11 Aprile 2022 – Roma – L’8 e il 9 aprile, docenti, giuristi, giornalisti, esponenti politici e delle organizzazioni si sono incontrati per domandarsi cosa resta del diritto d’asilo quando si esternalizzano le frontiere. La domanda viene naturale: come si fa a garantire l’accesso ad una procedura effettiva ed equa per il riconoscimento della protezione internazionale – diritto tutelato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dai Trattati e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché, nell’accezione più estesa di tutte, dall’art. 10 della Costituzione italiana – quando, ormai da anni, la politica migratoria europea si sostanzia nell’affidare l’attività di ostacolo delle partenze e trattenimento dei migranti a Stati terzi economicamente e politicamente instabili e non in grado di garantire i diritti umani basilari? Il confronto per cercare una risposta si è alimentato di tre contributi: la testimonianza di chi ha visto o vissuto sulla pelle gli effetti dello spostamento della frontiera; la sapienza giuridica di chi studia il diritto d’asilo o gli dà tutela nelle aule di giustizia; la capacità politica di raccogliere le istanze e trasformarle in decisione di cambiamento.
Il titolo dell’incontro era “Il diritto di asilo in tempo di guerra”. Quando l’idea è nata, nessuno poteva immaginare che giorni sarebbero stati quelli in cui si sarebbe concretizzata. E invece, la sorte dell’Ucraina aggredita è diventata la bussola dei lavori. Ha offerto un’immagine dolorosamente vivida da sovrapporre alle parole di Adal Neguse, sopravvissuto eritreo alla rotta del Mediterraneo centrale: Mariupol è la Aleppo di oggi, ha detto Giota Masoridou, che da avvocato ha conosciuto i campi sulle isole egee, dove i migranti sono bloccati per mesi aspettando l’esito della domanda d’asilo o la “riammissione” in Turchia. Ma ha anche finalmente mostrato che una gestione diversa è possibile: una protezione temporanea automatica, confini aperti e solidarietà tra Stati, redistribuzione ma anche possibilità di scegliere il Paese in cui stare, sostegno all’integrazione sanitaria, alloggiativa, scolastica, linguistica, lavorativa. I relatori, pur disillusi da anni di esperienza nella materia, non hanno voluto escludere una timida fiducia nell’inizio di un cambiamento. Vedremo. Tangibile per ora è solo lo stridore col passato, con le guerre di cui non abbiamo saputo nulla – in Mali, Sierra Leone, Burkina Faso – e persino con quelle che hanno scosso le nostre coscienze, in Siria o in Afghanistan. Hanno provocato fosse comuni e bambini in fuga esattamente come quella ucraina. Può la sola vicinanza spiegare una disparità così ingiusta? Eppure, nelle teche che a Trastevere esponevano gli oggetti dei naufraghi del 3 ottobre 2013, c’erano orologi, occhiali da sole, piccole fotografie, rosari per pregare. Quelle 368 persone, morte a mezzo miglio da Lampedusa, erano davvero così lontane da noi?
La deriva dell’umanità cui assistiamo in Ucraina serva almeno a ravvivare una discussione sulla questione migratoria. Il convegno ha raccontato tutte le rotte della regione mediterranea: dall’Egeo al canale di Sicilia, dai Balcani, dove il giornalista Valerio Cataldi ha incontrato Aziz, separato dal papà dalla polizia croata dopo due anni di viaggio insieme dall’Afghanistan, alla meno visibile Cipro, dove Ilaria Della Moretta raccoglie le voci dei richiedenti asilo, fino alle Canarie. “Le isole non possono diventare carceri”, ha avvertito Txema Santana, che si occupa di rotta atlantica come consigliere del governo. La spaventosa conta dei morti di tutte queste rotte finirà solo quando le persone non saranno più costrette a percorrerle: quando potranno ottenere dall’ambasciata del Paese di destinazione un visto per chiedere protezione o quando potranno fare ingresso in Europa grazie ad una sponsorship per legami familiari o per ricerca di lavoro. I giuristi al convegno hanno proposto queste e altre soluzioni pratiche. I politici, europei e italiani, devono ora dimostrare la volontà di applicarle. (Livia Cefaloni)