Agnone, ritorno al lager: “qui diventammo zingari”

Agnone – Oggi l’ex convento di San Bernardino è un istituto per anziani alle porte di Agnone, la città della provincia d’Isernia nota per la produzione di campane. Dal 1940 al 1943 qui erano imprigionati rom, sinti, ebrei e cittadini di nazioni in guerra con l’Italia. L’ex convento, che la diocesi usava per la villeggiatura del vescovo di Trivento, divenne luogo di internamento il 14 luglio 1940 e un anno dopo ‘campo di concentramento per zingari’ (questa la dicitura del Ministero dell’Interno) con una capienza di 150 detenuti.

Romolo Ferrara di Agnone, 96 anni, ricorda quei giorni in cui anche il regime italiano contribuì alla persecuzione di rom e sinti: «Ero nei pressi dei binari quando vidi arrivare un vagone carico di persone che furono fatte scendere, incolonnate e guidate fino alla detenzione». Ieri una delegazione di 60 rom e sinti ha percorso lo stesso tragitto, dalla stazione all’ex convento, intonando l’inno Djelem Djelem. L’iniziativa – la prima di tale rilevanza in Italia – è merito dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar) della Presidenza del Consiglio.

Spiega il direttore Luigi Manconi: «Aver cancellato questo sterminio nazifascista ha consentito a tanti di disprezzare e discriminare nei decenni successivi. Dobbiamo invece approfondire le responsabilità italiane, le sofferenze e la dignità delle vittime». In Europa si pensa che i morti delle nazioni gitane siano stati mezzo milione, e probabilmente è una sottostima perché risulta impossibile conteggiare individui non segnalati all’anagrafe e spesso uccisi per strada o nelle esecuzioni sommarie nei Paesi dell’Est. Senza contare disinteresse e oblio: subito dopo la guerra, infatti, su questo genocidio (che le vittime definiscono Porrajmos, «grande divoramento», o Samudaripen, «tutti morti») calò il silenzio.

All’ingresso dell’ex convento, ai piedi della targa posta solo nel 2013 e davanti agli studenti della città, si sono alternati i rappresentanti rom e sinti giunti da tutt’Italia. Fiorello Miguel Lebbiati rammenta il motivo per cui la commemorazione si è svolta proprio il 16 maggio: «È la data in cui, nel 1944, ci fu il più importante tentativo di resistenza in un lager, la rivolta dello Zigeunerlager». Era la sezione di Auschwitz per famiglie zingare, dove fu deportata anche la zia di Giorgio Bezzecchi. Lui, commosso, la ricorda: «Fu internata a Tossicia, un altro dei campi dimenticati, e poi deportata a Birkenau; subì gli esperimenti che il dottor Mengele effettuava sui bambini». Dijana Pavlovic sottolinea «l’importanza di trasmettere il filo della memoria ai più giovani»; Santino Spinelli legge una poesia che ha composto e che è incisa a Berlino sul monumento che ricorda il Porrajmos. E ancora parlano Ernesto Grandini, Toni Deragna e Concetta Sarachella: cognomi italiani, come circa la metà dei rom e sinti che vivono in Italia.

Dopo la guerra San Bernardino fu adibito a convitto per studenti e, dal 1970, a casa di riposo. Lo svelamento della memoria rimossa si deve al liceo della città e allo storico Luca Bravi. Grazie a loro nel 2005 tornò ad Agnone Milka Emilia Goman, che in quel luogo aveva subìto l’internamento: solo lei poteva riprendere un racconto che per la comunità locale si era chiuso nel 1943, quando il Sud fu liberato dalla dittatura fascista. E infatti riconobbe le stanze, le finestre sbarrate e riaffiorarono i ricordi del marito e dei compagni di prigionia. «Milka è morta l’anno scorso a 96 anni, anche per questo da Firenze sono venuta fino a qui», ha spiegato la figlia Milena, che insieme ad altri parenti fa parte della delegazione invitata dall’Unar. «Nonostante la tragicità del ricordo – conclude il direttore Manconi – oggi è una bella giornata perché vuole promuovere la rielaborazione culturale che è mancata attorno a questa pagina di storia italiana. Quanto è successo ad Agnone è il sintomo più evidente di una condizione duratura: coloro che individuiamo come ‘gli zingari’ non sono percepiti come parte di una storia comune, tanto meno se quella parte di storia di cui sono protagonisti li mette non dalla parte dei colpevoli, ma dalla quella delle vittime».(Stefano Pasta – Avvenire)