Morti di esclusione

30 Giugno 2022 – Roma – Morire per annegamento a bordo di un gommone sfondato invaso dall’acqua, tra le onde e le correnti, con le ustioni della benzina sul corpo, con un bambino in grembo. Morire ai piedi di una rete metallica, schiacciati dalla carica della polizia che presidia la barriera, quella barriera che si stava provando a scalare. Morire di asfissia nel vano di un camion abbandonato, senz’acqua e senz’aria, in un inizio di estate rovente. Morire addormentati, infine, nel rogo della baracca di fortuna in cui ci si ripara la notte, incastrati tra resti di lamiere carbonizzate. Morire a un anno, a venti, a trentacinque. Morire insieme ad altre trenta, trentasette, cinquanta persone, a decine, centinaia, migliaia di vittime dello stesso destino prima e – dovremmo aspettarci qualcosa di diverso? – anche dopo.

Morire a questo modo, in tutti questi luoghi, di una morte dolorosamente evitabile. Non è una fatalità, non è una disgrazia, è la conseguenza perfettamente prevedibile della scelta dell’esclusione, che le regole in materia di migrazione da anni ormai persistono nell’incarnare. Escludono e respingono le politiche nazionali sugli ingressi, abbracciate dalle istituzioni europee, promosse, finanziate e replicate dall’Unione. Il connubio tra la chiusura dei canali d’entrata regolare – o la loro riduzione a quote insignificanti – e la stipula di accordi con gli Stati di origine dei flussi maggiori, incaricati di fermare le partenze ed equipaggiati perché possano riuscirvi, è ciò che spinge migliaia di persone, che alternativa non hanno, a tentare di aggirare questo blocco. Attraverso ogni spiraglio, anche a costo della propria vita.

È per questo che salgono su imbarcazioni malsicure, anche se la tratta è lunga e il mare non è calmo, esponendosi a naufragi come quello del tardo pomeriggio di lunedì 27 giugno. Quando ha ricevuto l’allarme, la nave di Medici Senza Frontiere si trovava a due ore di navigazione e non è arrivata abbastanza presto. Ha salvato 71 vite, ma all’appello dei passeggeri del gommone mancano almeno una trentina di persone. Compresi alcuni neonati, spariti tra le onde. Venerdì 24 giugno, lo stesso motivo ha spinto circa duemila giovani, in prevalenza subsahariani, a tentare l’arrampicata della recinzione che divide la provincia di Nador da Melilla, il Marocco dalla Spagna. Uno dei tratti visibili del muro eretto tra Africa ed Europa. Ma le guardie marocchine sono intervenute ad impedire l’attraversamento, perché questo è il compito loro affidato dalla cooperazione – recentemente rivitalizzata – per la gestione dei flussi migratori tra Spagna e Marocco. I testimoni hanno riferito di lanci di pietre e di una calca che avrebbe schiacciato 37 persone, secondo ricostruzioni ancora solo provvisorie. Le immagini hanno mostrato distese di feriti, circa duecento. Un migliaio di migranti ha vinto la sua scommessa: saltati dall’altra parte, hanno messo piede sul suolo europeo, sono stati raccolti in campi d’accoglienza e avviati alle procedure d’asilo. La stessa scommessa hanno giocato, e perso, i cinquanta sudamericani – messicani, guatemaltechi, honduregni – ritrovati stipati nel rimorchio di un camion, fermo sotto la ferrovia di San Antonio, in Texas. Abbandonati in circostanze che ora un’indagine federale intende chiarire, lungo una via che è normalmente battuta da chi tenta di nascosto l’ingresso negli Stati Uniti, visto che, anche qui, altra via non c’è.

Il sindaco di San Antonio ha parlato dopo la scoperta trattenendo le lacrime, l’ha definita una mostruosa tragedia umana. Lo stesso dramma che va in scena regolarmente in tante località di confine. Le più alte autorità, dal premier spagnolo al presidente statunitense, hanno condannato le “mafie” del traffico di esseri umani. Ma i trafficanti non sono che gli spietati approfittatori di una situazione di fatto, così plasmata dalle politiche occidentali dell’esternalizzazione e dell’esclusione. Sono queste politiche che uccidono, e questi sono i morti di un’esclusione voluta, l’unica risposta che il nord del mondo continua a dare al popolo di chi ha bisogno di migrare. Anche Yusupha Joof è morto di esclusione. Veniva dal Gambia, aveva trentacinque anni e due occhi grandissimi, era finito a raccogliere frutta e verdura come bracciante stagionale nella campagna foggiana. La sua casa era una minuscola baracca improvvisata con pezzi di lamiera, circondata da altre baracche tutte uguali, nell’insediamento per lavoratori agricoli di Torretta Antonacci. È morto mentre dormiva, all’alba di lunedì 27 giugno, ucciso da un incendio divampato chissà come e che ha impiegato poco a diffondersi nel ghetto. Vittima, lui, dell’esclusione che caratterizza il segmento successivo dell’immigrazione, la vita nei Paesi di “accoglienza”. La difficoltà di regolarizzare il soggiorno, la possibilità di perdere il permesso anche una volta ottenuto – come pare fosse successo a Yusupha – la discriminazione, tutto questo crea ostacoli aggiuntivi nell’accesso al lavoro, allo studio, alla salute, alla casa, a qualsiasi opportunità. Costringe alla povertà e all’emarginazione, mette di nuovo in gioco la sopravvivenza. Pare che neanche varcare la frontiera basti. La politica dell’esclusione continua e, al di qua e al di là del confine, le sue vittime muoiono ogni giorno. (Livia Cefaloni)