Torino: il quartiere che vuole i profughi

Torino – “Come cittadini vogliamo con forza affermare che la fine di questo esperimento sarebbe una incomprensibile sconfitta per tutti, non solo per gli ospiti, ma anche per i cittadini e per le istituzioni, perché l’accoglienza, seppur gestita da privati, è un progetto pubblico. Chiediamo quindi alle Istituzioni di attivare ogni mezzo per evitare questa sconfitta, in modo che i ragazzi possano continuare insieme, a Cavoretto, i percorsi intrapresi, potendo contare sul sostegno delle risorse del territorio”. Ha stupito non pochi a Torino la lettera inviata alla Prefettura (e per conoscenza anche alla sindaca Chiara Appendino) da parte di un gruppo di cittadini residenti nell’elegante quartiere pre-collinare di Cavoretto.

La protesta non è affatto contro l’accoglienza nella loro zona, ma, al contrario, contro la chiusura del centro che oggi ospita 33 ragazzi provenienti dall’Africa e dal Pakistan. Le due cooperative che gestiscono la struttura non hanno partecipato al bando prefettizio necessario per continuare l’attività e adesso si rischia di porre fine all’intero progetto. Sono una quarantina i firmatari della lettera e sono tutti ‘cittadini e volontari’ (ragazzi dell’oratorio, scout, studenti, signore e signori di ogni età), ma non si esclude che a breve, nel quartiere, inizi una ben più ampia raccolta firme per chiedere di continuare “questo progetto e modello collettivo, per evitare il disperdersi del patrimonio di esperienze accumulate”: “Il nostro – scrivono – si può ormai definire un modello per il legame che si è a poco a poco creato fra ospiti e cittadini, in un processo di fattiva integrazione, che ha consentito di mobilitare risorse e canali altrimenti impensabili. La ricaduta sul quartiere è stata sorprendente. Cavoretto, abbarbicato sulla collina, destinato a diventare un dormitorio, è stato vivificato dall’arrivo dei nuovi abitanti”. Nessuna lamentela per gli arrivi, quindi, che sono anzi considerati “nuova linfa” per l’intero quartiere. E così, mentre nella stessa città non sono pochi i comitati di cittadini che chiedono in ogni modo l’allontanamento dei profughi, a Cavoretto si respira un’aria ben diversa.

Spiega la volontaria Grazia Raffaelli: “Sono diverse le ragioni del successo del progetto. Innanzitutto, la scelta controcorrente (ma ragionevolissima) di istituire un centro di accoglienza in un quartiere mediamente non disagiato economicamente ha permesso, dopo i primi episodi di diffidenza, di smorzare le tensioni sociali fra gli ospiti e la popolazione che, in altre condizioni e a causa della crisi, sarebbero state di gran lunga più ostative”. Il progetto di accoglienza era poi basato sulla responsabilizzazione e cooperazione dei giovani ospitati, sull’attivazione di corsi per il conseguimento del titolo di studio e soprattutto sull’apertura al quartiere, con eventi concreti: “Appena sono arrivati gli ospiti abbiamo tenuto incontri per eliminare pregiudizi e disinformazione, e dopo abbiamo pensato a spettacoli teatrali, proiezioni di film e feste, che sono diventati l’appuntamento fisso del venerdì sera. I ragazzi, a loro volta, hanno seguito laboratori d’arte, di lettura, di cucina e di panificazione e hanno contribuito alla cura e alla manutenzione del quartiere”. Il centro potrebbe chiudere già a fine marzo e i ragazzi verrebbero smistati in altre strutture piemontesi, perdendo legami e rapporti. “Tre settimane fa – ricorda il parroco don Don Maurizio De Angeli – l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, in visita pastorale a Cavoretto, è entrato nel centro e ha conosciuto i ragazzi, ma nessuno sapeva che la struttura sarebbe stata dopo poco a rischio chiusura. Una situazione che ci addolora, perché la loro presenza ha favorito l’aggregazione del quartiere stesso. Quello che sarebbe potuto sembrare un problema è diventato presto una risorsa e ha coinvolto realtà diverse, ecclesiali e non. Speriamo che l’appello sia ascoltato e che qualcuno sia in grado di prendere in mano questa situazione. Ad oggi, però, tutti gli interrogativi restano senza risposta”. (Danilo Poggio – Avvenire)