di mons. Marcello Semeraro
Roma – Il senso della vista rimanda a una categoria preferita da Francesco, molto ripetuta ma forse in forma riduttiva. Si tratta delle periferie. L’udito “parla” dello stile di governo di Bergoglio: la sinodalità. Il gusto è il dono della gioia che si deposita nel nostro cuore quando accogliamo il suo Evangelo (Evangelii gaudium). L’odorato è in grado d’introdurre nel profondo della relazione, nell’intimità (“pastori con l’odore delle pecore”). Il tatto dev’essere letto in sfondo antropologico e spirituale. Francesco comincia a parlarne in senso cristologico (“toccare la carne di Cristo”), ma giunge poi alla carità verso il prossimo. Ecco, dunque, i cinque sensi spirituali che permettono alla Chiesa di essere una Chiesa dai “sani sensi” e, pure, una Chiesa da gustare!
“I sensi ci aiutano a cogliere il reale e ugualmente a collocarci nel reale. Non a caso Sant’Ignazio di Loyola ha fatto ricorso ai sensi nella contemplazione dei Misteri di Cristo e della verità”. Colgo quest’espressione, pronunciata da Francesco nel suo discorso alla Curia romana il 21 dicembre 2017, per ripercorrere velocemente il tempo del suo ministero sulla Cattedra di Pietro nei cinque anni trascorsi sino ad oggi dalla sera di quel 13 marzo, quando fu annunciata urbi et orbi la sua elezione. Il Papa non faceva, ovviamente, una lezione di filosofia; intendeva, però, mettere in evidenza quanto stava esponendo circa il dovere nella Curia di curare la sua estroversione, ossia il suo rapporto “col mondo esterno”. Questo, con due riferimenti. Il primo al sapere comune, ricordato dal plurisecolare assioma che la nostra conoscenza trae inizio dai sensi: san Tommaso lo citava nel suo De veritate e anche san Bonaventura affermava che i sensi ci permettono di sperimentare direttamente la realtà, nell’immediatezza del suo qui e ora (In III Sent.). L’altro rimando era alla sua personale formazione spirituale e lo comunicava così: “non a caso Sant’Ignazio di Loyola ha fatto ricorso ai sensi nella contemplazione dei Misteri di Cristo e della verità”.
I sensi, dunque, a cominciare da quelli esterni, che rendono l’uomo capace di sentire la realtà; aggiungendo subito, però, il richiamo alla dottrina cattolica sui sensi spirituali, per la quale Ignazio di Loyola è fra i grandi maestri. Chi legge, infatti, gli Esercizi s’imbatte subito in quest’affermazione: “Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente” (2, 4). Questa teologia ha un illustre esponente in J.-J. Surin. Essa, però, è molto antica. Già Origene illustrava le potenzialità spirituali dei sensi scrivendo che la vista può fissare le realtà superiori; l’udito percepisce suoni che non si trovano realmente nell’aria; il gusto ci fa assaporare il pane vivo disceso dal cielo e l’odorato avvertire i profumi che sono, secondo san Paolo, il buon odore di Cristo; c’è infine il tatto, grazie al quale Giovanni afferma di aver toccato con le mani il Verbo della vita (cfr. Contro Celso 1, 48). Nell’area culturale latina sant’Agostino dirà: “Nessuna meraviglia che alla scienza ineffabile di Dio che tutto conosce, vengano applicati i nomi di tutti questi sensi corporali, secondo le diverse espressioni del linguaggio umano; lo stesso nostro spirito, cioè l’uomo interiore, – al quale, senza che l’uniformità del suo conoscere venga compromessa, giungono i diversi messaggi attraverso i cinque sensi del corpo, – quando intende, sceglie e ama la verità immutabile, vede quella luce a proposito della quale l’evangelista dice: Era la luce vera; e ascolta la Parola di cui l’evangelista dice: In principio era il Verbo (Gv 1, 9 1); e aspira il profumo di cui vien detto: Correremo dietro l’odore dei tuoi profumi (Ct 1, 3); e gusta la fonte di cui si dice: Presso di te è la fonte della vita (Sal 35, 10); e gode al tatto di cui vien detto: Per me il mio bene è lo starmene vicino a Dio (Sal 72, 28). E così non si tratta di un senso o di un altro, ma è una medesima intelligenza che prende nome dai vari sensi” (Comm. al vangelo di Giovanni 99, 4).
