Roma – “Maria e Giuseppe in viaggio ci ricordano le attese di un’umanità che chiede ospitalità ma che insieme sa essere ospitale”. Lo sottolinea don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI, per il quale “purtroppo guardiamo al tema migratorio sotto un falso piano: noi sul piedistallo a decidere se accogliere o meno”. “Le relazioni, invece, sono sempre occasione di reciprocità: siamo ospitali e insieme anche ospitati”, afferma don Bignami in una intervista pubblicata su http://liberidipartireliberidirestare.it/occhi-aperti-e-cuore-sveglio/, ribadendo che “l’altro è presenza e un messaggio divino e non un intruso da cui guardarsi”.
Maria è l’icona dell’Avvento. Cosa ha da dire la figura di questa ragazza ai giovani di oggi?
La figura di Maria ispira molte riflessioni, a partire dalla sua capacità di rendersi totalmente disponibile ad un progetto non suo. Forse potrebbe iniziare da qui un cammino di avvicinamento dei giovani alla fede: aprirsi alla novità che sorprende. L’Avvento ci ricorda l’attesa, ma oggi tendiamo ad addomesticarla, quasi che sono le nostre aspettative a definire l’utilità di Dio. Così si nasce già vecchi, senza il gusto dell’attesa e dell’apertura al dono che supera e affascina. I giovani non hanno forse bisogno di fare questa esperienza?
Molti, giovani e meno giovani, attendono un lavoro, il momento per costruire una famiglia, l’occasione per fare la scelta giusta. Quale è l’atteggiamento dell’attesa, quello che suggerisce l’Avvento?
L’Avvento è un invito a lasciare una sedia vuota alla mensa di casa, nei cerchi di gruppo, nelle liturgie e nei luoghi in cui viviamo. L’Avvento è in primo luogo attesa di una presenza: solo a quel punto è possibile il lavoro, la famiglia o altro. Un Avvento che si rispetti gusta il sapore della condivisione e della comunità. Non è tanto un carpe diem, attimo fuggente, ma una persona. Se è così, l’atteggiamento da coltivare è quello di vedere l’altro come dono. L’altro è presenza e un messaggio divino e non un intruso da cui guardarsi. Occhi aperti e cuore sveglio: la vigilanza si nutre così!
“Questo Natale è come tutti gli altri Natali, i Natali che sono passati, i Natali che verranno: un gran dono fatto a povera gente”, diceva don Primo Mazzolari. Chi sono i poveri oggi?
La tentazione di definire i poveri a tavolino è sempre pericolosa: serve ad addormentare il cuore e a giustificare mani rattrappite. Don Primo Mazzolari ogni volta che scrive sui poveri lo fa a partire dalla propria condizione di povertà. Guardo ai poveri, mi chino su di loro e presto loro la voce solo se mi considero povero. Viene alla mente il quadro evangelico del dottore della legge che ha chiesto a Gesù chi era il suo prossimo, ottenendo il racconto della parabola del buon samaritano. Alla fine Gesù ribalta la prospettiva e invita a farsi prossimo. Solo una Chiesa povera si mette al servizio dei poveri. Solo persone che si fanno povere sanno condividere e accogliere. Natale è Cristo che si fa povero per arricchirci della sua povertà, come ci ricorda san Paolo (2 Cor 8,9).
Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono “le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire, di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra. In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri, questa partenza ha un nome solo: sopravvivenza”. Le parole di papa Francesco, nella messa della notte di Natale dello scorso anno, continuano a riecheggiare, ma sembrano trovare orecchie e cuori sempre più chiusi…
Ogni partenza è un vivere «tra», «in mezzo»: tra un luogo di provenienza e una promessa carica di speranza. Abitare questa condizione non è facile per nessuno. Vuol dire dipendere dagli altri e quindi mostrarsi vulnerabili. Maria e Giuseppe in viaggio ci ricordano le attese di un’umanità che chiede ospitalità ma che insieme sa essere ospitale. Purtroppo guardiamo al tema migratorio sotto un falso piano: noi sul piedistallo a decidere se accogliere o meno. Le relazioni, invece, sono sempre occasione di reciprocità: siamo ospitali e insieme anche ospitati. Questo è il nostro rapporto con la terra e il senso dell’abitare il mondo. I cuori chiusi si fermano alla prima parte, a quello che costa l’ospitalità in termini di occupazione di suolo. Non camminano verso l’altra sponda del fiume, dove è possibile sentirsi ospitato. Da qui nascono molte incomprensioni, a causa delle terribili ideologie che chiudono l’animo alla presenza del fratello.
“Voi sapete che questa Parola ha cancellato le frontiere, anche se qualcuno le rafforza. Voi sapete che questa Parola ha cancellato le differenze di razza e di religione, anche se qualcuno oggi stesso le ricorda e le fa diventare un limite di questa capacità di amare che Gesù ha voluto ravvivare nel cuore come un fuoco, nel cuore di ognuno di noi”. Nonostante i tempi difficili che stiamo vivendo, questo messaggio (di più di 60 anni fa) di don Primo Mazzolari viene a ricordarci che c’è ancora spazio per la speranza?
Sicuramente sì. C’è spazio per la speranza perché quando si fa esperienza di un Dio che condivide e si avvicina nella forma disarmante del bambino, non c’è che da lasciarsi conquistare da un amore che rigenera. Mazzolari coglie nel segno quando afferma che una Parola che non ha frontiere cancella le differenze di razza e di religione… Già la parola umana è un ponte tra persone, figuriamoci quella divina. Eppure innalziamo muri e barriere, forse perché alla parola abbiamo sostituito la chiacchiera. Un insieme di suoni a difesa e non significati che legano. Gesù Cristo, il Verbo di Dio, tiene insieme umano e divino, piccolo e grande, povertà e ricchezza. È Parola che risana le ferite e rende ridicoli i deliri di onnipotenza. E pensare che siamo riusciti persino a usare il presepe come clava per tenere a distanza… La natività ci insegni la bellezza di presenze disarmanti.