27 Giugno 2022 – Roma – Chi si occupa dei migranti che riescono a varcare la frontiera d’Europa e a fare ingresso nel territorio di uno Stato membro? Chi prende in carico queste esistenze segnate, con un passato che normalmente le ha esposte in più d’una occasione al rischio della vita, l’ultima volta spesso appena prima dell’approdo, vittime di naufragi nel Mediterraneo, nell’Egeo, nell’Atlantico? Se i loro primi bisogni vanno soddisfatti immediatamente, nel luogo in cui giungono, chi si cura di accoglierli subito dopo? Chi ascolta le loro richieste e si incarica di scoprire i loro bisogni di protezione, giuridica e spesso anche psicologica e sociale? Chi prepara le condizioni per l’integrazione, offrendo loro l’opportunità di costruire una nuova vita nella terra di accoglienza, se vorranno restare?
Lo scorso 22 giugno, i ministri rappresentanti di 18 Stati UE, compresa l’Italia, e di 3 Stati associati (Svizzera, Norvegia e Liechtenstein) hanno mosso un passo nella creazione del meccanismo di solidarietà previsto dal nuovo Patto su Migrazione e Asilo del settembre 2020. La premessa, continuamente ricordata, è che l’onere di gestire l’immigrazione – specialmente se di notevoli dimensioni – non può essere interamente lasciato allo Stato che, per ragioni geografiche, si trova ad accogliere il primo arrivo, come invece prevede il regolamento UE detto Dublino. Si parla da anni della necessità di una condivisione tra tutti gli Stati membri, ma l’unanimità sulla riforma dei criteri attuali non è mai stata raggiunta. Ora un gruppo di Stati prova ad aggirare il problema, assumendo l’impegno, volontario e temporaneo, di ammettere la redistribuzione nei propri territori di una quota delle persone giunte nei Paesi mediterranei, più interessati dai flussi. Stati come Francia e Germania si sono già resi disponibili ad accoglierne alcune migliaia, mentre ai Paesi che non possono o non vogliono fare lo stesso è offerta la possibilità di contribuire con un sostegno materiale di altro tipo.
Sullo sfondo c’è anche qui, fatalmente, l’invasione dell’Ucraina: l’imponente, inedita sfida migratoria che la guerra ha lanciato all’Europa e la reazione di solidarietà che ne è nata. Questa spinta ad aiutare chi è nel bisogno, e a cooperare per farlo nel modo migliore, è l’unica cosa da salvare del lungo incubo in cui siamo caduti e, tuttavia, la sua concretizzazione è stata spesso macchiata da ombre. Si è lasciato spazio ad incomprensibili disparità: nell’applicazione della protezione temporanea, ad esempio, e nella resistenza, che continua, ad estendere i diritti immediatamente garantiti ai rifugiati ucraini a persone nelle stesse condizioni, ma di diversa provenienza. Anche il nuovo meccanismo cede alla tentazione della differenziazione e dell’esclusione, nel lasciare agli Stati la possibilità di una preferenza sulle categorie da accogliere e nel fissare esso stesso un criterio di priorità, in favore di chi ha bisogno di protezione internazionale e, tra loro, dei più vulnerabili. Ma un simile riconoscimento è l’esito finale di una procedura delicatissima dai tempi per nulla immediati, richiede valutazioni complesse e il rispetto di diritti insopprimibili che la civiltà giuridica ha con fatica cristallizzato nel tempo: condurla e concluderla in modo perfettamente legittimo è tra gli oneri più ingombranti che i Paesi di primo arrivo chiedono di condividere, dunque l’oggetto dell’accordo stesso. La clausola di priorità rende possibili – probabilmente necessarie – valutazioni superficiali e in fin dei conti arbitrarie. Fa risprofondare nella discrezionalità una materia sensibilissima, conduce dritto a nuove ingiuste e ingiustificabili distinzioni. E alla fine guasta il meccanismo, perché tradisce l’obiettivo di porre sullo stesso piano gli Stati di frontiera e gli Stati più interni.
È un “primo passo”, come dichiarato dagli stessi ministri europei. Un segnale incoraggiante e un esperimento da cui trarre insegnamenti per il futuro, ma qualcosa di ancora molto lontano dal meccanismo di ricollocamento permanente perfettamente prevedibile che il nuovo documento ribadisce essere l’obiettivo finale. Nel frattempo, l’incertezza è tra i fattori che trattengono dal dismettere finalmente le politiche di esternalizzazione, nei giorni in cui queste tornano a mostrare la tragicità dei loro effetti, in scenari nuovi. Non è decollato, martedì scorso, il volo che doveva portare un primo gruppo di richiedenti asilo dal Regno Unito in Ruanda, in adempimento dell’accordo che trasferisce nello Stato africano le procedure d’asilo e la eventuale successiva accoglienza: nell’attesa che si pronunci la corte nazionale, quei migranti non possono partire perché, ha detto la Corte, rischiano violazioni irreparabili dei loro diritti fondamentali. Pochi giorni dopo, venerdì mattina, diverse decine di persone sono morte (18 per le autorità, almeno 37 secondo le ONG locali) mentre tentavano di superare le reti che dividono il Marocco dall’enclave spagnola di Melilla, l’ambitissimo pezzetto di Europa in Nord Africa: anche in questo caso, è stato un accordo di esternalizzazione a spingere le autorità marocchine ad intervenire per frenare la spinta. Nella confusione che ne è scaturita, sono rimasti schiacciati due poliziotti e un numero ancora solo provvisorio di giovani migranti.
Passi avanti e arretramenti: l’Europa continua a dibattersi tra l’aspirazione alla realizzazione dei suoi valori e gli egoismi e la mancanza di coraggio dei suoi membri. Fra le tante crisi che la sfidano, quella migratoria continua ad essere il campo in cui si gioca la partita della sua identità. (Livia Cefaloni)


