. «La nostra storia è la vostra storia – prende la parola Soreuman, che oggi vive in Svezia -. Eravamo 500 in una barca, seduti compatti perché avevamo voglia di vivere, di cercare un posto sicuro. Eravamo compatti – ripete -. Assieme nella speranza di vivere. Vorrei che ciascuno immaginasse, sembravamo un puzzle. Poi la barca si è capovolta e si è persa l’unità che avevamo». «Il viaggio non è solo il mare, ma l’ultima tappa, ci sono il deserto e la Libia» dice Yared rispondendo ad una studentessa del Monna Agnese di Siena che chiede di sapere cosa accade prima di salire su un barcone. «Non è semplice saperlo, ti consegni un po’ alla morte perché sai che puoi arrivare, oppure no». «Ho lasciato mia madre e le mie sorelle, sono dieci anni che non le vedo». È la sofferenza di Sami arrivata dall’Olanda, che riprende la parola per raccontare quanto «pesa la condizione del mio Paese, perché per uscire devo subire le conseguenze. Se decidi di lasciarlo non puoi tornare indietro. Mi fa soffrire, è così». Alysia del liceo artistico Majorana di Gela dice che «nonostante quello che hanno passato, pensano che ci sia speranza nel mondo, del buono». «Cerchiamo un posto dove possiamo vivere e fare quello che vogliamo fare» si alza in piedi Selam. «Spesso non ti lasciano la condizione di vivere e l’unico modo è scappare, rischiare. Spero un giorno che ci sarà una fine e che il futuro i diritti siano una sicurezza». Anche Yossef ha vissuto la notte nera di Lampedusa. Oggi vive al circolo polare. «Ci è stato detto: sono africani. In Europa spesso etichettiamo queste persone. La verità è che nessuno deve rischiare la vita se non c’è motivo» risponde ad una studentessa francese del Charles de Gaulle di Londra. «In mare ho perso quattro figli, la più piccola un anno e mezzo e la più grande sei. Se non volete che veniamo qui, non sostenete i dittatori, chiedete che i diritti vengano riconosciuti, in quei paesi non puoi neppure esprimerti» fatica, tra le lacrime Mohammed mentre risponde ad uno studente che vuol sapere perché i governi dei loro Paesi permettono tutto ciò «che ferisce il cuore». «Se potessi, farei 368 figli per restituire i morti di quella tragedia alle famiglie». Famouse è ancora una ragazza e alle celebrazioni voleva esserci. Così è tornata a Lampedusa. Quando sbarcò era ancora minorenne e tra due mesi sarà mamma del quarto figlio. È un dialogo d’amore e di parole, di lacrime e applausi, il suo con gli studenti e i lampedusani. Tra loro anche Vito Fiorino, il gelataio che lanciò l’allarme riuscendo a salvarne 47. Poi c’è Adal. Lui, che tra le acque del Mediterraneo ha perso il fratello, ha ricostruito i nomi di tutte le vittime di quella notte, ha un desiderio: «Mettere i corpi tutti in un unico cimitero per dare risposte a tante famiglie. Eppure le salme non possono essere rimandate indietro, non possiamo stare a casa neanche da morti». Oggi si terrà un momento di raccoglimento alla Porta d’Europa. Poi una corona in mare alla presenza, tra gli altri, dell’arcivescovo di Agrigento monsignor Alessandro Damiano, del sindaco Filippo Mannino e della vicepresidente M5s del Senato, Maria Domenica Castellone. Come fece dieci anni fa papa Francesco, in memoria di quanti muoiono perché «accettano di partire per il miraggio della libertà». (Andrea Cassisi – Avvenire)