Cominciamo, allora, col senso della vista, ch’è generalmente menzionato per primo. Nel linguaggio di Francesco molto ricorrente è la parola “sguardo” e questo ha, fra l’altro, un’eco molto personale. Si rilegga, ad esempio, l’omelia in Santa Marta del 21 settembre 2013 (festa liturgica di san Matteo, che per il Papa ha una risonanza speciale perché rimanda alla scelta di vita) in cui parla dello sguardo di Gesù, che cambia la vita, porta a crescere e dà dignità. Qui vorrei, però, applicare il senso della vista ad una categoria preferita da Francesco, molto ripetuta ma forse in forma riduttiva. Si tratta delle periferie. Quando, una volta, gli domandai cosa precisamente intendesse con quel termine, Francesco mi rispose senza indugio: “È un principio ermeneutico; un modo di guardare la realtà”; e me lo spiegò raccontandomi che quando, giunto alla fine del continente americano, Magellano guardò all’Europa, si rese conto ch’era ben altra cosa rispetto a quella vista dal centro di Madrid! Bergoglio parlò di “periferie” già il 26 maggio 2013, nel corso della sua prima visita pastorale ad una parrocchia romana. Rispondendo al saluto del parroco disse: “Mi piace quello che hai detto, che periferia ha un senso negativo, ma anche un senso positivo. Tu sai perché? Perché la realtà insieme si capisce meglio non dal centro, ma dalle periferie. Si capisce meglio”. Periferie, dunque, è un modo di guardare al mondo e, per la Chiesa, è un modo di essere nel mondo contemporaneo (cfr. Gaudium et spes 1).
Quanto all’udito è davvero il caso di estrarre un passo da quello ch’è uno dei discorsi più rilevanti di Francesco, almeno per la comprensione del suo stile di governo, ossia la sinodalità. Mi riferisco a quello del 17 ottobre 2015 dove, commemorando il 50mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, disse: “Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2, 7)”. C’è del provocatorio – a me pare – in quest’affermazione, specialmente per quanti ritengono che la prima cosa debba essere l’aver voce: la propria, ovviamente! L’ascolto, però, è proprio il primo atteggiamento, che il Concilio ha insegnato in Dei Verbum: per ascoltare la Parola di Dio, almeno. A proposito di sinodalità, una volta il Papa ha detto: “Quando uno ha paura di ascoltare, non ha lo Spirito nel suo cuore” (Omelia in Santa Marta del 28 aprile 2016). E soprattutto è importante “ascoltare con umiltà”. L’ascolto reciproco di cui parla Francesco ha senza dubbio il suo riferimento primario a quanto lo Spirito dice alle Chiese; ma è pure un richiamo a quel discernimento che tanto gli sta a cuore sì da fargli dire che oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nella capacità di discernimento spirituale (30 luglio 2016, ad alcuni gesuiti polacchi).
Soffermiamoci ora sul gusto. “Gustate e vedete com’è buono il Signore”, canta un salmo (34, 9) e, commentava sant’Agostino, si rallegrino tutti coloro che assaporano la sua dolcezza (cfr. Enarr. in Ps 5, 15-16). Lo scorso martedì 27 febbraio, mentre concelebravo la Santa Messa essendo in corso la sessione del Consiglio di Cardinali, il mio pensiero è andato subito al senso spirituale del gusto quando ho sentito Francesco che commentando la pagina del Vangelo spiegava come Gesù fa appello alla nostra conversione: “Il Signore in questo brano ci chiama così: “Su, venite. Prendiamo un caffè insieme. Parliamo, discutiamo. Non avere paura, non voglio bastonarti” … Ehi tu, Zaccheo, scendi! Scendi, vieni con me, andiamo a pranzo insieme!”. Il gusto del Signore è il dono della gioia che si deposita nel nostro cuore quando accogliamo il suo Evangelo. Conosciamo le parole che intonano l’esortazione Evangelii gaudium: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”. La gioia di cui qui si parla è un sentimento e questo non è poco davvero; è, tuttavia, anche di più perché è dono dello Spirito; è segno dell’accoglienza di Gesù e del suo Evangelo: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11). Una volta il Papa ha aggiunto che “la gioia è il segno del cristiano: un cristiano senza gioia o non è cristiano o è ammalato … un cristiano senza gioia non è cristiano” (Omelia in Santa Marta del 22 maggio 2014). In una precedente omelia feriale (10 maggio 2013) aveva parlato della gioia come di “una virtù pellegrina. È un dono che cammina, che cammina sulla strada della vita, cammina con Gesù: predicare, annunziare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada…”. Parlò pure dei “cristiani malinconici che hanno più faccia da peperoncini all’aceto”: un’espressione altre volte ripetuta (cfr. l’Udienza del 23 agosto 2017: “Io sono una persona di primavera o di autunno?”. Di primavera, che aspetta il fiore, che aspetta il frutto, che aspetta il sole che è Gesù, o di autunno, che è sempre con la faccia guardando in basso, amareggiato e, come a volte ho detto, con la faccia dei peperoncini all’aceto”). L’immagine è sì legata al senso del gusto, ma è poco gustosa! Il contrario è per Amoris laetitia, dove il richiamo al senso del gusto è davvero positivo: “Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: ‘Come delizierai gli angeli!’. È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda sé stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui” (n. 129). Ho prima citato due costituzioni conciliari. Perché non aggiungere a questo punto un richiamo a quella sulla Sacra Liturgia? È questa, difatti, il luogo privilegiato dove il cristiano apprende e vive il gusto di Dio e della fraternità: “Com’è dolce che i fratelli vivano insieme”, canta il Salmo (133, 1).
