Milano – C’ è un altro fronte aperto in Siria, quello della lotta per la sopravvivenza di centinaia di migliaia di persone fuggite da Afrin, l’ enclave curda nel Nord del Paese conquistata il 20 marzo scorso dalle truppe di Erdogan, impegnate nell’ operazione militare contro il Partito dell’ unione de- mocratica curdo (Pyd) e l’ Unità di protezione popolare ( Ypg). In soli due mesi, secondo quanto rileva l’ ultimo rapporto della Mezzaluna Rossa curda, l’ esercito di disperati alla ricerca di un rifugio nei campi allestiti ad al-Shahbaa, Nabal, Zahraa e Shirewa nelle vicinanze di Aleppo è salito a 177mila, quarantamila in più dall’ inizio dell’ esodo. Vivono in condizioni di vita proibitive, trovandosi a fronteggiare un nemico tanto insidioso quanto la guerra da cui scappano: la fame, le epidemie, l’ acqua contaminata degli unici due pozzi pubblici di Kafr Nisih e Tall Rifat, situati nell’ area di al-Shahbaa, che arrivano a servire appena il 30 per cento della popolazione. L’ acqua non potabile è la principale fonte di inquinamento, malattie e infezioni, soprattutto per i bambini che muoiono per disidratazione e per carenza di assistenza medica. Cresce anche, stando al “report” della Mezzaluna rossa, il bilancio delle vittime delle mine antiuomo, posizionate dalle milizie del Daesh nel terreno e negli edifici, con trenta casi accertati di mutilazioni e morti, in particolare fra i più piccoli. Le 1.047 tende allestite con grandi difficoltà dalla Mezzaluna rossa riescono a contenere soltanto 4.753 sfollati, tutti gli altri trovano riparo in scuole, moschee e nelle abitazioni distrutte dai jihadisti che fino all’ agosto del 2017 occupavano quella provincia. Nei villaggi, disabitati per diversi anni e ora aperti ai cittadini di Afrin, è emergenza sanitaria: rettili, roditori e cadaveri sepolti sotto le macerie e non ancora recuperati costituiscono un grave rischio per la salute e poco o nulla possono fare le organizzazioni umanitarie, sia a causa delle difficoltà a raggiungere quei luoghi sia per la carenza di mezzi. «L’ assenza di un ospedale da campo attrezzato di sala operatoria, terapia intensiva e camere per i bambini – scrive da al-Shahbaa l’ organizzazione umanitaria – non ci consente di occuparci di casi che richiedono interventi chirurgici e di poter salvare vite umane. Sono almeno 230 pazienti che necessitano di un trattamento negli ospedali di Aleppo, ma solo in ventinove sono stati ricoverati». Lì si muore ancor prima di nascere. Le poche cliniche mobili sono sprovviste di sale operatorie e l’ esiguo numero di personale medico presente, con soli quindici specialisti, non può ricorrere al parto cesareo e difendere la vita della mamma e del nascituro. E così due bambine sono morte dopo aver visto la luce. E non poche preoccupazioni desta pure il diffondersi della leishmaniosi, la malattia infettiva e contagiosa causata dalla puntura di piccoli parassiti, con 1.700 casi registrati. La macchina della solidarietà si è attivata e dall’ Italia sono giunti aiuti da privati e associazioni per 30mila euro, ma per i sopravvissuti di Afrin serve ancora altro. (M.Pupella – Avvenire)