Pluralismo nell’informazione: un valore costituzionale

Roma – Qualcosa sta cambiando nel Paese se il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nell’ultimo mese ha sentito la necessità di ribadire più volte che l’informazione è un bene pubblico di rilevanza costituzionale.  E che la libertà di stampa e la tutela delle minoranze richiedono il sostegno dello Stato. In un tempo in cui pare che tutto debba essere ricondotto alla legge di mercato, il valore del pluralismo nell’informazione torna ad essere al centro del dibattito. Qui ci interessa in particolare quello che dà voce ai territori, alle periferie, alle realtà decentrate, alle collettività italiane nel mondo.

Sono i giornali di carta e sul web che raccontano una comunità, un’area ben definita del Paese, compreso quello all’estero. Molte delle notizie che diffondono non arrivano mai alla ribalta nazionale. Sono i giornali locali, quelli di categoria, che, come ha sottolineato papa Francesco per quelli diocesani, sono “voce, libera e responsabile, fondamentale per la crescita di qualunque società che voglia dirsi democratica, perché sia assicurato il continuo scambio delle idee e un proficuo dibattito basato su dati reali e correttamente riportati”. Hanno una tiratura legata al territorio e svolgono una funzione indispensabile e preziosa nella crescita democratica della Nazione, della società civile, e consentono di essere consapevoli del tempo che si sta vivendo. Ancor più nell’attuale contesto comunicativo che avvolge tutti con sempre nuovi strumenti, veloci e persuasivi.

Da quest’anno, dopo un lungo ed articolato lavoro a livello parlamentare e dei protagonisti dell’informazione, tra cui le organizzazioni di testate cui siamo federati (Fisc e Fusie), è in vigore la riforma del comparto editoria, la legge del 15 maggio 2017 n. 70, che con regole chiare, trasparenti ed eque, sostiene l’informazione locale (carta e web) legata al no-profit, alle cooperative dei giornalisti, al volontariato. È una buona legge. Ci sono voluti più di tre anni per scriverla. Fa chiarezza su chi prende i contributi pubblici, come gli enti senza fini di lucro, i periodici delle minoranze linguistiche, i giornali diffusi all’estero. Non ci sono più i giornali di partito. I maggiori e popolari quotidiani e periodici non ci sono mai stati.

Da lunedì 26 novembre è stata affidata alla Commissione Bilancio del Senato la discussione su un emendamento, presentato dal parlamentare palermitano Adriano Varrica, del Movimento 5 Stelle, che rimette in discussione tutto questo. Prevede infatti l’abolizione del finanziamento pubblico all’editoria. Elimina quel fondo per il pluralismo che permette alle realtà editoriali minori di esistere. In pratica si va a tagliare completamente, da gennaio 2020, una legge (la 70), che oltre tutto deve ancora dare i primi benefici, essendo entrata in vigore dal 1° gennaio 2018.

È un emendamento che deve essere bocciato. Non è materia di Legge di Bilancio, non è nel contratto di Governo. Siamo sicuri che tutti i 18 parlamentari eletti all’estero, a prescindere dalla loro appartenenza politica, ed a cominciare dal sottosegretario agli Esteri on. Merlo, con delega per gli italiani nel mondo, sapranno fermare un emendamento che condannerebbe a morte sicura gran parte delle testate cartacee dell’estero. Compresa la nostra.

Durante il recente convegno del 15 novembre alla Farnesina sulla stampa all’estero, promosso dal Cgie e dalla Fusie, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria, Vito Crimi (M5S), ha confermato il mantenimento del fondo per il pluralismo, affermando che sarebbero cambiati solo i criteri di assegnazione dei contributi: non più agli editori come avviene ora, ma ai progetti innovativi. Quale è la verità? Nel caso che sia così, chi deciderà se un progetto è innovativo, in assenza di criteri oggettivi e di una Commissione di controllo, come è stato fino ad ora?

Tutto si può ridiscutere e migliorare, ma, per un comparto così significativo, delicato e complesso come la libertà di stampa e il pluralismo informativo, occorre un ascolto più ampio con coloro che sono coinvolti. Evitando dogmatismi pregiudiziali, e guardando alla realtà delle cose ed al contesto democratico.

Un cambio repentino della legge metterebbe a rischio anche i posti di lavoro di migliaia di giornalisti che sono radicati sul territorio. E non è immaginabile un Paese impoverito di queste voci, sarebbe privato di apporti fondamentali al dibattito sociale e civile. Verrebbe meno un’informazione credibile sempre sul campo al di là delle tante, troppe, fake news che proliferano. 

Confidiamo, quindi che non si proceda al cambiamento attraverso la legge di Bilancio, ma che si apra un confronto costruttivo e aperto per continuare a sostenere il pluralismo. (Cdi)