Gli occhi di Josephine: un tatuaggio dell’animo

di Cristiana Dobner

Roma – Estate, tempo di vacanza, di relax, di centri benessere…di giusto e meritato riposo per chi lavora e ha bisogno di uno stacco per ritemprare le forze e ritrovare se stesso.

Come ritrovare se stesso quando il se stesso è stato deturpato? Smarrito, si spera e non perduto. Si chiami egoità, ipseità, la realtà tangibile rimane la stessa e identica: preme soltanto il proprio io e tutto vi deve essere centrato, convogliato per essere incorporato, fagocitando tutto quanto si trova sul proprio cammino.

Gli occhi sbarrati, immersi nel terrore dell’impotenza e dell’abbandono di Josephine dovrebbero rimanere in noi tanto da essere un tatuaggio dell’animo. Indelebile, impossibile da cancellarsi anche con il laser più potente ed affidabile.

Passiamo in rassegna il nostro dire: dalla filosofia ai social, passando, purtroppo anche per la teologia, per la ricerca di Dio o di un dio, cioè per la risposta al nostro vivere e al nostro dirci persone umane.

Regge ancora la costruzione pseudo intellettuale o addirittura spirituale?

Troppo facile è accusare la politica. Politica di chi, di quale Stato?

L’accusa è sterile e diventa solo polemica.

L’interrogativo deve dimostrarsi tagliente, saper penetrare nel grasso che offusca la nostra mente e la nostra psiche. Non intendo limitarmi alla concezione cristiana che accoglie il Misericordioso che si rivela e offre il suo amore, apro a chiunque guardando dentro di sé scopra una Presenza.

Se mi ritengo persona umana dinanzi allo sguardo di Josephine, posso ancora dormire nel mio letto, sfamarmi, godermi relazioni di amicizia e pensare alle vacanze?

Non scardina ogni carapace di autodifesa?

Non mette a nudo chi siamo?

Persone che persone osano dirsi tali? Ancora osiamo?

Dovremmo lasciarci invadere da quanto rimuoviamo: la vergogna che vorrebbe emergere, se solo glielo consentissimo.

Mi pare di ritrovare in me il nazista che, belva, operava nel campo di concentramento e alla sera suonava Bach, giocava con i propri figli al margine della recinzione e si dilettava a cena con amici scelti. Servito a tavola dai deportati. Una schizofrenia pericolosa che avvelena l’esistenza e che, per essere risanata, deve venire allo scoperto.

Io, proprio io, dove mi trovavo quando Josephine restava in balia del mare per quarant’otto ore? Come ho potuto lasciarla affidata ad un pezzo di legno? Dove si trova la mia mano?

Lo sconcerto è doloroso e lo voglio evitare. La mia responsabilità, quella affidata a ciascuno di noi, umani, perché tali possiamo dirci, non si è sgretolata? Non deve essere ricostruita? Non nella protesta che indice marce che poi si concludono con vane parole e distruzioni di quanto la circondano.

Ben altrove.

Nel mutamento dello sguardo.

Potrebbe innestarsi solo se ci lasciamo penetrare da quegli occhi e rimaniamo senza parole. Allora la Parola in noi potrebbe agire, ci ritroveremmo.

Il grande dolore, la grande perdita – Josephine potrà ancora credere in noi? – potranno diventare balsamo che cura.

Tatuaggio indelebile, che vivente diventa forza per agire, per cambiare, per ricostruire quanto perduto e che potrebbe diventare ancora un anello di autentica umanità da consegnare ai nostri figli, ai nostri giovani, non in termini di carriera, di denaro, ma di uno sguardo che sa affrontare l’abbandono che straripa e lo accoglie facendolo proprio.

Lasciar cadere nell’oblio, nella consuetudine della nostra società dell’immagine che passa e poi lascia il posto ad un’altra immagine, possibilmente più accattivante e tranquillizzante, è una tentazione sempre presente. La psicologia insegna che il rimosso, in altra veste, ricompare e diventa ben difficile da individuare nella sua causa.

Accettiamo la sconfitta per la nostra umanità, lasciamoci giocare non dall’emotività ma dalla forza che ci insegna a vivere.

Il tatuaggio di quello sguardo attiri su di noi lo sguardo del Creatore e muti, in profondità, il nostro essere.