Roma – Pubblichiamo integralmente il testo del card. Gualtiero Bassetti, presidente della CEI, pronunciato in conclusione dei lavori della presentazione del rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes questa mattina a Roma
È possibile, di fronte a un tema così vasto, quale è quello delle migrazioni oggi, davanti alla complessità delle cose ascoltate questa mattina, poter fare una conclusione?
Credo proprio di no, ma è importante comunque lasciarci con alcuni buoni propositi da mettere in pratica tornando nei nostri luoghi di lavoro, ma anche nei nostri luoghi di vita in generale (le nostre case, i nostri quartieri, la parrocchia, ecc.) perché la migrazione e i migranti, fanno parte della nostra quotidianità di cittadini, di famiglie, di popolo di un Paese che vive da sempre la mobilità (verso l’estero, dal Sud al Nord, tra le regioni, e così via) come parte integrante del suo vissuto.
E allora più che concludere vorrei dare delle indicazioni operative, concentrare cioè l’attenzione di noi tutti alle tradizionali proposte che la Fondazione Migrantes, attraverso questo strumento culturale della Chiesa italiana, ci affida ogni anno con questo voluminoso studio.
Bisogna riflettere sul fatto che non vi è una materia umana così cangiante come la mobilità, per lo studio della quale occorre un costante aggiornamento e rinnovamento degli approcci di studio e delle metodologie usate.
È per questo che la Conferenza Episcopale Italiana si è dotata di “braccia operative” come la Fondazione Migrantes. Per studiare i fenomeni sociali e intervenire a favore di essi. In questo caso specifico si parla dei migranti, di tutti i migranti del mondo anche se oggi sotto i riflettori ci sono gli italiani con questo studio.
E ogni anno resto io stesso stupito dalle informazioni che ci arrivano da questi ricercatori. Pensiamo a 64 “teste diverse” che si sono messe insieme da ogni parte del mondo per realizzare 500 pagine, che oggi abbiamo il piacere di stringere tra le mani, in cui ci viene descritta quella che è oggi l’emigrazione italiana e ci si danno, tra le righe, anche le tracce per risolvere le sue problematicità.
Da più tempo e da più parti si sono levate le richieste dell’insegnamento dell’emigrazione italiana come materia di studio. Vi sono state in questi anni diverse proposte di legge a tale riguardo. Un tale insegnamento, al pari dei corsi di lingua italiana all’estero, completano quel processo virtuoso di valorizzazione e mantenimento delle radici linguistiche e culturali e dei legami con l’Italia da parte di chi risiede fuori dei confini nazionali e, allo stesso tempo, di attrazione di flussi migratori, da parte del Belpaese e perfezionano la formazione delle nuove generazioni proiettandole verso l’interculturalità e la contemporaneità.
Accanto alla consapevolezza della propria cultura di origine, c’è un altro elemento che oggi svolge una funzione sociale di grande importanza: la necessità del migrante di costruire una relazione con l’altro. Il bisogno, cioè, di essere riconosciuto e di poter avere la possibilità di contribuire allo sviluppo di quel territorio e di quella comunità che con carità e responsabilità lo accoglie. Il riconoscimento porta all’ammissione della differenza, all’individuazione degli specifici caratteri identificativi che, nel caso dei migranti, significano un tale mondo di sfaccettature che è difficile partire da categorizzazioni a priori. Solitamente, però, oggi la mobilità in uscita dalla Penisola si lega a immagini positive, mentre i caratteri negativi li si associano a chi arriva sulle nostre coste. Eppure non si deve dimenticare che la migrazione porta con sé delle difficoltà e queste ultime, nel caso specifico degli italiani nel mondo, sono molteplici e di diversa natura.
Migrare significa, ad esempio, allontanarsi umanamente da ciò che è certo per conoscere l’ignoto e questo potrebbe portare a casi di perdita dell’orientamento nel percorso che ci si è dati.
Il malessere della generazione neo-mobile si tramuta in varie, e diverse per gravità, forme depressive: malinconie, perdite senza rimpianti, amori non corrisposti, separazioni, delusioni o fallimenti, ma anche in successi inaspettati e le scelte difficili possono tramutarsi alcune volte in disperazione.
E quando lo spaesamento metropolitano e la sofferenza urbana non vengono riconosciuti e “accolti” si passa a patologie ben più gravi come lo stato di povertà, la perdita dell’autonomia e dell’equilibrio nella propria vita fino alla vita in strada.
E anche di questo si parla nel testo con mio grande favore perché la migrazione, per tutti, è gioia e dolore, è vittoria ed è fallimento. E noi lo sappiamo bene da sacerdoti in primis quando raccogliamo gli sfoghi di chi vive situazioni difficili se non proprio tragiche. Ben vengano allora gli approfondimenti sugli italiani illegali in Australia, quelli che vivono in strada a Londra.
Il riconoscimento della cittadinanza è un tema caldo oggi. Questo Rapporto sottolinea l’importanza di un riconoscimento che non sia finalizzato all’uso e al consumo personale del possesso di un passaporto che apra le porte dell’Europa – anche se le vicende di Paesi che si trovano in situazioni gravi a livello politico ed economico come il Venezuela meritano attenzione costante e soprattutto lavoro per rispondere alle esigenze della comunità lì residente – ma all’esaltazione di una identità fortemente legata a un territorio in cui non solo ci si riconosce, nonostante non ci si è nati ma lo si conosce attraverso i racconti dei propri genitori o nonni e in cui si vorrebbe dare il proprio contributo concreto.
