Con Dio e con i migranti: il lavoro di frontiera della Fondazione Ellacuría di Bilbao

19 Giugno 2022 – Bilbao – Ismael ha il tono cadenzato degli abitanti del Reef, terra che ha lasciato nel 2018, poco dopo aver compiuto vent’anni. I suoi occhi, però, non si inumidiscono quando parla del Marocco. A commuoverlo fino alle lacrime è il ricordo dell’anziana signora di Kharkiv che gli è stata accanto negli ultimi quattro anni. «Mi ha salvato due volte. Sono arrivato in Ucraina dal mio Paese senza nulla e lei mi ha aiutato. Quando è scoppiata la guerra mi ha convinto a partire. Non volevo lasciarla. Le ho detto: “Vieni con me”. Mi ha risposto che quella era la sua vita ma io ero giovane e avevo un futuro… La sento tutte le sere al telefono, vorrei poterla rivedere». Ismael fatica a parlare: il racconto si è fatto troppo doloroso. «Vado avanti di fuga in fuga», balbetta. «Prenditi un momento di pausa. Grazie per aver condiviso la tua storia», prova a consolarlo padre Martín Iriberri. Nei lunghi anni di servizio alla Fondazione Ellacuría e ad Alboan, il gesuita ha imparato che, vissuta in solitudine, la sofferenza schiaccia. Da qui la scelta di offrire orecchio, cuore e spalle per condividerla. «Non posso cancellare il loro dolore. Posso solo caricarmene un pezzo sulla schiena», afferma il religioso mentre si divide tra le richieste di Ismail, il nuovo arrivato dopo una gincana tra Slovacchia e Germania, e degli ospiti “storici” Yussef e il quasi omonimo Ismael. Nel quartier generale della Fondazione e dell’Ong di cooperazione internazionale della Compagnia, in un quartiere popolare di Bilbao, il flusso è continuo. Profughi, senzatetto, studenti universitari, famiglie. «Cerchiamo di mettere in relazione gli esseri umani, indipendentemente dalla loro condizione. Se sappiamo ascoltare, possiamo trovare il Signore in ogni cosa, come insegnava il nostro fondatore. A cominciare dall’altro. Per questo, la nostra è una spiritualità per la missione. Il discernimento per scoprire la voce di Dio, ci porta verso i fratelli e le sorelle, che sono l’umanità tutta», sottolinea. Uomini da sempre di frontiera, proprio come Ignazio, ora come cinquecento anni fa, i gesuiti continuano a farsi costruttori di ponti tra mondi e realtà. A Bilbao hanno cercato di declinare l’accoglienza in modo innovativo. «Ad ospitare i profughi sono famiglie che frequentano le nostre parrocchie o momenti di spiritualità e le comunità religiose. I corsi di lingua, indispensabili perché possano integrarsi, come quelli professionali, sono, invece, tenuti dagli studenti dell’Università gesuita di Deusto». «Il sabato, dopo la lezione, andavamo a bere qualcosa insieme. Così siamo diventati amici», dice Yussef che, dopo aver imparato lo spagnolo, segue il programma di saldatura della Fondazione. «I muri non sono solo alla frontiera, sono anche all’interno delle nostre società, in cui i migranti sono relegati in bolle. Il primo passo per abbatterli è far entrare in contatto le persone. La conoscenza è il più efficace antidoto ai pregiudizi. Solo quando si parla di esseri umani in carne ed ossa e non più di categorie astratte, si comprende l’assurda crudeltà della discriminazione. I profughi sono uno dei grandi segni di questo tempo. Per questo, sono nel cuore della Compagnia». (Lucia Capuzzi -Avvenire)