Guardare da vicino, vedere lontano: una mostra fotografica dà luce ai volti e ai luoghi dell’immigrazione in Italia

14 Novembre 2022 – Roma – Le mantelle si aprono rosse e blu e le gonne a campana roteano, mentre tre giovani piroettano sui passi della danza tradizionale. Venditori sistemano in barca i pomi di guava, galleggiando sui canali di Barisal. Una donna si inginocchia sull’uscio di una chiesa in legno. Due mani intrecciano fibre di paglia per creare la tesa d’un cappello, l’artigiano di Kumartuli modella le gambe di una dea d’argilla, il sorriso della raccoglitrice spunta sotto un grosso carico di foglie di tè, la frutta resta da vendere sulle strade della periferia di Bamako.

In questi giorni a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, camminando per la sala Fontana, si finisce trasportati in Afghanistan, Bangladesh, Romania, Ecuador, India, Indonesia, Mali. E il viaggio per il mondo continua fuori dal centro, nelle biblioteche comunali dei quartieri Salario, Testaccio, Spinaceto e Tufello. Una mostra fotografica permette tutto questo, organizzata nel 50° anniversario della Convenzione UNESCO del 1972 per la Protezione del patrimonio mondiale. Si chiama Vicino/lontano e la sua idea è illuminare il volto dei Paesi d’origine delle migrazioni verso l’Italia, con il loro patrimonio umano, paesaggistico, artistico e di tradizioni, attraverso gli occhi di fotografi che in essi hanno le proprie radici.

Vicino, in primo piano, come lo sguardo del pastore pakistano sull’Himalaya, come le rughe del padre albanese, come le mani tinte delle donne afghane durante la cerimonia dell’hennè, come i grossi pesci scaricati a braccia sull’isola ecuadoriana di Santa Cruz. E lontano, sullo sfondo: il monte Horeb in Marocco, in un’area sacra a Cristiani, Islamici ed Ebrei; l’architettura dell’isola di Gorée, in Senegal, fino all’Ottocento il più grande centro per il commercio di schiavi africani; i canti Hudhud della comunità filippina degli Ifugao, intonati durante la semina del riso; il paesaggio minerario di Roșia Montană, in Romania, e il santuario dei panda giganti in Sichuan – Wolong, Cina. Ma anche il festival di pesca nigeriano e la preghiera nell’immensa moschea di Giacarta. E poi i segni di guerre passate e presenti, sul fianco della rupe di Bamiyan in Afghanistan, dove dal 2001 non ci sono più i due Buddha giganti, distrutti dai talebani, e tra i giardini e i palazzi di Kyiv e Mariupol, che oggi non esistono più.

Il titolo della mostra evoca il movimento di un obiettivo fotografico puntato sulla fonte delle migrazioni, sui tanti, diversissimi Paesi da cui parte chi giunge in Italia. Allarga l’inquadratura, per cogliere lo splendore della natura e dell’architettura, la ricchezza della cultura tradizionale, gli usi, i riti, la spiritualità, ma anche l’asprezza di certi territori, le ferite non rimarginate della Storia, le ingiustizie e le povertà. E poi mette a fuoco i dettagli: la fronte, gli occhi, la bocca, le mani di chi abita quei Paesi, con tutti i pensieri, i sentimenti, le parole, le abilità che nascondono. Così la mostra permette di conoscere e comprendere, getta le basi del dialogo e inizia a costruire l’amicizia, com’è nello spirito della Convenzione UNESCO e, ancor prima, del grande sogno delle Nazioni Unite. È questo l’unico antidoto possibile contro la logica della conta degli sbarchi e della trattativa sulle quote dell’accoglienza, contro quelle tendenze che sono prevalse nell’Europa degli ultimi anni e che conducono dritte alla narrativa dell’emergenza e alle politiche dell’esclusione. Il cambiamento nasce dal recuperare l’individualità all’interno del “flusso”. Dallo scoprire in ogni migrante un uomo, una donna, un bambino, il mondo ricchissimo che hanno lasciato e il futuro che sognano di costruire. Per iniziare questo esercizio di riumanizzazione, la mostra resta aperta a Roma fino al 27 novembre. (Livi Cefaloni)