L’odorato è il quarto dei sensi esterni. È anch’esso importante, perché in grado di comunicarci ciò che altri sensi non riescono: non tocca e non vede, non ascolta né gusta, ma avverte, riconosce e riesce a distinguere ciò ch’è impersonale, da quanto invece è personalissimo e unico. L’odorato è in grado d’introdurre nel profondo della relazione, nell’intimità. Il Papa richiamò questo senso nell’omelia della prima Messa crismale presieduta in San Pietro, il 28 marzo 2013. Parlava ai sacerdoti e chiese loro di essere “pastori con ‘l’odore delle pecore’”. L’interpretazione l’ha data lo stesso Francesco poche settimane dopo, incontrando i nuovi vescovi al termine di un periodo di formazione il 19 settembre 2013. Ecco qualche passaggio del discorso: “Nell’omelia della Messa Crismale di quest’anno dicevo che i Pastori devono avere ‘l’odore delle pecore’. Siate Pastori con l’odore delle pecore, presenti in mezzo al vostro popolo come Gesù Buon Pastore. La vostra presenza non è secondaria, è indispensabile. La presenza! La chiede il popolo stesso, che vuole vedere il proprio Vescovo camminare con lui, essere vicino a lui. Ne ha bisogno per vivere e per respirare! […] Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade”. L’olfatto, il fiuto di cui parlava il Papa, dunque, è il sensus fidei di cui si legge nella costituzione dogmatica sulla Chiesa del Vaticano II (cfr. Lumen gentium n. 12). Ancora una costituzione conciliare! Qui, poi, non si tratta semplicemente di richiamare la dottrina cattolica su un tema fondamentale del Concilio, ma pure il disegno di un modello per i rapporti fra fedeli e sacri pastori. In altri termini, è ancora di sinodalità che si parla. Così, difatti, il Papa, nel discorso già citato del 17 ottobre 2015: “Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium ho sottolineato come ‘il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile in credendo’”, aggiungendo che “ciascun Battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del Popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni”. Il sensus fidei impedisce di separare rigidamente tra Ecclesia docens ed Ecclesia discens, giacché anche il Gregge possiede un proprio ‘fiuto’ per discernere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa”.
Nell’elenco dei sensi esterni il tatto lo si menziona in genere come ultimo; san Tommaso, però, l’indicava come primo fra tutti e annotava che, per quanto fra gli altri sia il più carnale, proprio il tatto è stato da Cristo indicato come il senso che meglio degli altri avrebbe offerto all’apostolo incredulo la certezza sulla verità della Risurrezione (cfr. Super Sent. III; Gv 20, 27). Per san Bonaventura, poi, il tatto è fra tutti i sensi quello che più tiene insieme: realizza al massimo, infatti, il contatto fra due persone e così esprime la carità, che fra tutte le virtù teologali è la più unitiva. Quando si ama non ci s’accontenta di vedere e di guardare, ma si tende a toccare. A chi ama non basta udire, perché ogni voce è un appello a infrangere il muro della distanza, un’invocazione ad abbracciarsi. L’amore vuole sempre toccare. Ogni volto amato richiama una mano e ogni mano si tende verso il volto amato.
L’uso di Francesco del verbo toccare dev’essere letto anche in questo sfondo antropologico e di teologia spirituale. Egli comincia a parlarne in senso cristologico (“toccare la carne di Cristo”), ma giunge poi alla carità verso il prossimo. Se ne trova un esempio abbastanza completo in alcune espressioni durante la Veglia di Pentecoste del 18 maggio 2013. Riprese dalla viva voce, ci permettono d’intuire l’animo del Papa: “Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo, quelli che sono la carne di Cristo! Quando io vado a confessare – ancora non posso, perché per uscire a confessare… di qui non si può uscire, ma questo è un altro problema – quando io andavo a confessare nella diocesi precedente, venivano alcuni e sempre facevo questa domanda: “Ma, lei dà l’elemosina?” – “Sì, padre!”. “Ah, bene, bene”. E gliene facevo due in più: “Mi dica, quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui dà l’elemosina?” – “Ah, non so, non me ne sono accorto”. Seconda domanda: “E quando lei dà l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?”. Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua Incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo”.
Ecco, dunque, i cinque sensi spirituali che permettono alla Chiesa di essere una Chiesa dai “sani sensi” e, pure, una Chiesa da gustare! (* vescovo di Albano, segretario del C9 – SIR)