Chiesa spagnola: al fianco dei migranti che arrivano nelle Isole Canarie per creare una cultura dell’ospitalità

28 Luglio 2023 – Madrid – Le onde sono alte e picchiano senza pietà contro la chiglia. A volte anche il tempo è inclemente: la pioggia e il vento sferzano la barca e i passeggeri. A bordo non ci sono però navigatori esperti, marinai in grado di padroneggiare le acque sempre agitate dell’Oceano Atlantico, ma uomini, donne, bambini in cerca di un futuro migliore alle Isole Canarie, arcipelago sotto la sovranità spagnola a un centinaio di chilometri dalla costa africana. Quella verso le Canarie è una delle rotte più pericolose e, allo stesso tempo, più battute dell’immigrazione africana.
Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), almeno 543 migranti sono morti o scomparsi durante quel viaggio lo scorso anno. Sempre nel 2022, secondo l’Oim, ci sono stati 45 naufragi sulla rotta; la cifra è sottostimata perché i dati sono scarsi e incompleti.
L’immigrazione verso le Canarie è iniziata nel 1994. «Fu quell’anno, ad agosto – spiega padre José Antonio Benítez Pineda, clarettiano, parroco di Nuestra Señora de la Paz en Las Rehoyas, a Las Palmas de Gran Canaria – che due saharawi a bordo di una piccola imbarcazione arrivarono sulla costa di Fuerteventura. Per orientarsi avevano seguito la luce emanata dal faro di Entallada, a Tuineje. Quei giovani hanno inconsapevolmente inaugurato la rotta più letale di tutte, quella che va dalle coste di Tarfaya a Fuerteventura. Sono appena cento chilometri ma la forza dell’Atlantico la rende pericolosissima». I migranti sono in maggior parte marocchini, seguiti a grande distanza da saharawi, cittadini senegalesi, guineani, ivoriani, gambiani e maliani. Il loro viaggio inizia sulle coste della Mauritania, del Sahara Occidentale e del Marocco, oppure su quelle del Senegal e del Gambia. «Alcuni si imbarcano in Costa d’Avorio e Guinea – continua padre José – paesi che hanno meno controlli di polizia nonostante il viaggio sia molto più lungo (più di 1500 chilometri di distanza, una decina di giorni di traversata, ndr ) e le possibilità di arrivare vivi siano minori. Molti migranti non sanno nemmeno nuotare. Sono consapevoli di rischiare la morte ma la forza della disperazione li porta a imbarcarsi e a tentare la sorte».
Nei primi nove mesi del 2022, secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno spagnolo e dall’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati), sono arrivate alle Canarie 11.231 persone con un aumento di circa il 27 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021. Nei primi cinque mesi del 2023, le isole hanno accolto 4406 migranti. Il totale a giugno supera i 3000, il che significa almeno 100 migranti ogni giorno. In mare vengono calate barche leggere, con motori fuoribordo. Marciano veloci, ma la traversata è faticosa.
Caldo di giorno, freddo di notte. L’acqua salmastra che brucia la pelle e gli occhi. I continui scossoni provocati dalle onde. Non tutti riescono a sopportare questo viaggio. «Molti migranti spesso perdono la testa», continua padre José: «Va tenuto conto che tanti di essi arrivano a imbarcarsi dopo viaggi estenuanti nel deserto per arrivare alla costa. Alcuni non ce la fanno e si gettano in mare. La barca sovraccarica, per evitare di capovolgersi, non può virare o fermarsi. Così molte persone perdono la vita. Anche chi non muore arriva alle Canarie profondamente provato. Sono comuni disidratazione, vertigini e ipotermia. In questi ultimi mesi, la popolazione delle isole è stata testimone di naufragi a pochi metri dalla costa in cui le vittime sono bambini, giovani e donne. Barche che arrivano spesso con a bordo i cadaveri».
Nel 2020 il Governo spagnolo ha varato il piano Canarias , un provvedimento, tuttora in vigore, per l’accoglienza di emergenza. «Questa misura doveva migliorare le condizioni dei migranti – osserva Benítez Pineda – ma non è altro che una soluzione improvvisata per una situazione già insostenibile a causa delle pessime condizioni di vita nei macrocampi che ospitano i migranti. Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato il sovraffollamento e le inutili sofferenze causate dalla cattiva gestione e dalla scarsa capacità di accoglienza, nonché dalla decisione del Governo di limitare i trasferimenti alle strutture disponibili nella penisola. Qualcosa è migliorato dopo le proteste ma molto rimane da fare». In tale contesto alcune realtà della Chiesa spagnola come la Caritas, il segretariato diocesano per le migrazioni, i gesuiti, i clarettiani, i salesiani, i fratelli lassalliani, le Figlie della carità e altre congregazioni religiose hanno creato un tavolo e stilato un quadro comune di lavoro che si basa sulla difesa della dignità e dei diritti umani, il cui obiettivo è offrire una risposta coordinata alla realtà delle migrazioni. In questo percorso, la Chiesa delle isole Canarie, insieme al sottosegretariato alle migrazioni della Conferenza episcopale, ha avviato i corridoi di accoglienza che cercano di collegare le diverse istituzioni ecclesiali per dare una risposta comune tra le diocesi. Allo stesso tempo si intende instaurare una collaborazione unitaria con la pubblica amministrazione, che rende possibile il transito.
«Vogliamo aprire varchi dicendo che il transito umanitario è possibile e generare significative storie di benvenuto che diano un segnale di speranza», conclude il parroco: «Non vogliamo sostituirci alla responsabilità dei governi e delle pubbliche amministrazioni, né risolvere tutte le sfide che sorgono dalla situazione di tanti giovani migranti nelle strade. Vogliamo solo dimostrare che un flusso ordinato è possibile attraverso iniziative pilota. È questo il segno coerente con cui, come Chiesa, ci mettiamo a disposizione della società per costruire insieme soluzioni umanitarie che favoriscano processi di inclusione nella vita sociale e lavorativa di questi giovani. Si tratta di esprimere, con il volto concreto della Chiesa in ogni territorio, la grandezza dell’accoglienza, per chi accoglie e per chi è accolto. Estendere e stabilire una cultura dell’ospitalità che contribuisca alla conversione personale e pastorale nelle diocesi, nelle comunità e nelle famiglie cristiane». (Enrico Casale – Avvenire)