Le famiglie. Dall’Italia si parte dalla notte dei tempi verso qualsiasi destinazione più o meno lontana, all’interno dei confini della Penisola (migrazione interna) o verso l’estero. E, come spiega anche il Rapporto della società geografica italiana, si parte persino dal “ricco” Nord: dalla Lombardia come dal Veneto. Da sempre, quindi, le famiglie italiane hanno fatto i conti con esperienze di distacco e lontananza, sconvolgendo equilibri di vita e legami sentimentali. Anche nell’attuale fase migratoria in cui le abitudini globali rendono più veloci e liquidi gli spostamenti e le permanenze, i rapporti affettivi vengono messi a dura prova.
La famiglia, però, ha regole tutte sue dettate dall’affetto e dall’amore che poco hanno a che fare con la burocrazia e così molte famiglie, dopo aver vissuto e sofferto a lungo la distanza, fanno in modo di crearsi un futuro che risponda a un’unica esigenza: insieme in qualsiasi luogo. Da qui le tante partenze di nuclei familiari giovani con minori al seguito a cui ora si stanno aggiungendo, o ricongiungendo, nonni che non ci stanno a non vedere crescere i loro nipoti.
Quindi, ancora più fondamentale diventa il ruolo di accoglienza e accompagnamento delle strutture esistenti nei luoghi di destinazione sia a livello istituzionale che privato. Consolati, patronati, associazioni e le stesse Missioni cattoliche italiane sono oggi chiamate a rinnovarsi e svecchiarsi mantenendo però la “vecchia identità” per le storiche comunità presenti e acquisendo nuove competenze e nuove caratteristiche per rispondere pienamente alle esigenze di accoglienza e accompagnamento dei nuovi migranti stabilmente in movimento.
E di una “famiglia qualunque”, ma divenuta importante e al centro dell’attenzione del mondo, si parla in particolare nelle pagine del Rapporto Italiani nel Mondo 2018. Quella di Papa Francesco. E lo si fa in un modo che a me ha colpito molto. Attraverso, cioè, una lettera datata 23 marzo 1929 con la quale la Empresa de Pavimentos y Construcciones “Juan L. Bergoglio y Hnos.” della città di Buenos Aires (con sede in Calle 25 de Mayo 67) si rivolge al podestà del comune di Pola, in Istria, per interessarlo sulla possibilità di ingaggiare manodopera specializzata da impiegare nelle cave di granito che la ditta possiede nel Sud del Brasile.
L’azienda Bergoglio apparteneva a Juan [Giovanni] Lorenzo Bergoglio, fratello di Giovanni Angelo, nonno dell’attuale pontefice Jorge Mario Bergoglio. I nonni paterni di Jorge Mario Bergoglio raggiungono l’Argentina nel gennaio 1929. Papa Francesco ricorda, in un libro dove racconta di sé, la presenza oltreoceano della sua famiglia: «Tre fratelli di mio nonno si trovavano già qui [in Argentina] dal 1922 e avevano fondato un’impresa che realizzava pavimenti a Paraná. […] l’impresa gli andava bene. [I nonni] Vennero per aggiungersi a questa impresa.[…] Papà era figlio unico e iniziò a lavorarvi come contabile, muovendosi a Paraná, Santa Fe e Buenos Aires». In poco tempo, tuttavia, la situazione dell’azienda precipitò: «Venne la recessione economica. Il Presidente dell’azienda, fratello di mio nonno (si chiamava Juan – come mio nonno – ma il secondo nome era Lorenzo) si ammala di leucemia e linfosarcoma […] Le due cose – la recessione e la morte di Juan Lorenzo – rovinarono l’impresa. Dovettero vendere tutto, persino la loro Cappella del Cimitero (ancora esiste a Paranà il “Palazzo Bergoglio” di 4 piani, dove vivevano i quattro fratelli), e i miei nonni e papà restarono senza nulla». Il racconto di papa Francesco richiama anche il legame con il Brasile dei fratelli Bergoglio: nei primissimi anni Trenta «uno dei miei prozii, il presidente della ditta, era già morto di cancro, un altro ricominciò da capo con buoni risultati, il più giovane emigrò in Brasile, mentre mio nonno, con duemila pesos presi a prestito, comprò un negozio. Mio padre, che era contabile e che nella vecchia ditta lavorava come amministratore, divenne suo aiutante, facendo la consegna delle merci con una cesta, finché non riuscì a trovare un posto in un’altra ditta. Ripartirono da capo con la stessa naturalezza con cui avevano cominciato al loro arrivo».
Questa storia ha un grande insegnamento: bisogna immedesimarsi in ciò che significa vivere la migrazione per poter “mettersi in viaggio in modo includente”. Lo scrivevo di recente per un libro dove ho anche espresso un concetto molto vicino a quanto leggo tra le proposte della Migrantes per il 2018. Mi riferisco, al “diritto al viaggio come diritto all’esistenza”. Come Conferenza Episcopale Italiana abbiamo promosso la campagna “Liberi di partire, liberi di restare”, perché la libertà di andare non nega quella di rimanere o di tornare e ricominciare. Viaggiare è un diritto all’interno del quale ne vive uno più grande, il diritto all’esistenza.
Un’esistenza, però, non rassegnata, non di accomodamento, ma realizzando sogni, ricercando ciò che mi fa stare bene, la felicità. “È diritto alla vita che cresce sotto il medesimo cielo e l’unico sole per ogni persona, soprattutto per i bambini e le generazioni emergenti in questo spaccato storico. Quando affermo “è un mio diritto” forse mi può far bene pronunciare tale frase non davanti ad uno specchio, o nel riflesso del mio smartphone, ma guardando il volto di una persona davanti a me. Perché il volto è un viaggio, costringe a camminare, mangiare, gioire e soffrire insieme prima ancora che ragionare”.