Firenze – “Idy era una persona che viveva serena, tranquilla, con tutti i suoi amici e parenti. Lavorava per mandare soldi alla sua famiglia, in Senegal. Si prendeva cura della moglie e della figlia di Samb, il suo cugino ucciso nel 2011. Chiediamo solamente rispetto, chiediamo che la gente sappia che non veniamo qua per delinquere o per prendere ciò che non è nostro, veniamo solo a cercare un posto dove lavorare onestamente e mantenere la famiglia. Chi dice cose diverse istiga alla violenza, ci utilizza per fare propaganda politica. Dobbiamo tenerci la mano, siamo tutti uguali”. Alimarie è una giovane donna di origine senegalese, a Firenze da vent’anni: c’è anche lei al presidio organizzato sul ponte Vespucci, nel punto dove il giorno prima è stato ucciso Idy Diene. C’è nervosismo, più tardi ci sarà qualche protesta più vibrata, il sindaco Nardella verrà contestato. All’inizio però, mentre ancora la situazione è tranquilla, c’è soprattutto voglia di parlare.
I senegalesi – molti di loro sono a Firenze da decenni, e parlano benissimo italiano – si fanno intervistare volentieri, davanti alle tante telecamere spiegano la sensazione di sentirsi bersaglio. “Ormai abbiamo paura – ci dice Alimarie – mia figlia mi chiede se può uscire di casa o se è pericoloso perché è nera”. Intorno a lei, altri ripetono concetti simili. “Firenze non è una città razzista – ci dicono – ma dobbiamo avere il coraggio di isolare chi ci odia. E dobbiamo farlo insieme, bianchi e neri”. (Riccardo Bigi – Toscana Oggi)