Milano – La sua famiglia era approdata in Libia nei primi decenni del Novecento. Nei pressi di Biar Miggi, a ottanta chilometri a sud di Tripoli, tra sudore e voglia di farcela, erano riusciti a tirar su un’azienda di 1.319 ettari che produceva profumose mandorle, succose olive, inebriante uva e persino deliziosi pistacchi: un’oasi che pulsava di Mediterraneo, una comunità che, ripudiati i miti guerreschi, si era messa a costruire lavoro e pace. Un ritmo stabile e regolare quello dei contadini: sveglia all’alba, lavoro di braccia fino alle ore più calde e poi, finalmente, del tempo da dedicare alla famiglia, tra racconti di vita e fantasie, tra bambini da rincorrere e zuppe da preparare. Tutto cadenzato, senza troppi colpi di scena, finché è arrivato il 1° settembre 1969 quando, con un colpo di Stato, il colonnello Gheddafi decise di cacciar via dal Paese i 20 mila italo-libici che vi risiedevano. Mariza D’Anna era lì, aveva otto anni. E oggi ricorda quelle vicende sofferte rendendole pagine di letteratura. “Il ricordo che se ne ha” (edizioni Margana) raccoglie tratti personali e documenti d’epoca, facendo della memoria individuale una memoria collettiva. “Lo status di profughi degli italiani che sono stati cacciati da Gheddafi è una storia poco nota” – afferma la scrittrice – “è la memoria di tre generazioni di italiani. Una memoria fatta oggi di saudade, nostalgia mista a malinconico rimpianto, per un periodo in cui la convivenza pacifica, direi oggi integrazione, la solidarietà tra italiani e popolo arabo potrebbero essere un esempio significativo in tempi difficili come quelli che viviamo, tempi di razzismo strisciante e di intolleranza sociale”. Si tratta di un libro che non lascia indifferenti, poiché racconta sia il positivo di una vita contadina che il disorientamento di una partenza improvvisa. Tra i pregi della narrazione c’è anche l’onestà di non provare a nascondere gli orrori del fascismo. Come puntualizza la stessa scrittrice, infatti, “il popolo libico dal 1911 al 1916 e anche dopo la marcia su Roma ha subito dall’esercito italiano, le peggiori nefandezze: deportazioni nelle piccole isole italiane, campi minati e bombardamenti sulla popolazione civile”. In un miscuglio di sensazioni, ricordi e documenti, la narrazione trasporta il lettore nei panni di chi è stato obbligato a lasciare la propria terra alla ricerca di una nuova vita, di nuove speranze e nuovi progetti. “A quel periodo mi legano ricordi indelebili che hanno lasciato dentro di me un vuoto profondo”- scrive Mariza D’Anna- “ancora adesso certe sere, prima di addormentarmi, ripeto nella mia mente, come una cantilena, una poesia araba che Fatima, la mia tata, mi ripeteva”. Una storia di una famiglia, non è solo una storia di una famiglia. E riportare alla memoria certe vicende sembrerebbe essere un buon antidoto societario per non permettere che certi errori accadano nuovamente. (Damiano Meo)