La migrazione dagli occhi di chi migra, alla Mostra di Venezia

11 Settembre 2023 – Venezia – La voce di chi migra ha raggiunto Venezia ed è risuonata alla Mostra del cinema, conclusa sabato sera. È stata interpretata da alcuni degli autori più attesi. È arrivata dal confine meridionale e da quello orientale d’Europa, dai luoghi (non gli unici) dove la politica di chiusura della frontiera infligge dolore alle persone che tentano di attraversarla, le umilia e le uccide. È arrivata dal presente, con urgenza, ed è arrivata dal passato, per risvegliare la memoria di persecuzioni di un tempo e mettere in guardia dal rischio sempre vivo del loro ripetersi. È arrivata con la potenza dell’esperienza diretta, attraverso film costruiti su tante testimonianze personali che ne fanno opere corali, attraverso gli occhi di un ragazzo senegalese e di due genitori siriani, che il tragitto dai Paesi d’origine fino in Europa l’hanno percorso in prima persona.

Sono i protagonisti di Io capitano di Matteo Garrone e Green border di Agnieszka Holland, i due tra i film in concorso in cui la cinepresa è direttamente puntata sulla migrazione, o meglio sugli effetti che la strategia antimigratoria europea produce sui corpi delle persone che migrano. Sulle ferite fisiche e psicologiche inferte durante la detenzione e nell’atto del respingimento, da carcerieri e cacciatori incaricati di presidiare il confine d’Europa. Come succede lungo la rotta del Mediterraneo centrale, dove si compie il viaggio di Seydou e Moussa in Io capitano, da Dakar alle acque italiane passando per il deserto e per la Libia. I due cugini partono adolescenti all’inseguimento dei loro sogni, ma lo fanno a costo della vita: la naturale pretesa di un futuro libero è sottratta ai giovani come loro, nati nel sud del mondo. Matteo Garrone voleva raccontare il tratto che sfugge alla cronaca della migrazione mediterranea, quello che parte da molto lontano e si interrompe in vista delle nostre coste, dove chi ce l’ha fatta riceve soccorso, rifugio e forse l’opportunità di una vita migliore. E voleva raccontarlo dal punto di vista di chi lo percorre, altrettanto dimenticato, nel rifiuto della narrazione comune, che parla di numeri e di masse, che impedisce l’empatia e contribuisce alla deumanizzazione.

Punti di vista inediti, in questo caso più d’uno, sono la scelta anche in Green border, racconto quasi documentaristico in bianco e nero di un’altra frontiera chiusa, la fredda foresta tra Bielorussia e Polonia, dove profughi provenienti in gran parte da Siria e Afghanistan sono attratti dal primo Paese e respinti dal secondo, pedine di una geopolitica che li riduce a merce di scambio. Si gioca qui la stessa battaglia tra dentro e fuori Europa, tra salvezza e morte. Si incontra la stessa sospensione dolorosa, la stessa richiesta di bisogni essenziali e lo stesso incomprensibile rifiuto, anzi la risposta crudele, la stessa violenza. Il film segue una famiglia siriana intrappolata e un gruppo di attivisti che offrono solidarietà, le cui esperienze sono le stesse realmente vissute da alcuni degli attori, e segue una guardia polacca che non riesce a sopire la coscienza, anche questo capitolo ispirato a testimonianze autentiche, come ha raccontato la regista. Raccolte clandestinamente, come clandestine sono state le riprese, perché la zona al confine è da tempo interdetta a chiunque voglia documentare. Nel silenzio la politica disumana può proseguire, e invece deve essere denunciata perché si fermi. Per Agnieszka Holland il cinema ha il compito di affrontare le sfide contemporanee, compresi i risvolti drammatici, deve coinvolgere le coscienze e così scongiurare che l’indifferenza renda possibili nuovi totalitarismi. Il trattamento dei migranti ai bordi d’Europa è l’Olocausto del nostro tempo: alla presentazione del film, Holland ha chiesto un minuto di silenzio per le 60.000 vite perse in questo modo dal 2014.

Davanti a ciò, suona come un monito potente anche un altro tra i film in concorso, Lubo di Giorgio Diritti, ambientato nella Svizzera di inizio Novecento ma la rappresentazione universale delle conseguenze della deumanizzazione del diverso. Il film recupera la storia dimenticata della popolazione nomade degli Jenisch in Svizzera, che subì l’allontanamento forzato dei bambini dai loro genitori, per rieducarli in collegi o in altre famiglie. Una pratica di genocidio, che aveva l’obiettivo di sterminare la comunità cancellandone la cultura e disperdendone il sangue, e che si interruppe solo negli anni Settanta. Secondo Giorgio Diritti, le società di oggi sono tutt’altro che immuni dal rischio di persecuzioni razziali come quella contro gli Jenisch.

Anche Lubo nasce da una testimonianza diretta, quella di Uschi Waser, sottratta da bambina alla sua famiglia Jenisch, è stata la guida linguistica e storica nella preparazione del film. Le opere di Venezia sulla popolazione migrante di ieri e di oggi hanno avuto questa forza: un punto di vista personale e diretto sulle storie raccontate, a tratti spiazzante, la chiave giusta per spiegare un fenomeno, anche il più complesso, riconducendolo all’umanità di cui è fatto. Alla Mostra ha funzionato e sono arrivati i premi: miglior regia per Io capitano e miglior attore emergente il suo protagonista Seydou Sarr, premio speciale della giuria per Green Border. Adesso è importante che questi film raggiungano quanti più possibile, come ha detto Matteo Garrone. Che parlino alle coscienze della cittadinanza europea, pubblico distratto delle ingiustizie che non lo riguardano, che le risveglino, con la voce di chi normalmente non ha diritto di parola, né alcun altro diritto. (Livia Cefaloni)