Tutti i bambini disegnano la guerra nello stesso modo: una mostra a Roma fino a domenica

23 Marzo 2023 – Roma – Ci proviamo ogni tanto. Quando penetra le nostre case, filmata e trasmessa in tv, ci proviamo a immaginare com’è la guerra. Abbiamo provato a immedesimarci con il popolo iracheno, con quello afghano, yemenita, congolese, con i siriani, i somali, gli etiopi. Forse non ci siamo mai avvicinati come nell’ultimo anno, quando abbiamo assistito all’invasione di un Paese vicinissimo per geografia e storia, e abbiamo visto migliaia di famiglie ucraine abbandonare le loro quotidianità così simili alle nostre e arrivare nelle nostre città, portando con sé giocattoli, vestiti, animali domestici e racconti di vita proprio identici ai nostri. Non ci siamo riusciti mai. La guerra è quella condizione talmente innaturale che non puoi conoscerla finché non ti capita, e anche allora non la capisci e fatichi a crederci.

La Comunità di Sant’Egidio ha trovato una scorciatoia per avvicinarci il più possibile a sentirne il dramma: per mezzo dei bambini, le vittime più meravigliate e insieme più lucide, e della loro forma di espressione più schietta, disegni colorati, accompagnati da piccoli pensieri spontanei. Sono stati raccolti nelle Scuole della Pace, aperte dalla Comunità in tutto il mondo e specialmente nei luoghi in cui l’infanzia è a rischio, dove ai bambini è offerto un percorso scolastico e di educazione, anche alla socialità, alla solidarietà e alla pace, di cui altrimenti resterebbero privi. Infine, sono stati esposti al Palazzo delle Esposizioni, a Roma. Fino al 26 marzo decine di fogli, schizzati dal verde militare dei carrarmati e delle divise dei soldati, dal rosso del fuoco, dal grigio di aerei che sganciano bombe, e di palazzi sventrati come fossero presi a morsi. Popolati da figurine che dicono aiuto, ho paura, che chiamano mamma, che corrono, o stese a terra con gli occhi chiusi. Il visitatore incontra bambini di tutte le provenienze, sperduti davanti all’assurdità della violenza, feriti da un dolore insopportabile eppure teneramente fantasiosi e ottimisti. Assediati a causa di logiche di potere che non comprendono e che non li considerano, privati dei genitori e degli amici, di una casa, della scuola, sopravvissuti per miracolo, ora fanno i conti col trauma e piano piano riprendono a sognare.

Con le loro matite colorate, parlano i bambini di Irpin, Kharkiv, Sloviansk svegliati dal rombo degli aerei militari. Raccontano le giornate nei rifugi sottoterra e la distruzione di case, strade e ponti, degli alberi e di tutto il verde. Raccontano la fuga e la nostalgia per i padri rimasti a combattere. Parlano i bambini del Burkina Faso e del Nord Kivu in Congo, di quando i miliziani islamisti sono entrati in casa e hanno rapito gli uomini e violentato le donne. Raccontano i villaggi in fiamme e il ricovero in campi profughi in cui manca tutto e non c’è niente da fare. Parlano i bambini dell’Iraq e dell’Afghanistan, fuggiti anche loro, risalendo le montagne lungo sentieri interminabili, navigando l’Egeo su imbarcazioni da cui qualcuno cadeva e non riaffiorava più, aspettando il proprio turno di partire all’aeroporto di Kabul, mai così affollato. Parlano i bambini siriani, disegnano il loro Paese come un pezzetto di terra circondato da fucili puntati, e si sentono in gabbia, costretti a crescere in campi da cui non possono uscire.

Dall’esplodere della violenza alla fuga alla nuova realtà di sradicati che hanno perso tutto, sfollati in tende o rifugiati in Paesi stranieri sconosciuti, lo sguardo dei bambini si poggia sul turbine senza fine degli orrori di una guerra, e ne restituisce l’immagine a colori. Si scopre che il sole e le chiome degli alberi si disegnano ovunque allo stesso modo e che, da una parte all’altra della terra, non cambiano le esperienze e i pensieri di un bambino gettato nella guerra. Dicono la stessa cosa Elsa, 13 anni di Aleppo, e Alliance, 10 anni del Nord Kivu: senza la guerra non avrebbero perso il papà e ora non soffrirebbero così. Universale il dolore, universale la gioia quando lo scontro smette, universale la gratitudine per il volo umanitario che li ha portati in salvo e per chi dopo tanto tempo si prende cura di loro. Universale, infine, la richiesta per i potenti. Proviene dai bambini che hanno vissuto il conflitto, ma anche da quelli delle Scuole di Pace in Italia, come da qualsiasi bambino che ascolti raccontare la guerra. Un grido educato, parole semplici e gentili, dietro le quali pulsa la cieca fiducia dei bambini che una magia possa accadere: per favore, fate finire tutte le guerre, parlate tra voi, fate la pace. E se lo vogliono i bambini di tutto il mondo, se basta una Scuola per imparare la Pace, allora possiamo crederci tutti. (Livia Cefaloni)